IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

 
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 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI INFERNO CANTO XVI°

1 Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo
de l'acqua che cadea ne l'altro giro,
simile a quel che l'arnie fanno rombo,
  1 Mi trovavo già in un luogo dal quale si udiva il fragore dell’acqua (del fiumicello) che precipitava nel cerchio seguente, simile a quel ronzio cupo che producono gli alveari,
4 quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d'una torma che passava
sotto la pioggia de l'aspro martiro.
  4 allorché tre ombre si staccarono contemporaneamente, correndo, da una schiera che passava sotto la pioggia del crudele supplizio.
  I due poeti sono giunti in un punto in cui è percepibile il rumore che fanno le acque del Flegetonte, convogliate nel fiumicello che esce dalla selva dei suicidi, precipitando nell'ottavo cerchio. A un rumore ancora avvertito in lontananza e come indistinto. E' stato messo in rilievo, nel succedersi dei suoni cupi della similitudine contenuta nell'ultimo verso della prima terzina, come un equivalente fonico dell'immagine che essa ci comunica. Questa immagine non ha tuttavia nulla di terribile come è parso ad alcuni; essa anzi, introducendoci nell'atmosfera di questo canto - nel quale l'orrore della pena infernale è di continuo attenuato dall'affettuoso rispetto dei Poeta per i dannati che ivi incontra - mira a dissipare, con l'evocazione di una natura docile all'uomo, quello che di misterioso e di ineluttabile era contenuto nei primi due versi della terzina. Al rimbombo del fiume infernale si sovrappone il più familiare rombo delle arnie, alle tenebre che non consentono al Poeta di individuare il posto in cui si trova se non attraverso un confuso dato acustico, si sostituisce, implicitamente contenuta nell'immagine, la campagna serena e assolata, nella quale le api armonicamente, in fervida concordia, attendono al loro lavoro.
7 Venian ver' noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava».
  7

Venivano verso di noi, e ciascuna gridava: "Fermati tu che dall’abito ci sembri essere uno della nostra città malvagia".

  Le tre ombre che corrono verso l'argine sul quale si trovano Dante e Virgilio sono quelle di tre uomini politici fiorentini di parte guelfa, appartenenti alla generazione che precedette di poco quella del Poeta. Non deve apparire strano il fatto che riconoscano in lui immediatamente un loro concittadino. Scrive il Boccaccio, che a quei tempi "quasi ciascuna città aveva un suo singular modo di vestire, distinto e variato da quello delle circunvicine" . I Fiorentini portavano il " lucco " (veste senza pieghe stretta alla vita) e il cappuccio.

Fin da questi versi di apertura dell'episodio è fortemente messo in rilievo il sentimento che spinge le tre anime dannate a interrogare Dante: l'amore di patria. Come in Farinata, questo sentimento sembra quasi abolire in esse per un attimo la coscienza del luogo in cui si trovano. Ma Farinata è immobile, torreggia solitario in un atteggiamento di disprezzo: la tragedia nel canto degli eretici si sviluppa a poco a poco entro una cornice di epica grandezza. Qui la situazione fin dall'inizio appare diametralmente opposta a quella dell'incontro con Farinata: i tre concittadini del Poeta, ch'a ben far puoser li 'ngegni (Inferno VI, 81), corrono verso di lui e neppure si fermano nel rivolgergli la parola. Il loro affanno è bene messo in evidenza in un verso all'apparenza puramente descrittivo - venìan ver noi, e ciascuna gridava - in cui al generico plurale venìan, inteso ad esprimere l'automatico accordarsi dei loro movimenti esteriori, si contrappone il singolare gridava, ad indicare l'incoercibile spontaneità del loro sentire.
10 Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.
  10 Ahimè, quali ferite recenti e antiche, aperte dalle fiamme, vidi nelle loro membra! Ne provo ancora dolore soltanto a ricordarmene.
13 A le lor grida il mio dottor s'attese;
volse 'l viso ver' me, e «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese.
  13 Alle loro grida Virgilio fermò la propria attenzione; volse il viso verso di me, e disse: "Aspetta: bisogna essere cortesi con costoro.
16 E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i' dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta».
  16 E se non fosse per le fiamme che la natura del luogo scaglia, direi che converrebbe a te più che a loro l’affrettarsi".
19 Ricominciar, come noi restammo, ei
l'antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.
  19 Non appena ci fummo fermati, essi ripresero (a muoversi) nel solito modo; e quando furono giunti presso di noi, si disposero in cerchio tutti e tre,
22 Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,
  22 come sono soliti fare i lottatori nudi e unti, nel momento in cui cercano con gli occhi la presa più vantaggiosa, prima di colpirsi e ferirsi a vicenda;
25 così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che 'n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.
  25 e così girando, ciascuno volgeva il viso verso di me, in modo che il collo si muoveva continuamente in direzione opposta a quella dei piedi.
  L'immagine della rota con tutto quello che di meccanico essa evoca (non un movimento indirizzato a un fine, ma una periodicità insensata), sottolinea in senso grottesco la reale condizione di queste anime: nonostante i loro grandi meriti sono dei dannati. La loro libertà interiore, la schiettezza del loro modo di esprimersi, propria di chi è stato uomo d'azione (quale differenza fra i loro discorsi e quelli di un Pier delle Vigne, ad esempio!), il loro appassionato disinteresse, per cui i loro dolori personali sono come obliati nella contemplazione delle sciagure di Firenze, vengono di continuo contraddetti da quanto c'è di ridicolo nei loro movimenti: la rota e il continuo viaggio che fanno i loro colli. A sua volta, però, l'immagine della rota si umanizza e si nobilita in quella dei campion, attraverso la quale è anche suggerita la figura morale di questi dannati, che in vita furono dei lottatori, sostenitori dell'idea guelfa in Firenze.
La similitudine dei campion si riferisce, secondo alcuni, ad un uso diffuso nel Medioevo: il giudizio di Dio, al quale si faceva ricorso allorché due parti non avevano argomenti sufficienti per dirimere una controversia.
28 E «Se miseria d'esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
cominciò l'uno, «e 'l tinto aspetto e brollo,
  28 E "Se la triste condizione di questo luogo sabbioso e il nostro aspetto annerito e devastato rendono spregevoli noi e le nostre preghiere" cominciò uno di essi
31 la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se', che i vivi piedi
così sicuro per lo 'nferno freghi.
  31 "la nostra fama induca il tuo animo a dirci chi sei tu, che così immune da tormenti cammini ancora vivo nell’inferno.
  In queste prime parole che Jacopo Rusticucci (dirà egli stesso il proprio nome alla fine del suo discorso) rivolge a Dante, si sente l'esitazione, il dubbio che tormenta questi dannati: "temono che vedendoli... [il Poeta] li abbia in dispregio. E perché sentono che così meriterebbero, al noi aggiungono subito: e nostri prieghi, ben sapendo la durezza d'animo che ci vorrebbe a disprezzare anche le preghiere degli infelici" (Pietrobono).
34 Questi, l'orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:
  34 Questo, di cui mi vedi calpestare le orme, benché cammini nudo e spellato, fu di condizione più elevata di quanto tu possa credere:
37 nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.
  37 fu nipote della virtuosa Gualdrada; ebbe nome Guido Guerra, e nella sua vita si distinse per ingegno e valore,
  Il primo dei dannati presentati a Dante da Jacopo Rusticucci è Guido Guerra, appartenente alla famiglia dei conti Guidi, valoroso combattente di parte guelfa, nato verso il 1220. Bandito da Firenze dopo la sconfitta di Montaperti (1260), fu capo dei fuorusciti guelfi nella battaglia di Benevento (1266), combattuta contro i Ghibellini di re Manfredi, figlio di Federico II. Questa battaglia segnò il crollo delle fortune del partito ghibellino in Italia. Guido Guerra era, come qui viene ricordato. nipote di Gualdrada, figlia di Bellincione Berti de' Ravignani, il quale sarà presentato dal Poeta, attraverso le parole dell'antenato Cacciaguida (Paradiso XV, 112-113), come il modello del fiorentino frugale di antico stampo. Molte leggende celebravano, ai tempi di Dante, insieme alla sua bellezza, la virtù di Gualdrada.
40 L'altro, ch'appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.
  40

L’altro, che dietro me calpesta la rena, è Tegghiaio Aldobrandi, le cui parole avrebbero dovuto essere apprezzate nel mondo.

  Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, Il "cavaliere savio e prode in arme e di grande autoritade" (Villani - Cronaca VI, 78), appartenne anch'egli al partito guelfo. Si narra che tentò vanamente di dissuadere i suoi concittadini dall'intraprendere la spedizione contro i Senesi e i fuorusciti ghibeilíni comandati da Farinata degli Uberti, spedizione destinata a concludersi tragicamente a Montaperti (1260). Per questo Dante fa dire a Jacopo Rusticucci che i pareri espressi da Tegghíaio avrebbero dovuto essere tenuti in maggior considerazione.
43 E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch'altro mi nuoce».
  43

Ed io che sono posto con loro nel tormento, fui Jacopo Rusticucci e son certo che il ricordo della mia bisbetica moglie più di tutto mi nuoce".

  Come di Tegghiaio Aldobrandi, anche di Jacopo Rusticucci Dante aveva chiesto notizie a Ciacco, ricordandolo tra i protagonisti della storia recente di Firenze. Secondo l'Anonimo Fiorentino fu "valoroso uomo e piacevole". Non abbiamo molte altre notizie di lui. Nelle parole che il Poeta gli attribuisce appare un velato cenno al suo peccato (e certo la fiera moglie più ch'altro mi noce).
46 S'i' fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che 'l dottor l'avria sofferto;
  46 Se io fossi stato al riparo dal fuoco, mi sarei lanciato di sotto in mezzo a loro, e credo che Virgilio lo avrebbe permesso;
49 ma perch' io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
  49 ma poiché sarei stato arso dalle fiamme, il timore prevalse sul mio lodevole desiderio che mi rendeva bramoso di abbracciarli.
52 Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,
  52 Poi cominciai: "La condizione nella quale vi trovate non ha suscitato in me disprezzo, ma un dolore tanto grande che passerà molto tempo prima che io me ne liberi completamente,
55 tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i' mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.
  55 allorché Virgilio mi disse parole dalle quali argomentai che si avvicinassero anime grandi quali voi siete.
58 Di vostra terra sono, e sempre mai
l'ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.
  58 Appartengo alla vostra città, e ho sempre appreso e ascoltato le vostre opere e i vostri nomi onorati con commozione.
  Nota opportunamente il Montanari come l'affetto che Dante sente per questi concittadini "è più impetuoso e fiero di quello per Brunetto che pur aveva, a differenza di questi, conosciuto familiarmente". L'incontro con queste tre anime è "più drammaticamente concitato" di quello col suo antico maestro, risolto in una tonalità elegiaca, poiché in Dante "la passione di patria ha accenti più sonori dell'affetto familiare".
61 Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi».
  61

Lascio l’amarezza del peccato e mi dirigo verso i dolci frutti del bene a me promessi dalla mia guida (Virgilio) veritiera; ma occorre che io precipiti prima fino al centro (della terra)".

  In questa terzina il Poeta riassume, come già nella risposta a Brunetto Latini, ma in forma più concisa, armonizzando così il suo modo di parlare a quello dei suoi interlocutori, la vicenda del suo viaggio nell'al di là. Riappare per un attimo il linguaggio simbolico, di chiara intonazione scritturale (lo tele... dolci pomi), che aveva caratterizzato il suo colloquio con il notaio fiorentino nel canto precedente.
64 «Se lungamente l'anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca,
  64 "Possa tu vivere a lungo" rispose ancora quello," e la tua fama risplendere dopo la tua morte,
67 cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n'è gita fora;
  67 ma di’ se nella nostra città abitano ancora cortesia e valore così come solevano, o se sono completamente scomparsi;
70 ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole».
  70 poiché Guglielmo Borsiere, il quale da poco soffre qui con noi, e cammina là con i compagni, ci addolora molto con le sue parole."
  Come già nell'episodio di Farinata, sembra che anche per questi tre Fiorentini i tormenti dell'inferno passino in seconda linea di fronte all'interesse che essi nutrono per la sorte della loro città. Ma in loro la carità del natìo loco (Inferno XIV, 1) è più pura che in Farinata: essi non guardano agli interessi della patria attraverso quelli del loro partito; la loro dedizione va intera a Firenze, al di là di ogni discordia intestina; la loro attenzione si rivolge, non al fatto politico in sé, ma ai suoi riflessi civili e morali (cortesia e valor di' se dimora).

Guglielmo Borsiere fu, secondo il Boccaccio, "cavalier di corte, uomo costumato molto è di laudevol maniera".
73 «La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».
  73

"La gente nuova (pervenuta di recente alle cariche politiche e arrivata in gran parte dal contado) e gli improvvisi guadagni hanno prodotto superbia e sfrenatezza, in te, Firenze, tanto che già te ne duoli."

  L'apostrofe di Dante, una delle più celebri della Commedia, ripropone, in questa terzina, quelli che già negli episodi di Ciacco e di Brunetto Latini sono stati considerati i motivi determinanti del corrompersi delle antiche virtù in Firenze. Qui, alla domanda di Jacopo Rusticucci, ansioso di sapere la sorte toccata in Firenze a cortesia e valor, il Poeta risponde rivolgendosi, nel tono degli antichi profeti, direttamente alla sua città: al binomio cortesia e valor, se ne oppongono, nelle sue parole, due, quasi a rafforzare, col peso delle determinazioni, la durezza della sua affermazione: la gente nova e' subiti guadagni, cui fa eco, subito dopo, il duplice complemento oggetto orgoglio e dismisura. Nel drammatico prorompere del suo dolore Dante insiste sulla presenza in Firenze del male, più che soffermarsi sul suo primo manifestarsi nel tempo: ecco perché i quattro sostantivi che questo male denunziano sono anteposti, come a formare un unico indissolubile blocco, al verbo che sintatticamente li unisce (han generata).
76 Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l'un l'altro com' al ver si guata.
  76 Così gridai a testa alta; e i tre, che interpretarono queste parole come una risposta, si guardarono l’un l’altro come ci si guarda quando si ode una verità (che rattrista).
79 «Se l'altre volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!
  79 "Se ti costa sempre così poco sforzo" risposero tutti "accontentare gli altri, te fortunato se riesci ad esprimerti così bene!
82 Però, se campi d'esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere "I' fui",
  82 Perciò, possa tu scampare a questi luoghi oscuri e tornare a rivedere le belle stelle, quando ti sarà dolce dire "Io fui (nell’inferno)",
85 fa che di noi a la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.
  85 (in nome di questo augurio) fa in modo di parlare alla gente di noi." Quindi ruppero il cerchio, e le loro agili gambe sembrarono ali nel fuggire.
  Il Momigliano attira l'attenzione, a proposito di questa immagine, sulla "precisione visiva di rupper" e sull'impressione che da tutto il periodo scaturisce, "d'una ruota che si spezza in tanti raggi sbalestrati nell'aria".
88 Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com' e' fuoro spariti;
per ch'al maestro parve di partirsi.
  88 Non si sarebbe potuto pronunciare un amen così rapidamente come essi sparirono; e perciò Virgilio giudicò opportuno che ci allontanassimo.
91 Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.
  91 Io lo seguivo, ed avevamo percorso poco cammino, quando il fragore dell’acqua ci fu così vicino, che se avessimo parlato ci saremmo uditi appena.
94 Come quel fiume c'ha proprio cammino
prima dal Monte Viso 'nver' levante,
da la sinistra costa d'Apennino,
  94 Come quel fiume che, per primo (per chi guarda) dal Monviso verso levante, ha (tra i fiumi che nascono) dal versante sinistro dell’Appennino, un corso interamente suo,
97 che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
  97 il quale nella parte superiore si chiama Acquacheta, prima di scendere nel suo alveo in pianura, e a Forlì non ha più quel nome
100 rimbomba là sovra San Benedetto
de l'Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
  100 rimbomba sopra San Benedetto dell’Alpe per il fatto che precipita attraverso una sola cascata ove dovrebbe essere ricevuto da mille (cascate),
103 così, giù d'una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell' acqua tinta,
sì che 'n poc' ora avria l'orecchia offesa.
  103 così trovammo che rimbombava quell’acqua oscura, riversandosi attraverso un pendio ripido, in modo tale che avrebbe in poco tempo danneggiato l’udito.
  Anche questa similitudine, così ricca di riferimenti ad una realtà che non pare concedere nulla all'insorgere del sentimento, così minuziosa nella determinazione di particolari apparentemente superflui (come, ad esempio, quello riguardante il nome che il fiume, il Montone, ha, prima di precipitare nella cascata sopra San Benedetto dell'Alpe), è concepita in funzione di quella umanizzazione della cupa atmosfera infernale già rilevata nelle similitudini delle arnie e della rota. Come opportunamente scrive il Caretti, "tutta la serie delle precisazioni geografiche (inutili soltanto per chi tenga d'occhio la similitudine in se stessa) hanno lo scopo di togliere ogni carattere fantomatico al fragore ormai vicino e di prepararci progressivamente all'incontro con la ripa discoscesa e con l'acqua tinta".
106 Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
  106

Io avevo una corda legata intorno (ai fianchi), e con essa avevo pensato una volta di catturare la lonza dal manto screziato.

  Il significato del simbolo adombrato nella corda è piuttosto oscuro. Non sembra che in essa possa vedersi, come voleva un antico commentatore, il Buti, il cordiglio francescano. Tra le varie ipotesi avanzate al riguardo, grande credito ha goduto quella dello Scartazzini, secondo il quale la corda alluderebbe alla castità che vince la lussuria (simboleggiata dalla lonza). La corda non servirebbe ormai più a Dante, "dal momento che egli ha lasciato dietro di sé l'ultimo cerchio dove si puniscono peccati di lussuria" (quelli dei violenti contro natura). Egli può quindi a questo punto liberarsene. Secondo un'altra interpretazione, essa non designerebbe soltanto una difesa contro la lussuria, ma anche contro la frode (il peccato punito nei due cerchi che il Poeta si appresta a visitare) : in essa dovremmo pertanto vedere, oltre la mortificazione della carne, anche il senso della legalità, il potere della legge. "La corda è gettata via prima che Dante scenda tra i fraudolenti, perché la legge si rivela insufficiente quando a sostegno della colpa sopravviene l'ausilio dell'intelletto, quando il peccatore si arrocca nelle agili formule del farisaismo leguleio..." (Pasquazi)
109 Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta,
sì come 'l duca m'avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
  109 Dopo essermi completamente slegato, così come mi aveva ordinato Virgilio, gliela porsi stretta e avvolta.
112 Ond' ei si volse inver' lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell' alto burrato.
  112 Per cui egli si volse verso destra, e la gettò giù in quel profondo precipizio alquanto lontano dalla sponda.
115 «E' pur convien che novità risponda»,
dicea fra me medesmo, «al novo cenno
che 'l maestro con l'occhio sì seconda».
  115 "Eppure occorre che qualcosa di nuovo appaia" dicevo fra me stesso "in risposta al segnale inusitato che Vìrgìlio segue con lo sguardo così attentamente."
118 Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l'ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!
  118 Ahi quanto prudenti devono essere gli uommi davanti a coloro che non vedono soltanto le azioni, ma penetrano con l’inteffigenza dentro i pensieri!
121 El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch'al tuo viso si scovra».
  121 Egli mi disse: "Fra poco salirà ciò che attendo e che il tuo pensiero confusamente immagina: fra poco dovrà apparire alla tua vista".
124 Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna
de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;
  124 L’uomo deve sempre tacere, finché può, quella verità che ha apparenza di menzogna (per il fatto che è incredibile), poiché essa, senza che egli ne abbia colpa, lo pone nella condizione di vergognarsi;
127 ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s'elle non sien di lunga grazia vòte,
  127 ma a questo punto non posso tacere (la verità); e sui versi di questa commedia, o lettore, ti giuro, così possano essi non essere privi di accoglienza gradita che duri a lungo,
130 ch'i' vidi per quell' aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
  130 che vidi attraverso quell’aria densa e tenebrosa venire nuotando verso l’alto una figura, tale da destare sgomento in ogni animo forte,
133 sì come torna colui che va giuso
talora a solver l'àncora ch'aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
  133 così come torna alla superficie colui che scende talvolta a disincagliare l’ancora impigliata o in uno scoglio o in altra cosa chiusa nel mare,
136 che 'n sù si stende e da piè si rattrappa.   136 il quale si tende nella parte superiore del corpo, e si rattrappisce in quella inferiore.
  Per conferire maggior credibilità alla scena irreale che si prepara a descrivere (l'arrivo del mostro Gerione, simbolo della frode), Dante giura sui versi del proprio poema. Secondo quanto il Poeta dice nella lettera da lui indirizzata a Cangrande della Scala per dedicargli il poema (XIII, 29-31) e in un passo del De vulgari eloquentia (II, IV, 5-6), il termine comedia designerebbe ogni componimento poetico trattato in uno stile familiare e in una lingua semplice e caratterizzato da un lieto scioglimento. Nel Paradiso (XXV, 1-2) il poema sarà invece definito 'l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra.

Il mostro che sale dall'abisso, in risposta al segnale della corda gettata da Virgìlio, è per ora ancora soltanto una immagine indeterminata (figura), animata però da una vitalità possente e armonica. La similitudine del sommozzatore mette in rilievo l'energia controllata di ogni suo movimento. Proprio perché simboleggia la frode, Gerione appare, fin da questi primi versi, del tutto diverso, nelle sue manifestazioni, dalle potenze infernali poste a custodia dei cerchi degli incontinenti e dei violenti.

 

© 2009 - Luigi De Bellis