IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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GIOVANNI BOCCACCIO

 

IL FILOCOLO

 

Romanzo in sette libri, scritto su invito di Fiammetta, ossia Maria d'Aquino, figlia naturale di re Roberto d'Angiò.
Sulla data di composizione non v'è pieno accordo: secondo alcuni il romanzo sarebbe stato scritto per intero negli ultimi anni del soggiorno napoletano del Boccaccio, approssimativamente tra il 1336 e il 1340; secondo altri il Boccaccio avrebbe interrotto la composizione del romanzo verso la fine del terzo libro, dopo la grave delusione seguita alla rottura dei suoi rapporti con Fiammetta, e l'avrebbe poi ripresa e condotta a termine in Firenze tra il 1341 e il 1345. E a non poche discussioni ha dato origine, fin dal Cinquecento, anche il titolo del romanzo, Filocolo, che nell'intenzione dell'autore doveva significare "fatica d'amore", e, nato probabilmente da un lapsus di lettura dal greco, di cui il Boccaccio aveva assai scarsa cognizione, avrebbe dovuto forse essere Filopono, come, corretto, si trova in una edizione veneziana del 1527. Argomento del romanzo è la leggenda di Florio e Biancifiore, diffusissima in tutte le lingue d'Europa; le fonti probabili cui attinse il Boccaccio sono, oltre alla tradizione orale, l'anonimo cantare di Fiorio e Biancofiore e un poemetto franco-veneto, andato perduto, ambedue dipendenti da due omonime redazioni francesi del secolo XIII. Scopo del Boccaccio fu di togliere la delicata leggenda medievale ai "fabulosi parlari degli ignoranti" trasferendola in un clima più leggiadramente e solennemente letterario; e n'è uscito infatti un romanzo dotto, letteratissimo, lussureggiante, in un complicatissimo intreccio di motivi realistici, romanzeschi e autobiografici. Nelle prime pagine del libro, con un procedimento che prelude da lontano a quello poi usato nel Decamerone, la materia del romanzo è, per la narrazione, ricondotta a uno spunto realistico baroccamente travestito alla foggia classica. La dea Giunone si reca dal Pontefice esortandolo ad abbattere la potenza della Casa Sveva e a distruggere anche gli ultimi avanzi della gloriosa stirpe romana; poi scende all'Averno a invocare il soccorso della Furia Aletto contro il novello Enea (re Manfredi), al quale son riserbati destini assai diversi da quelli dell'antico. Il "Vicario di Giunone", cioè il Papa, si rivolge a Carlo d'Angiò, che scende in Italia, sconfigge il novello Enea e fonda il regno retto ai tempi dell'autore da re Roberto, "con l'aiuto di Pallade". Ai tempi appunto di questo illustre e sapiente re, un giorno in cui si celebrava "il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di Plutone" (Pasqua), l'autore scorse in un tempietto una giovane donna di mirabile bellezza che divenne tosto la signora del suo cuore. Qualche giorno dopo l'autore ebbe la ventura di rivedere la sua donna in compagnia di altre in un tempio denominato "dal principe dei celestiali uccelli" (la chiesa del monastero di Sant'Arcangelo a Baiano): egli riesce a farsi accogliere nella leggiadra compagnia, e avendo la sua donna manifestato il desiderio di udire una leggiadra, e non volgare, narrazione degli amorosi casi di Florio e Biancifiore e pregato l'autore di comporre un libretto in lingua volgare, questi si accinge immediatamente a soddisfarla. Così ha inizio la storia. Nei primi lontani tempi dell'età cristiana un nobile romano discendente dagli Scipioni, Quinto Lelio Africano, si reca con la moglie e il seguito in pellegrinaggio al santuario di San Iacopo di Compostella per sciogliervi un voto. Al loro arrivo in Spagna vengono, per un errore diabolico, assaliti dai soldati del re Felice: Lelio e i componenti del seguito sono uccisi, mentre la moglie, Giulia Topazia, è accolta onorevolmente alla Corte del re, resosi, sebben tardi, edotto dell'errore in cui egli era caduto. Giulia Topazia dà alla luce una bambina, Biancifiore, e poi muore; e nello stesso giorno nasce alla regina un fanciullo, Florio. Florio e Biancifiore crescono insieme a Corte e arrivati alla giovinezza s'innamorano l'uno dell'altra. Il re, venuto a conoscenza della passione dei due giovinetti, ignorando l'origine nobiliare di Biancifiore, allontana Florio mandandolo a continuare gli studi nella vicina città di Montorio, mentre Biancifiore è posta su una nave e trasportata verso l'Oriente. Florio, informato della cosa, dopo aver assunto il nome di Filocolo, s'imbarca iniziando un lungo e pericoloso viaggio in cerca di Biancifiore. Volge la prua verso la Sicilia, ma una tempesta lo spinge a Napoli, dove, onorevolmente accolto alla Corte, si trattiene ben cinque mesi.
Vi conosce Fiammetta e Caleone suo amante (Boccaccio), e prende parte alla seduta di una Corte d'Amore, davanti alla quale vengono proposte e dibattute tredici questioni d'amore, due delle quali (la 4ª e la 13ª) offrono lo spunto a due lunghe novelle che si ritroveranno rifuse nel Decamerone (Giornata X, 4; X, 5). L'episodio, lunghissimo, è uno dei più caratteristici, poiché, nei termini trasparentissimi della convenzione romanzesca, ci offre un'ampia descrizione dei gusti e delle consuetudini dell'alta società napoletana ai tempi del soggiorno boccaccesco. Florio riprende il viaggio e approda ad Alessandria d'Egitto, ove viene a sapere che Biancifiore è custodita in una torre, prigioniera dell'Ammiraglio. Corrompe il custode e, nascosto in una grossa cesta di rose, riesce a penetrare nella stanza dell'amata. Scoperti dall'Ammiraglio i due giovani sono condannati a morte, ma li salva l'intervento di Venere che rende invulnerabile i loro corpi. Succede poi una battaglia tra Florio e i suoi amici e le truppe dell'Ammiraglio, il quale, alla fine, commosso da tanto amore e dal valore dei combattenti, perdona a tutti, fa celebrare le nozze di Florio e Biancifiore, venendo così a scoprire che Florio è suo nipote. I due protagonisti iniziano il lungo e festoso viaggio di ritorno, fermandosi a Napoli e a Roma; convertitisi al Cristianesimo, ritornano infine in Spagna dove si fanno efficaci propagandatori della religione novella. Evidente è la sproporzione fra l'argomento e il suo svolgimento. Ma è anche chiaro che il Boccaccio non era minimamente frenato da scrupoli di economia narrativa, e che la leggenda gli offrì semplicemente l'intelaiatura per intesservi, in una vasta e complicata trama, i più vari elementi della sua esperienza e della sua cultura. Di qui il sapore anacronistico del romanzo, poi ché il tono e il colore della fantasia sono suggestivamente realistici, mentre la trascrizione è sempre dominata dal gettito incessante della memoria letteraria. V'è fasto, eleganza, ornamentazione prestigiosa: e il tutto è una delle più vistose manifestazioni dell'eclettismo boccaccesco. La potenza costruttiva, scarsa se si guarda all'economia generale del romanzo, si ritrova invece negli episodi, e, più concentrata, nelle strutture periodiche di una prosa numerosa, sollevata e mormorante in un gioioso e voluttuoso respiro lirico.

Il giovane Boccaccio ci ficca dentro tutta la mitologia, e ad ogni menoma occasione esce fuori con la storia greca e romana. (De Sanctis).

Boccaccio apparisce più inebriato amatore, che non possessore dell'arte. (Carducci).

Certa arte modernissima, quella poniamo faticosamente analitica di un Proust, tanto simile all'arte del lontano Filocolo, apparirà a distanza di anni, non dico di secoli, incredibilmente meno essenziale che non quella del Filocolo, perché l'opera del Boccaccio vive negli affetti e il costume dell'età sua, e l'opera prustiana è un raffinato anacronismo nella nostra. (F. Flora).

Daniele Mattalia

© 2009 - Luigi De Bellis