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GIOVANNI BOCCACCIO
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IL NINFALE FIESOLANO
Poemetto idillico-mitologico, in
ottave pubblicato la prima volta
nel 1477. La data di
composizione non è certa, ma si
può collocare, con
approssimazione, tra il 1344 e
il 1346: quella di stampa è il
1477. Spunto del poemetto è una
favola etiologica, cioè
destinata a spiegare miticamente
il nome di due fiumicelli
toscani, l'Africo e la Mensola.
Ed è insieme la favola delle
prime origini della civiltà in
Toscana. Le colline di Fiesole
erano abitate da ninfe dedite al
culto di Diana e alla caccia. Il
pastore Africo s'innamora di una
di esse, a nome Mensola, ma egli
cerca invano per parecchi giorni
di arrivare fino a lei, poiché
le ninfe fuggono spaventate al
suo aspetto. Per distoglierlo da
così pericoloso amore il padre
del pastore, Girafone, racconta
al figlio la storia di Mugnone
trasformato in fiume per aver
osato amare una ninfa di Diana.
Ma Africo persiste, e incontrata
Mensola la insegue senza
peraltro riuscire a
raggiungerla. Per suggerimento
di Venere, impietosita dalle
pene del giovane pastore, Africo
si veste da ninfa e con questo
stratagemma riesce a conseguire
il suo intento: ma nelle
settimane e nei mesi seguenti
Africo cerca invano la sua
ninfa. Mensola intanto dà alla
luce un bambino e nel suo cuore
sorge, insieme col sentimento
materno, l'amore per Africo, il
quale, disperato di non poter
più rivedere la sua Mensola, si
uccide precipitando nel fiume
che da lui prese il nome. La
scoperta del cadavere di Africo,
il pianto del padre Girafone e i
funerali dànno luogo a una
descrizione profondamente
patetica.
Mensola, intanto, viene
maledetta da Diana, venuta a
conoscenza del reato, e cade nel
fiume che da lei prese il nome
di Mensola. Ma il figlioletto,
Proneo, allevato in casa di
Girafone, diventa poi uno dei
ministri favoriti di Atalante,
fondatore di Fiesole, il quale
pone fine alla disumana rinunzia
all'amore imposta da Diana alle
ninfe, le costringe all'amore e
al matrimonio e sparge su tutta
la regione i benefici di una
nuova e più umana civiltà. Il
Ninfale è il frutto felice della
pienezza giovanile del genio
poetico del Boccaccio. Privo di
fronde e di sovrastrutture
(l'allegoria concettuale vi è
implicita e appena accennata),
esso verte tutto su una patetica
storia d'amore, collocata in un
tempo favoloso e remoto che
rende poeticamente legittimo il
vago color mitologico. Le varie
fasi della passione vi sono
cantate e analizzate con
acutezza e finezza psicologica,
nelle melodiose volute elegiache
dell'ottava narrativa. In realtà
la favola non è che il velo,
poiché, pur fermo a un ideale di
poesia dotta, il Boccaccio,
nell'analisi della passione,
approda poeticamente, e in un
modo nuovo, alla realtà del
sentimento e della natura. E
l'esempio fu fecondo: al Ninfale
Fiesolano infatti fanno capo, a
lor modo, i vari poemetti
idillico-mitologici e rusticali
del Rinascimento italiano, i cui
momenti poetici più alti sono la
Nencia da Barberino del
Magnifico e le Stanze del
Poliziano.
L'autore, non costretto a
gonfiare le gote né a raffinare
i sentimenti, si fa cullare
dolcemente dalla sua
immaginazione in un mondo
idillico. (De Sanctis).
Basterebbe il Ninfale fiesolano,
perché non fosse negato al
Boccaccio l'onore di poeta anche
di versi. (Carducci).
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Daniele Mattalia |
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