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GIOVANNI BOCCACCIO
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TESEIDA
Poema in 12 libri, in ottava
rima, scritto nel 1339-1340,
verso la fine del soggiorno
napoletano dell'autore. Dalla
lettera dedicatoria che precede
il poema appare ch'esso fu
composto su istanza di
Fiammetta, la gentildonna amata
dal Boccaccio, "in latino
volgare acciò che più
dilettasse", e che nelle
peripezie dell'amorosa vicenda
che costituisce l'argomento il
Boccaccio ha poeticamente
trascritto le varie vicende,
prima liete e poi tristi, dei
suoi amorosi rapporti con
madonna Fiammetta. L'argomento
del poema è tratto dalla Tebaide
di Staziò, da un rifacimento
medievale del poema staziano: il
Romanzo di Tebe, e dal notissimo
Romanzo della Rosa. Il fatto
avviene al tempo in cui Teseo
"duca d'Atene" chiude
vittoriosamente la sua campagna
di guerra contro le Amazzoni
scitiche sposandone la regina
Ippolita e conducendo in Atene,
con la sposa, una stia sorella
di nome Emilia, "che di bellezza
passava le belle". Teseo muove
poi guerra a Creonte, tiranno di
Tebe, lo abbatte e conduce seco
prigionieri gran numero di
tebani tra i quali Arcita e
Palemone, che in considerazione
del sangue reale che scorre
nelle loro vene sono trattenuti
in onorevole prigionia nel
palazzo reale. Da una finestra
della loro stanza i due
giovinetti scorgono un giorno in
giardino la bellissima Emilia
che passeggia intrecciando
ghirlande e cantando incantevoli
versi d'amore; e la passione
scoppia fulminea nei due cuori.
La scena si ripete innumerevoli
volte fino all'arrivo della
brutta stagione. Arcita è poi
rimesso in libertà per
intercessione di Piritoo, ma a
condizione che egli, pena la
morte, non ritorni mai più in
Atene; e il giovinetto parte
sospirando e lagrimando. Ma dopo
un anno di sospiri e di
languori, incapace di resistere
più oltre al richiamo d'amore,
Arcita rientra travestito in
Atene e riesce a farsi assumere
come servo nello stesso palazzo
reale.
Emilia lo riconosce ma tace; un
servo di Palemone, però,
riferisce la cosa al suo padrone
il quale, evadendo dal palazzo,
affronta l'amico e rivale in una
chiassosa scenata. Sorpresi da
Teseo e da Emilia, i due giovani
sono costretti a confessare il
motivo segreto della rissa:
Teseo allora, da perfetto
"cavaliere" che ha provato
anch'egli cosa sia amore, decide
che la questione sia definita,
al modo medievale, con un duello
tra i due rivali: ritornino i
due giovani fra un anno per
l'ardua prova. La preparazione e
la descrizione, vivace e piena
di movimento, del gran torneo
offre al poeta l'occasione per
una fastosa e spettacolosa
scenografia romanzesca che par
trasferita tal quale dalle
pagine di un romanzo
cavalleresco. Accorrono come
autentici cavalieri erranti da
ogni dove i più famosi guerrieri
greci del tempo; i due giovani,
dopo aver pregato l'uno Marte e
l'altro Venere, la notte
precedente il duello compiono la
loro vigilia d'armi per poter
essere, secondo le regole
cavalleresche, promossi da
scudieri a cavalieri. E intanto
s'aduna la gran corte composta
"d'alti cavalieri", di
menestrelli e giullari, e
d'altra innumerevole gente con
girifalchi, falconi, sparvieri,
levrieri. Alfine s'ingaggia la
lotta dalla quale Arcita esce
vincitore, ma non senza che
Venere indignata si vendichi
facendogli apparire la mostruosa
Erinni davanti al cavallo che,
impennandosi, getta a terra il
festante cavaliere. Palemone
resta in onorevole prigionia
presso Emilia: e qui finisce la
parte più vivace del poema
(libro IX), che il Boccaccio,
alla ricerca di effetti patetici
in cui esprimere i suoi amorosi
crucci per l'abbandono di
Fiammetta, ha voluto inutilmente
prolungare per altri tre canti,
descrivendo il graduale deperire
di Palemone per mal d'amore, la
sua morte fra le braccia di
Arcita e di Emilia che egli
vuole amanti e sposi felici, la
salita dell'anima al cielo, i
fastosi funerali, i giuochi
funebri, e le splendide feste,
tutte di schietto color
medievale, per le nozze di
Emilia e Arcita. La trama del
Teseida è più vasta di quella
dell'altro poema giovanile: il
Filostrato, e alla sua
composizione il Boccaccio si era
accinto con propositi di alta
ambizione letteraria: di
applicare, primo fra tutti dopo
tanta lirica amorosa e
moralistica, il "volgar lazio"
ad argomenti sostenutamente
epici. In realtà la materia
epica (le due guerre contro le
Amazzoni e contro Tebe),
anch'essa del resto colorata
romanzescamente, è estrinseca
alla vera azione del poema, né
d'epica si può a rigore
qualificare la gran festa
d'armi, tutta romanzesca di tono
e di colore. La sostanza del
poema resta quindi condensata
nella storia d'amore,
macchinosamente ampliata nella
vistosa scenografia degli ultimi
tre canti. Si ha così
l'impressione di una vena
narrativa esuberante che non
riesce ad adagiarsi con piena
naturalezza nelle brevi e troppo
simmetriche strutture
dell'ottava, e tendente a un
ritmo più disteso e capace di
più ampi raccordi sintattici e
musicali. L'interesse del
lettore è attratto soprattutto
dagli episodi, nei quali egli
può ritrovare le qualità maestre
del temperamento boccaccesco: il
fare largo e disteso,
l'esuberanza felice
dell'immaginazione e della
memoria, la concretezza vivace e
spesso festosa del linguaggio.
Fa i personaggi cedere alla
passione senza quel contrasto da
cui viene nell'arte il
drammatico. (Cantù).
La gravità del soggetto e le
intenzioni letterarie
soperchiarono l'autore e lo
tirarono in un mondo epico pel
quale non era nato... Qui hai
assedi, battaglie, congiure di
dèi e di uomini, pompose
descrizioni, artificiosi
discorsi, tutto lo scheletro e
l'apparenza di un poema eroico;
ma nel suo spirito borghese non
entra alcun sentimento di vera
grandezza, e Teseo, e Arcita e
Palemone e Ippolito ed Emilia
non hanno di epico che il manto.
Il suo spirito è disposto a
veder le cose nella loro
minutezza, ma più scende nei
particolari, più l'oggetto gli
si sminuzza e scioglie, il che
ne perde il sentimento e
l'armonia. (De Sanctis).
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Daniele Mattalia |
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