1 |
Non era
ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato. |
|
1 |
Nesso non era, ancora arrivato di là (dal guado), quando
noi entrammo in un bosco che non aveva alcuna traccia di
sentieri. |
4 |
Non fronda
verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco. |
|
4 |
Non c’erano foglie verdi,
ma di colore scuro; non rami lisci e diritti, ma nodosi
e contorti; non frutti, ma spine con veleno: |
7 |
Non han sì
aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. |
|
7 |
quegli animali selvaggi
che (in Maremma) tra il fiume Cecina e la località di
Corneto odiano i luoghi coltivati, non hanno (per loro
dimora) macchie così irte e pungentì e così folte. |
|
Il bosco è rigido, scheletrico, innaturale; l'armonioso
scorrere della vita qui è fissità, desolazione, morte.
Fosco il colore delle fronde; aggrovigliati e come
rivolti contro se stessi ('nvolti) i rami; infine la
cattiveria: spine avvelenate, strumenti di dolore.
L'antitesi, ripetuta tre volte, suggerisce l'innaturalità
del paesaggio. Questo a sua volta è come un'introduzione
a una tragedia innaturale: il suicidio. Come ha
finemente osservato il Sapegno, lo stile elaborato e
aspro di questo canto si accorda, fin dalle terzine
iniziali, "con un proposito di strane e orrende
fantasie, in cui si rifletta e prenda consistenza
poetica l'incubo dì una tragedia che trascende la norma
comune dell'umano sentire". |
10 |
Quivi le
brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno. |
|
10 |
Qui fanno i loro nidi le sozze Arpie,
che costrinsero alla fuga dalle isole Strofadi i Troiani
con la funesta profezia di mali futuri. |
|
Le Arpie, mostri della mitologia classica, per metà
donne e per metà uccelli, cacciarono i Troiani di Enea
dalle isole Strofadi con la profezia della fame che essi
avrebbero dovuto sopportare nel viaggio verso le rive
dei Lazio (Virgilio -Eneide III, 209 sgg). Qui appaiono
come annunciatrici dì un male misterioso che si cela nel
bosco. |
13 |
Ali hanno
late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani. |
|
13 |
Hanno ali larghe, colli e facce di esseri umani, piedi
con artigli, e il grande ventre coperto di penne; si
lamentano, in modo strano, sugli alberi. |
16 |
E 'l buon
maestro «Prima che più entre,
sappi che se' nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre |
|
16 |
E il valente maestro:
"Prima che tu ti inoltri, sappi che sei nel secondo
girone" cominciò a dirmi, "e vi starai fino a quando |
19 |
che tu
verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone». |
|
19 |
tu arriverai
all’orribile distesa sabbiosa: perciò guarda
ripetutamente e con attenzione; così facendo vedrai cose
tali che toglierebbero credito alle mie parole" |
|
Un momento di pausa: la ragione (Virgilio) interviene.
L'uomo (Dante), guardando e esaminando (riguarda ben),
prenda coscienza della realtà; si basi anche
sull'esperienza maturata da altri, ma faccia le proprie
esperienze dirette; la ragione indica la via, dà
suggerimenti di metodo; la sperimentazione è diritto e
dovere dell'individuo. |
22 |
Io sentia d'ogne
parte trarre guai
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai. |
|
22 |
lo sentivo da ogni parte emettere lamenti acuti, e non
vedevo nessuno che li facesse; per questo tutto smarrito
mi fermai. |
25 |
Cred' ïo
ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse. |
|
25 |
Ritengo che Virgilio pensasse che io credessi che voci
così numerose uscissero, (passando) tra quegli alberi
secchi, da gente che si nasc:ondesse a noi. |
|
Alcuni critici hanno voluto attribuire l'uso di artifici
retorici come quello del verso cred'io ch'ei credette
ch'io credesse all'intento di parafrasare lo stile
concettoso di Pier delle Vigne, il protagonista
dell'episodio che sta per cominciare, ma questa
spiegazione non chiarisce la funzione che simili moduli
espressivi hanno sul piano della poesia. In essi
dobbiamo vedere altrettanti mezzi dei quali il Poeta si
serve per esprimere, attraverso la distorsione del
linguaggio, l'errore intellettuale e morale che ha
condotto i suicidi al loro peccato, nonché, al tempo
stesso, l'allucinante atmosfera in cui il loro empio
proposito è maturato.
Qui gli occhi, i sentimenti, l'atto perplesso e
interrogatorio di Dante vanno da Virgilio agli alberi,
da questi alla ricerca dell'origine delle voci, poi
ancora a Virgilio: all'intrico dei rami si aggiunge
questo intrico psicologico, dell'incertezza di Dante. |
28 |
Però disse
'l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi». |
|
28 |
Perciò il maestro disse: "Se tu spezzi
un qualsiasi ramoscello di una di queste piante, i tuoi
pensieri si dimostreranno tutti erronei". |
|
Gli interventi di Virgilio (versi 16 -21, 28 -30) sono
quelli del " maestro "; partecipi ma controllati, calmi,
come di chi assolve un grave dovere; Virgilio sa, dunque
non c'è stupore o timore in lui, ma la sicurezza precisa
e quasi impassibile del chirurgo che guida la mano
incerta (allor porsi la mano un poco avante)
dell'allievo sul corpo dell'ammalato: sappi... riguarda
ben... se tu tronchi. |
31 |
Allor porsi
la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». |
|
31 |
Allora stesi la mano un poco in avanti,
e colsi un ramoscello da un grande albero spinoso; e il
suo tronco gridò: "Perché mi schianti?" |
|
L'inquietante crescendo dei primi trentatré versi,
l'ansia tesa che dal paesaggio, si trasmette all'animo
di Dante, si raccolgono e culminano in questo grido
innaturale: e 'l tronco suo gridò. Un vegetale con voce
umana. E voce che si articola nell'atto più alto
dell'intelletto umano, l'interrogazione, lo strumento
teso alla ricerca della conoscenza perché... Fin qui
Dante aveva, in silenzio, maturato domande; le aveva
tradotte in un gesto (e colsi); ora la risposta è
arrivata, ma rimbalza, terribile domanda, quasi atto
d'accusa, sul richiedente: non hai tu ... ? |
34 |
Da che fatto
fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno? |
|
34 |
Poi, dopo che si coprì di
sangue, ricominciò a dire: "Perché mi strappi? non hai
tu alcun senso di pietà? |
37 |
Uomini
fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb' esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi». |
|
37 |
Fummo uomini, e ora siamo
trasformati in piante selvatiche: la tua mano dovrebbe
essere anche più pietosa, se fossimo state anime di
serpi". |
|
Il bosco ha rivelato il suo segreto: fummo uomini, e ora
siamo fatti sterpi. Le anime dei suicidi che rifiutarono
violentemente il corpo, sono degradate alla prigionia in
queste forme arboree dove, impotenti, soffrono
contorcendosi e contorcendole, con un dolore che
spasima, muto, cieco, sordo, murato nelle fibre del
legno, fino a quando le Arpie, pascendosi delle foglie
fosche, lo accrescono ma anche gli aprono una via di
sfogo: fenestra. |
40 |
Come d'un
stizzo verde ch'arso sia
da l'un de' capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via, |
|
40 |
Come da un tizzone verde
al quale ad una estremità sia appiccato il fuoco, che
dall’altra stilla gocce di umore e stride a causa dell’arla
interna che ne esce, |
43 |
sì de la
scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond' io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme. |
|
43 |
allo stesso modo dal ramo
rotto uscivano insieme parole e sangue; perciò io
lasciai cadere il ramoscello, e rimasi immobile come chi
ha paura. |
|
La similitudine dei legno che lagrima è gìá nel
provenzale Gaucelm Faidít: "Dagli occhi piango - per
dolore - come la legna verde che nel fuoco ardente
s'accende piangendo. In Dante essa esprime un'attenzione
tesa a cogliere nella natura un significato drammatico,
non la pausa lirica, e si inserisce mirabilmente nel
tema che è alla base di questo canto: il perdersi
dell'umano nella natura arborea, il cristallizzarsi
degli alberi nella rigidità della morte. Quando,
attraverso il dolore (il ramoscello spezzato),
l'albero-uomo riprende a vivere, ad esprimersi
(sanguina, parla), questa manifestazione di vita è
simile in tutto ad un processo meccanico, non c'è nulla
di libero in essa. Così, in conseguenza del calore che
ne prosciuga una estremità, l'umidità di cui il pezzo di
legno messo sul fuoco è pregno, affluisce tutta
all'estremità opposta, e di qui geme, si riversa,
condensata in gocce, all'esterno. La reazione di Dante
all'innaturale spettacolo non è analizzata: si
concretizza in un gesto (lasciai la cima cadere) e in un
atteggiamento (stetti come l'uom che teme). "Come spesso
avviene in Dante, un fatto si commenta con un altro
fatto, e non con termini soggettivi."(Aglianò) |
46 |
«S'elli
avesse potuto creder prima»,
rispuose 'l savio mio, «anima lesa,
ciò c'ha veduto pur con la mia rima, |
|
46 |
"Se egli avesse potuto
credere senza provare" rispose il saggio Virgilio: "o
anima ferita, ciò che ha veduto soltanto per mezzo della
mia poesia, |
49 |
non averebbe
in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa. |
|
49 |
non avrebbe stesa la mano
contro di te; ma la cosa, in sé incredibile, mi spinse a
indurlo a compiere un atto che rincresce a me per primo. |
|
Rima sta per poesia; qui in particolare indica il poema
di Virgilio, l'Eneide. Nel libro terzo (versi 19 -68)
Virgilio narra l'episodio di Polidoro, figlio di Priamo
re di Troia, fatto uccidere a tradimento da Polinestore,
re della Tracia, e sul cui tumulo crebbero dei virgulti.
Enea, giunto sul luogo, ne strappò alcuni; dai rami
spezzati e sanguinanti usci la voce di Polidoro. Ma il
senso della trasformazione dell'uomo in pianta è
profondamente diverso, nei versi di questo canto,
rispetto a quello dell'episodio virgiliano. Il contrasto
così netto fin dall'inizio in Dante, tra natura arborea
e natura umana (dal ramo escono parole e sangue), appare
in Virgilio assai più attenuato. Ciò che atterrisce Enea
è il sangue che sgorga dal virgulto spezzato. Solo in un
secondo momento Polidoro parlerà; le sue parole non
saranno più allora motivo di terrore, ma soltanto di
meraviglia. L'idea tragica si diluisce così in una
successione cronologica. Bene osserva in proposito l'Aglianò:
"In Virgilio gli effetti sono sempre anticipati... e al
momento culminante, al gemito e alle parole di Polidoro,
si arriva progressivamente, attraverso un regolare
crescendo... La linea ascendente è invece in Dante
rapidissima". E ancora: "A Virgilio interessava
l'episodio nel suo complesso, il fatto prodigioso,
l'avventura sensazionale, nel quadro generale delle
peripezie di Enea; a Dante interessa far sentire
l'angoscia, la pena anche morale dello stato in cui si
trovano i suicidi".
Nell'episodio di Polidoro il dramma dell'anima-pianta si
risolve in un raffinato contrappunto di impressioni
naturalistiche, non prorompe, come qui, nel grido di una
coscienza offesa (ben dovrebb'esser la tua man più pia).
Va aggiunto inoltre che, mentre questa metamorfosi ha in
Virgilio un valore positivo, essendo per Polidoro "il
risarcimento, accordato dal cielo in compenso
dell'iniqua morte datagli da Polinestore" (Medin), in
Dante è la espressione della condanna inflitta da Dio a
chi si è privato da sé della vita.
Di qui anche la diversità di tono tra i due episodi:
elegiaco nell'Eneide, tragico in questo canto
dell'inferno. |
52 |
Ma dilli chi
tu fosti, sì che 'n vece
d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece». |
|
52 |
Ma digli chi tu fosti, cosicché invece
di un qualche risarcimento ravvivi la tua fama nel mondo
dei vivi, dove gli è lecito ritornare." |
|
Tua fama rinfreschi:
quasi tutti i dannati manifestano il desiderio che la
loro memoria continui a vivere in terra; soprattutto
quelli che, pur essendo peccatori, furono anche
magnanimi e degni, per alcuni aspetti, di ammirazione.
Pier delle Vigne sembra crucciarsi, più che della sua
condizione presente, delle calunnie con le quali è stata
offesa la sua fama, la sua onorabilità. Dante sentirà
pietà di questo cruccio fino a esserne accorato. Non
sarà pietà per la sorte del peccatore che è voluta dalla
giustizia di Dio, alla quale il Poeta cristiano non può
non consentire; sarà invece partecipazione alla giusta
sofferenza di Pier delle Vigne provocata dal
misconoscimento della sua lealtà. |
55 |
E 'l tronco:
«Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch' ïo un poco a ragionar m'inveschi. |
|
55 |
E il tronco (disse): "Mi
attiri, con l’esca delle tue dolci parole in modo tale,
che io non posso tacere; e a voi non pesi se io mi
trattengo un poco a discorrere. |
58 |
Io son colui
che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi, |
|
58 |
Io sono colui, che tenni
tutte e due le chiavi del cuore di Federico, e che le
girai, aprendo e chiudendo, così delicatamente, |
61 |
che dal
secreto suo quasi ogn' uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi. |
|
61 |
che esclusi quasi ogni
altra persona dalla sua intimità: fui tanto fedele al
mio glorioso incarico, che a causa di ciò perdetti la
quiete e la salute. |
64 |
La meretrice
che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio, |
|
64 |
L’invidia, rovina di tutti
è male delle corti, che mai ha distolto il suo sguardo
disonesto dalla corte imperiale, |
67 |
infiammò
contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti. |
|
67 |
aizzò tutti gli animi
contro di me; e gli aizzati aizzarono tanto
l’imperatore, che le gloriose onorificenze si
convertirono in cupi dolori. |
|
Pier delle Vigne nato a Capua alla fine del secolo XII,
studiò legge a Bologna; in gioventù conobbe la miseria e
gli stenti; acquistatosi suoi meriti, fece parte come
notaio della corte imperiale di Palermo, dove entrò
nelle grazie di Federico Il di Svevia, fino a diventare
consigliere segreto, " protonotaro ", giudice della
Magna Curia e cancelliere del Regno di Sicilia. Accusato
- e Dante ritiene a torto - forse di arricchimenti
illeciti, di eccesso di potere e di tradimento, da
cortigiani invidiosi e offesi dalla sua fortuna, dopo
vent'anni di onori, cadde in disgrazia del suo signore
che lo fece incatenare e accecare (1248); l'anno dopo,
disperato, si uccise. Fu uomo colto, raffinato, poeta in
volgare, rinomato per la sua eloquenza e per la maestria
del suo comporre in latino. |
70 |
L'animo mio,
per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto. |
|
70 |
Il mio animo, per sprezzante
compiacimento, credendo che con la morte si sarebbe
sottratto al disprezzo, mi rese ingiusto contro me
stesso (che ero invece) giusto. |
|
Ingiusto fece Me contra me
giusto: la ingiustizia che Pier delle Vigne
fa a se stesso è anzitutto violazione di un diritto
inalienabile: il diritto alla vita. Per un cristiano
l'uomo non può togliersi la vita, essendo questa un dono
di Dio. Con molta penetrazione si esprime in proposito
un antico commentatore, il Buti: "Quelle cose che l'uomo
non si può dare, non si dee togliere; anzi le dee tenere
quanto vuole colui che gliele dà; e, se le rifiuta,
ragione è che non le riabbia".
L'ingiustizia, che il protonotaro imperiale ha commesso
uccidendosi, non va quindi considerata soltanto in
rapporto alla sua vita giusta, ma in rapporto alla sua
vita senza ulteriori specificazioni di valore. In altri
termini, agli occhi di Dio l'atto del suicida è
altrettanto riprovevole qualunque sia la validità morale
delle opere da questo compiute in vita. Naturalmente,
sul piano umano, e agli effetti della poesia, il fatto
che Pier delle Vigne si uccida senza aver nulla da
rimproverarsi colora di patetico la sua tragedia.
Giova ricordare ìn proposito come tutte le vicende che,
nella Commedia, le anime narrano di se stesse, sono dal
Poeta concepite come messaggi di verità morale che ci
giungono dal mondo dove più non si può mentire; le
azioni più abominevoli, per il fatto di proporsi come
esempi negativi, acquistano la dignità del sacro.
Nessuna però di queste storie, messe nella cornice
dell'al di là, a contrasto con la condizione eterna, di
chi ne fu il protagonista, è in Dante soltanto un
esempio: quale più quale, meno, tutte sfuggono ad una
definizione unilaterale e aprioristica delle nozioni di
bene e di male in esse contenute. Come in tutta la
grande arte, questa definizione è in Dante sempre
proposta, mai imposta: lo schema, concettuale si invera
di continuo nella varia e ricca umanità dei suoi
personaggi. |
73 |
Per le nove
radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno. |
|
73 |
Per le mostruose radici di questo
albero vi giuro che mai venni meno alla fedeltà verso il
mio signore, che fu tanto degno di rispetto. |
|
E' del De Sanctis l'osservazione che fino a questo
appassionato giuramento Pier delle Vigne ha parlato
senza commuoversi, esprimendosi in una forma ricercata
(in cui è come un compiacimento per la propria perizia
di maestro dell'ars dictandi) e sottile, e che solo di
fronte all'accusa di tradimento egli palesa, attraverso
il dolore, la propria umanità, mentre il suo linguaggio,
libero infine da ogni preoccupazione formale, ritrova la
schiettezza delle grandi passioni: "vi è una cosa, una
sola cosa seria che gli pesa, l'infamia che si tenta
gittare sulla sua memoria, l'accusa che gli è lanciata
di traditore. Qui è il patetico del racconto: qui la sua
immaginazione si scalda, di sotto alla veste del
cortigiano spunta l'uomo, e il suo linguaggio diviene
semplice ed eloquente". |
76 |
E se di voi
alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede». |
|
76 |
E se l’uno o l’altro di
voi torna nel mondo, renda giustizia alla mia memoria,
che è ancora prostrata per il colpo che l’invidia le
inferse". |
79 |
Un poco
attese, e poi «Da ch'el si tace»,
disse 'l poeta a me, «non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». |
|
79 |
Virgilio attese un poco, e
poi mi disse: "Dal momento che egli tace non perdere
tempo; ma parla, rivolgigli domande, se hai piacere di
sapere di più". |
82 |
Ond' ïo a
lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora». |
|
82 |
Perciò io dissi a lui:
"Domanda ancora tu ciò che credi possa appagarmi; perché
io non potrei, da così grande pietà sono toccato nel
cuore!" |
85 |
Perciò
ricominciò: «Se l'om ti faccia
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia |
|
85 |
Perciò riprese: "Se ti
verrà fatto spontaneamente il favore che le tue parole
chiedono in tono di preghìera, spirito prigioniero, ti
sia gradito ancora |
88 |
di dirne
come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega». |
|
88 |
di dirci in che modo
l’anima si rapprende in questi duri nodi; e rivelaci, se
puoi, se mai qualche anima si libera da simili membra". |
91 |
Allor soffiò
il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi. |
|
91 |
Allora il tronco soffiò
forte, e poi quel soffio si convertì in tali parole "Vi
sarà data una risposta breve. |
|
Il suo secondo discorso - premette Pier delle Vigne -
sarà una breve comunicazione. In realtà i sedici versi
di cui è composto non sono pochi, soprattutto se
paragonati ai ventiquattro del primo. Brevemente sta
però a significare la volontà dell'anima di non parIar
troppo del proprio supplizio; il tono è staccato,
oggettivo, impersonale: sarà risposto a voi. |
94 |
Quando si
parte l'anima feroce
dal corpo ond' ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce. |
|
94 |
Quando l’anima crudele
(contro il corpo) si separa dal corpo dal quale essa
stessa si è strappata, Minosse la manda al settimo
cerchio. |
97 |
Cade in la
selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta. |
|
97 |
Cade nella
selva, e non le è prescelto il luogo; ma là dove il caso
la scaglia, qui germoglia come seme di frumento. |
100 |
Surge in
vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra. |
|
100 |
Cresce in
forma di virgulto e di pianta selvatica: poi le Arpie,
pascendosi delle sue foglie, le procurano dolore, e un
varco alle manifestazioni di esso. |
103 |
Come l'altre
verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie. |
|
103 |
Come le altre (anime)
verremo (nella valle di Giosafàt) a riprendere i nostri
corpi, ma non per questo alcuna di noi se ne rivestirà,
poiché non è giusto avere ciò di cui ci si è privati. |
106 |
Qui le
strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta». |
|
106 |
Trascinererno penosamente
i nostri corpi (fin qui), ed essi saranno appesi nella
mesta selva, ciascuno alla pianta in cui è chiusa la sua
anima nemica a se stessa". |
|
L'anima, mentre dà le notizie
richieste sul proprio itinerario attraverso l'inferno
(si parte... la manda... cade... la balestra...
germoglia... surge), si fa a poco a poco nuovamente
partecipe, della sua estrema vicenda: l'anima del
suicida è feroce contro il corpo dal quale s'è divelta,
strappata con violenza e sforzo come radice dal proprio
terreno, e contro se stessa; e alla fine - dopo la
prefigurazione oggettiva della processione che seguirà
al Giudizio Universale - scopre con un brivido, fra
tanti corpi, il suo: ciascuno al prun. |
109 |
Noi eravamo
ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi, |
|
109 |
Noi eravamo ancora tutti
intenti all’albero, credendo che ci volesse dire altre
cose, quando fummo sorpresi da un rumore, |
112 |
similemente
a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire. |
|
112 |
come colui che sente
arrivare il cinghiaie e i cani e i cacciatori al luogo
dove si è appostato, e ode le bestie e lo stormire delle
fronde. |
|
Finora
questo canto è stato quasi totalmente privo di azione
apparente, anche se ricchissimo di svolgimenti
psicologici. Qui, con notevolissimo risalto, irrompe
nell'immobile il movimento. "La selva che credevamo
ormai di conoscere ci rivela ignote paurose profondità
sprigionando dal suo oscuro seno inattesi esseri umani e
inattesi mostri, in un tumulto di caccia, dove con
infernale travolgimento il cacciato è l'uomo." (Parodi) |
115 |
Ed ecco due
da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta. |
|
115 |
Ed ecco apparire due dal
lato sinistro, nudi e pieni di graffi, che scappavano
così in fretta, da rompere ogni fronda del bosco. |
118 |
Quel
dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte |
|
118 |
Quello (che correva)
davanti (gridava): "Presto corrimi in aiuto, corrimi in
aiuto, o morte!" E l’altro, che si accorgeva di restare
pericolosamente indietro, gridava: "Lano, non furono
così abili |
121 |
le gambe tue
a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo. |
|
121 |
le tue gambe nella
battaglia del Toppo! "E poiché forse gli mancava il
fiato, di sé e di un cespuglio fece un viluppo annodato
strettamente. |
|
Dilapidatori dei propri beni, quindi nudi, inseguiti
dalle cagne (forse i rimorsi o, secondo alcuni, i
creditori), i due sono Lano da Siena (forse Ercolano
Maconi), ucciso a Pieve del Toppo in una battaglia fra
Senesi e Aretini (alle giostre: ai tornei; è detto con
crudele ironia), e Giacomo da Sant'Andrea, padovano,
morto nel 1239, famoso per le sue stravaganze.
Lano grida invocando una seconda morte impossibile; il
compagno è colui che "si sente rimaner solo nel pericolo
e grida dietro all'altro uno scherno ch'è una
maledizione, in cui si fondono insieme invidia e
disperazione"(Parodi). |
124 |
Di rietro a
loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena. |
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124 |
Dietro di loro c’era la
selva piena di nere cagne, bramose e veloci come cani da
caccia sguinzagliati in quel momento, |
127 |
In quel che
s'appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti. |
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127 |
Azzannarono quello che si
era nascosto (nel cespuglio), e lo lacerarono pezzo per
pezzo; poi se ne andarono portando (con sé) quelle
membra dolenti. |
130 |
Presemi
allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano. |
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130 |
Allora la mia guida mi
prese per mano, e mi condusse al cespuglio che piangeva
inutilmente attraverso gli squarci sanguinanti. |
133 |
«O Iacopo»,
dicea, «da Santo Andrea,
che t'è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?». |
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133 |
Diceva il cespuglio: "O
Giacomo da Sant’Andrea, a che ti è servito farti scudo
di me? che colpa ho io della tua vita colpevole?" |
136 |
Quando 'l
maestro fu sovr' esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?». |
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136 |
Quando il maestro si fermò
presso di lui, disse: "Chi fosti, che attraverso tante
ferite emetti parole dolorose insieme a sangue?" |
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Il bosco non è costituito di soli alberi; come le selve
maremmane non tocche ancora dall'uomo, che Dante prende
come punto di partenza naturale per la sua fantasia:
esso è un intrico quasi impenetrabile di piante grandi e
piccole, sterpi, alberi, bronchi, pruno, vermena, pianta
silvestra, e poi ancora una proliferazione di fronde,
rami, ramicel, stecchi, frasche, fraschette, rosta,
punte, cesto. Pier delle Vigne, anima nobile, è un gran
pruno; ora invece Virgilio è fermo, ritto presso un
cespuglio: un'anima da poco.
Chi fosse non si sa. Il Boccaccio parla dei molti
suicidi fiorentini di quel tempo: forse Dante lo ha
lasciato di proposito anonimo. E' un fiorentino: i' fui
della città... e tanto basta.
La selva infernale scompare in dissolvenza, e dietro, a
chiusura di canto, si profila Firenze, l'altra città di
Satana, gemella di Dite, la tua città, che di colui è
pianta che pria volse le spalle al suo fattore (Paradiso
IX, 127-128). Ancora una volta l'inferno ha la sua
controfigura in terra. |
139 |
Ed elli a
noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde sì da me disgiunte, |
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139 |
Ed egli (rispose) a noi:
"O anime che siete arrivate per vedere lo strazio
indecoroso che ha staccato con tanta violenza le mie
fronde da me stesso, |
142 |
raccoglietele al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò 'l primo padrone; ond' ei per questo |
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142 |
radunatele ai piedi del
cespuglio miserevole. Io fui della città (Firenze) che
mutò il primo patrono (Marte) con il Battista (San
Giovanni Battista); onde egli (Marte) a causa di ciò |
145 |
sempre con
l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista, |
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145 |
sempre la affliggerà con
la sua arte (la guerra); e se non fosse che sul ponte
dell’Arno rimane ancora un’immagine di lui, |
148 |
que'
cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno. |
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148 |
quei cittadini che più
tardi la fondarono nuovamente sulle ceneri rimaste dopo
Attila, avrebbero fatto fare il lavoro inutilmente. |
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La distruzione di Firenze ad opera di Attila - confuso
con Totila re dei Goti, che assediò la città nel 542 - è
leggenda. Come osserva l'Aglianò, Firenze appare, nelle
parole di questo suicida, "dominata da un potere
diabolico". Il suo destino sembra dipendere "da quel
frammento di statua, quasi da un idolo". Al riparo
dell'effigie (coniata sul fiorino) del patrono cristiano
operano ancora gli influssi malefici dell'antico dio
della guerra: una minaccia di annientamento incombe
sulla città dilaniata dalla discordia e induce i suoi
abitanti al suicidio. |
151 |
Io fei
gibetto a me de le mie case». |
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151 |
Io mi impiccai nella mia casa". |