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IL CINQUECENTO
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GRAN GIOCHI DEL CASO E DE LA
SORTE
Sul tema tassiano dei «gran
giochi del caso e de la sorte»
si prendano in considerazione le
seguenti riflessioni di Ezio
Raimondi.
Ha dunque ancora ragione il
Caretti, quando osserva che
nella Liberata i personaggi
«costituiscono i nodi di
confluenza, di implicazione o di
chiarimento, degli impulsi su
cui l'opera si regge,
qualificandosi non tanto per gli
atti che compiono quanto per
l'interno sviluppo delle
passioni onde quegli atti e
quelle vicende procedono». Non
solo diventa inutile distinguere
tra caratteri astratti e
caratteri autobiografici, come
se si rinnovasse in essi il
contrasto tra retorica e poesia,
ma conviene addirittura
sostituire forse alla formula di
personaggio, che già il Fubini,
del resto, identificava con un
«mito», quella di destino. In
effetti, per il Tasso, ogni
personaggio è un destino: ed è
la scoperta che gli concede,
nonostante la sua angusta,
astratta esperienza del mondo e
degli uomini, di rivivere la
grandezza di una storia eroica e
d'illuminarla con lo splendore
di un sogno che non può,
tuttavia, abolire l'angoscia
della morte, l'implacabile
misura del tempo. D'altronde non
sarà un caso che nella Liberata
termini come destino, fato,
sorte ricompaiano con tanta
frequenza: «Cedendo al fato»
dice, per esempio, Armida nel
racconto delle sue finte
peripezie (IV, 42), e poco dopo
invocherà il proprio «destino»
(52) per proclamarlo,
continuando, «crudo, empio,
fatale». Al «fato» di Sofronia
allude anche Olindo (II, 34),
mentre, nel progresso del
medesimo episodio, è detto
«avventuroso» il fato del
giovane. Pronto a ciò che ha
stabilito la sorte (vi, 5),
Argante si accinge a «
incontrare i nemici e 'l suo
fato» (6), convinto, come spiega
subito dopo, che la sua destra
possa dare la vittoria « in vece
di fato e di fortuna» (8).
Allorché Clorinda trascina le
sue schiere contro i Franchi in
ritirata, essa li esorta ad
avanzare perché « 'l fato è
duce» (VII, 117); non altrimenti
il pellegrino che annunzia la
fine di Sveno, narra come l'eroe
abbia affrettato la sua
«fortuna»: una fortuna che,
conforme alla massima stoica,
«traeva» i compagni e
«conduceva» il magnanimo
principe (VIII, 12) verso la
strage di Solimano. «Dolente
fortuna» è pure quella che si
appresta a Erminia (VI, 106)
dopo la sua romantica sortita
notturna; e cosí è la «sua
fortuna» che coglie il possente
Guelfo nel mezzo della
battaglia, guidando contro di
lui «per lontane strade» un
mortale sasso (XI, 59).
Congiunta a quella della guerra,
l'idea della fortuna, come si
vede, finisce con l'essere
sinonimo di morte e con
l'indicare una minaccia che
pende sempre su ogni uomo perché
è scritta negli «eterni annali»
dell'«occulto destino» (X, 20):
senza questa precarietà
dell'esistenza, senza questo
limite insormontabile, che deve
poi suggerire al cristiano la
coscienza dell'effimero, non
potrebbe costituirsi per il
Tasso un mondo eroico. Il «fato»
serba a maggiore nemico Clorinda
e Gildippe (IX, 71); un uguale
«destino», esclama, morendo,
Ariadino, «aspetta» Argillano (IX,
80); e nella descrizione dello
scudo, « morte» e «destino»
risultano per il «buon Foresto»
una cosa sola (XVII, 70). Anche
se di solito queste formule si
riferiscono ai Saraceni, quasi
che il Tasso voglia contrapporre
il loro fatalismo alla fede dei
guerrieri cristiani nella
Provvidenza, è manifesto però
che, a parte gli scrupoli devoti
che portano il poeta a
distinguere (come farà anche,
piú tardi, nelle discussioni
speculative dei Dialoghi) la
«legge» della «sorte
inevitabile» (x, 46) lega tutti
gli uomini: tanto Solimano, che
lascia il campo di battaglia,
gridando cupo contro la natura
nemica: «Vinca al fin... il
fato», quanto l'Eremita «pieno
di Dio» allorché rivela ciò che
il Cielo diede all'aquila
estense «per suo nativo alto
costume» e «per leggi a lei
fatali» (x, 77). In realtà,
sebbene il campo semantico di
fato, anche per l'incidenza
dell'esempio virgiliano, sia
cosí ampio da tollerare valori
diversi, se non proprio opposti,
non scompare mai dal suo fondo
la nozione vaga e oscura della
morte: e «fatale», un'altra
parola di cui il Tasso non può
fare a meno, comporta quasi
sempre l'idea accessoria di
funesto, irreparabile (cfr. XIX,
48) come la morte. Fatale può
essere una spada (V, 44), una
lancia (IX, 65), una donzella (XV,
3), un guerriero (XVI, 33), una
tempesta (XVII, 40), un elmo (XX,
103), una ruina (XIX, 10),
un'andata (XVII, 26), una nave (XIII,
51), una canna (XI, 44), un
nemico (x, 46), un terrore (VII,
116), un orrore (IV, 48). E
fatale è anche tutto ciò che ha
nell'esistenza un significato
decisivo, supremo: un giorno (IV,
43), una notte (XIX, 92),
un'ora; e sarà per l'appunto
l'ora di Clorinda (l'ora della
morte fatale, come ripeterà poi
Argante) in quell'ottava 64a del
canto (XII, il cui tema, grave e
lento, piú ancora che
dall'attacco avversativo, è dato
dalla forza arcana di «fatale»:
«Ma ecco omai l'ora fatale è
giunta, / che 'l viver di
Clorinda al suo fin deve»...
È stato scritto che ciò che
cambia la vita in destino è la
morte. Gli eroi del Tasso sanno
tutti, piú o meno, di dover
morire, di non muovere verso un
«felice fine» (come notava già
lo stesso poeta in relazione
agli amori tragici), di dover
rinunciare a qualcosa per
adempiere il proprio destino: ed
esposti sempre alle «minacce»
della fortuna, conquistano la
loro grandezza, la loro umanità
dolente e frustrata,
nell'istante in cui si trovano
di fronte alla morte, quando il
disegno confuso dei «grandi e
maravigliosi accidenti e
grandemente patetici» che hanno
accompagnato la loro vita assume
un ordine definitivo.
Allora, mentre si accingono ad
attuare una «sorte» cui non
possono sottrarsi, essi
ricuperano tutto il loro passato
e lo vedono finalmente nella
chiarezza dell'assoluto, nella
trasparenza della morte che li
attende. Solimano che mira
dall'alto della torre «l'aspra
tragedia de lo stato umano, / i
vari assalti e 'l fero orror di
morte», e quasi «sorpreso e
folgorato da una presenza
misteriosa», come ha scritto di
recente il Getto, s'innalza a
una «contemplazione universale
della storia e dell'umanità», è
forse l'esempio piú puro di
questo destino-personaggio che
costituisce l'invenzione
profonda della Gerusalemme, la
forza irresistibile del suo
intimismo epico. E chi mediti
poi che nel Soldano, in questo
«novello Anteo» che ha
conosciuto «d'esilio» e sa di
non possedere uno «stabil
regno», può riscoprirsi anche la
vicenda, il destino di un grande
avventuriero del Cinquecento, di
un favoloso pirata del
Mediterraneo, intenderà insieme
come i «gran giochi del caso e
de la sorte» disvelatisi al suo
sguardo di fatale veggente,
fermino, piú che l'immagine di
una vita oramai fuori del tempo,
la sintesi intuitiva di una
esperienza storica nel remoto
stupore per le avventure di un
secolo, la cui volontà di
potenza non basta, per un'anima
cristiana, a nascondere la
natura precaria dell'uomo e
delle sue conquiste.
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Mario
Fubini | |
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