1 |
Già era in
loco onde s'udia 'l rimbombo
de l'acqua che cadea ne l'altro giro,
simile a quel che l'arnie fanno rombo, |
|
1 |
Mi trovavo già in un luogo dal quale si udiva il fragore
dell’acqua (del fiumicello) che precipitava nel cerchio
seguente, simile a quel ronzio cupo che producono gli
alveari, |
4 |
quando tre
ombre insieme si partiro,
correndo, d'una torma che passava
sotto la pioggia de l'aspro martiro. |
|
4 |
allorché tre ombre si
staccarono contemporaneamente, correndo, da una schiera
che passava sotto la pioggia del crudele supplizio. |
|
I due poeti sono giunti in un punto in cui è percepibile
il rumore che fanno le acque del Flegetonte, convogliate
nel fiumicello che esce dalla selva dei suicidi,
precipitando nell'ottavo cerchio. A un rumore ancora
avvertito in lontananza e come indistinto. E' stato
messo in rilievo, nel succedersi dei suoni cupi della
similitudine contenuta nell'ultimo verso della prima
terzina, come un equivalente fonico dell'immagine che
essa ci comunica. Questa immagine non ha tuttavia nulla
di terribile come è parso ad alcuni; essa anzi,
introducendoci nell'atmosfera di questo canto - nel
quale l'orrore della pena infernale è di continuo
attenuato dall'affettuoso rispetto dei Poeta per i
dannati che ivi incontra - mira a dissipare, con
l'evocazione di una natura docile all'uomo, quello che
di misterioso e di ineluttabile era contenuto nei primi
due versi della terzina. Al rimbombo del fiume infernale
si sovrappone il più familiare rombo delle arnie, alle
tenebre che non consentono al Poeta di individuare il
posto in cui si trova se non attraverso un confuso dato
acustico, si sostituisce, implicitamente contenuta
nell'immagine, la campagna serena e assolata, nella
quale le api armonicamente, in fervida concordia,
attendono al loro lavoro. |
7 |
Venian ver'
noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava». |
|
7 |
Venivano verso di noi, e ciascuna
gridava: "Fermati tu che dall’abito ci sembri essere uno
della nostra città malvagia". |
|
Le tre ombre che corrono verso l'argine sul quale si
trovano Dante e Virgilio sono quelle di tre uomini
politici fiorentini di parte guelfa, appartenenti alla
generazione che precedette di poco quella del Poeta. Non
deve apparire strano il fatto che riconoscano in lui
immediatamente un loro concittadino. Scrive il
Boccaccio, che a quei tempi "quasi ciascuna città aveva
un suo singular modo di vestire, distinto e variato da
quello delle circunvicine" . I Fiorentini portavano il "
lucco " (veste senza pieghe stretta alla vita) e il
cappuccio.
Fin da questi versi di apertura dell'episodio è
fortemente messo in rilievo il sentimento che spinge le
tre anime dannate a interrogare Dante: l'amore di
patria. Come in Farinata, questo sentimento sembra quasi
abolire in esse per un attimo la coscienza del luogo in
cui si trovano. Ma Farinata è immobile, torreggia
solitario in un atteggiamento di disprezzo: la tragedia
nel canto degli eretici si sviluppa a poco a poco entro
una cornice di epica grandezza. Qui la situazione fin
dall'inizio appare diametralmente opposta a quella
dell'incontro con Farinata: i tre concittadini del
Poeta, ch'a ben far puoser li 'ngegni (Inferno VI, 81),
corrono verso di lui e neppure si fermano nel
rivolgergli la parola. Il loro affanno è bene messo in
evidenza in un verso all'apparenza puramente descrittivo
- venìan ver noi, e ciascuna gridava - in cui al
generico plurale venìan, inteso ad esprimere
l'automatico accordarsi dei loro movimenti esteriori, si
contrappone il singolare gridava, ad indicare
l'incoercibile spontaneità del loro sentire. |
10 |
Ahimè, che
piaghe vidi ne' lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri. |
|
10 |
Ahimè, quali ferite
recenti e antiche, aperte dalle fiamme, vidi nelle loro
membra! Ne provo ancora dolore soltanto a ricordarmene. |
13 |
A le lor
grida il mio dottor s'attese;
volse 'l viso ver' me, e «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese. |
|
13 |
Alle loro grida Virgilio fermò la propria attenzione;
volse il viso verso di me, e disse: "Aspetta: bisogna
essere cortesi con costoro. |
16 |
E se non
fosse il foco che saetta
la natura del loco, i' dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta». |
|
16 |
E se non fosse per le
fiamme che la natura del luogo scaglia, direi che
converrebbe a te più che a loro l’affrettarsi". |
19 |
Ricominciar,
come noi restammo, ei
l'antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei. |
|
19 |
Non appena ci
fummo fermati, essi ripresero (a muoversi) nel solito
modo; e quando furono giunti presso di noi, si disposero
in cerchio tutti e tre, |
22 |
Qual
sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti, |
|
22 |
come sono soliti fare i lottatori nudi e unti, nel
momento in cui cercano con gli occhi la presa più
vantaggiosa, prima di colpirsi e ferirsi a vicenda; |
25 |
così
rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che 'n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio. |
|
25 |
e così girando, ciascuno volgeva il viso verso di me, in
modo che il collo si muoveva continuamente in direzione
opposta a quella dei piedi. |
|
L'immagine della rota con tutto quello che di meccanico
essa evoca (non un movimento indirizzato a un fine, ma
una periodicità insensata), sottolinea in senso
grottesco la reale condizione di queste anime:
nonostante i loro grandi meriti sono dei dannati. La
loro libertà interiore, la schiettezza del loro modo di
esprimersi, propria di chi è stato uomo d'azione (quale
differenza fra i loro discorsi e quelli di un Pier delle
Vigne, ad esempio!), il loro appassionato disinteresse,
per cui i loro dolori personali sono come obliati nella
contemplazione delle sciagure di Firenze, vengono di
continuo contraddetti da quanto c'è di ridicolo nei loro
movimenti: la rota e il continuo viaggio che fanno i
loro colli. A sua volta, però, l'immagine della rota si
umanizza e si nobilita in quella dei campion, attraverso
la quale è anche suggerita la figura morale di questi
dannati, che in vita furono dei lottatori, sostenitori
dell'idea guelfa in Firenze.
La similitudine dei campion si riferisce, secondo
alcuni, ad un uso diffuso nel Medioevo: il giudizio di
Dio, al quale si faceva ricorso allorché due parti non
avevano argomenti sufficienti per dirimere una
controversia. |
28 |
E «Se
miseria d'esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
cominciò l'uno, «e 'l tinto aspetto e brollo, |
|
28 |
E "Se la triste condizione
di questo luogo sabbioso e il nostro aspetto annerito e
devastato rendono spregevoli noi e le nostre preghiere"
cominciò uno di essi |
31 |
la fama
nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se', che i vivi piedi
così sicuro per lo 'nferno freghi. |
|
31 |
"la nostra fama induca il
tuo animo a dirci chi sei tu, che così immune da
tormenti cammini ancora vivo nell’inferno. |
|
In queste prime parole che Jacopo Rusticucci (dirà egli
stesso il proprio nome alla fine del suo discorso)
rivolge a Dante, si sente l'esitazione, il dubbio che
tormenta questi dannati: "temono che vedendoli... [il
Poeta] li abbia in dispregio. E perché sentono che così
meriterebbero, al noi aggiungono subito: e nostri
prieghi, ben sapendo la durezza d'animo che ci vorrebbe
a disprezzare anche le preghiere degli infelici" (Pietrobono). |
34 |
Questi,
l'orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi: |
|
34 |
Questo, di cui mi vedi
calpestare le orme, benché cammini nudo e spellato, fu
di condizione più elevata di quanto tu possa credere: |
37 |
nepote fu de
la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada. |
|
37 |
fu nipote della virtuosa
Gualdrada; ebbe nome Guido Guerra, e nella sua vita si
distinse per ingegno e valore, |
|
Il primo dei dannati presentati a Dante da Jacopo
Rusticucci è Guido Guerra, appartenente alla famiglia
dei conti Guidi, valoroso combattente di parte guelfa,
nato verso il 1220. Bandito da Firenze dopo la sconfitta
di Montaperti (1260), fu capo dei fuorusciti guelfi
nella battaglia di Benevento (1266), combattuta contro i
Ghibellini di re Manfredi, figlio di Federico II. Questa
battaglia segnò il crollo delle fortune del partito
ghibellino in Italia. Guido Guerra era, come qui viene
ricordato. nipote di Gualdrada, figlia di Bellincione
Berti de' Ravignani, il quale sarà presentato dal Poeta,
attraverso le parole dell'antenato Cacciaguida (Paradiso
XV, 112-113), come il modello del fiorentino frugale di
antico stampo. Molte leggende celebravano, ai tempi di
Dante, insieme alla sua bellezza, la virtù di Gualdrada. |
40 |
L'altro,
ch'appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita. |
|
40 |
L’altro, che dietro me calpesta la
rena, è Tegghiaio Aldobrandi, le cui parole avrebbero
dovuto essere apprezzate nel mondo. |
|
Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, Il "cavaliere savio
e prode in arme e di grande autoritade" (Villani -
Cronaca VI, 78), appartenne anch'egli al partito guelfo.
Si narra che tentò vanamente di dissuadere i suoi
concittadini dall'intraprendere la spedizione contro i
Senesi e i fuorusciti ghibeilíni comandati da Farinata
degli Uberti, spedizione destinata a concludersi
tragicamente a Montaperti (1260). Per questo Dante fa
dire a Jacopo Rusticucci che i pareri espressi da
Tegghíaio avrebbero dovuto essere tenuti in maggior
considerazione. |
43 |
E io, che
posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch'altro mi nuoce». |
|
43 |
Ed io che sono posto con loro nel
tormento, fui Jacopo Rusticucci e son certo che il
ricordo della mia bisbetica moglie più di tutto mi
nuoce". |
|
Come di Tegghiaio Aldobrandi, anche di Jacopo Rusticucci
Dante aveva chiesto notizie a Ciacco, ricordandolo tra i
protagonisti della storia recente di Firenze. Secondo
l'Anonimo Fiorentino fu "valoroso uomo e piacevole". Non
abbiamo molte altre notizie di lui. Nelle parole che il
Poeta gli attribuisce appare un velato cenno al suo
peccato (e certo la fiera moglie più ch'altro mi noce). |
46 |
S'i' fossi
stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che 'l dottor l'avria sofferto; |
|
46 |
Se io fossi stato al
riparo dal fuoco, mi sarei lanciato di sotto in mezzo a
loro, e credo che Virgilio lo avrebbe permesso; |
49 |
ma perch' io
mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto. |
|
49 |
ma poiché sarei stato arso
dalle fiamme, il timore prevalse sul mio lodevole
desiderio che mi rendeva bramoso di abbracciarli. |
52 |
Poi
cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia, |
|
52 |
Poi cominciai: "La
condizione nella quale vi trovate non ha suscitato in me
disprezzo, ma un dolore tanto grande che passerà molto
tempo prima che io me ne liberi completamente, |
55 |
tosto che
questo mio segnor mi disse
parole per le quali i' mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse. |
|
55 |
allorché Virgilio mi disse
parole dalle quali argomentai che si avvicinassero anime
grandi quali voi siete. |
58 |
Di vostra
terra sono, e sempre mai
l'ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai. |
|
58 |
Appartengo alla vostra
città, e ho sempre appreso e ascoltato le vostre opere e
i vostri nomi onorati con commozione. |
|
Nota opportunamente il Montanari come l'affetto che
Dante sente per questi concittadini "è più impetuoso e
fiero di quello per Brunetto che pur aveva, a differenza
di questi, conosciuto familiarmente". L'incontro con
queste tre anime è "più drammaticamente concitato" di
quello col suo antico maestro, risolto in una tonalità
elegiaca, poiché in Dante "la passione di patria ha
accenti più sonori dell'affetto familiare". |
61 |
Lascio lo
fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi». |
|
61 |
Lascio l’amarezza del peccato e mi
dirigo verso i dolci frutti del bene a me promessi dalla
mia guida (Virgilio) veritiera; ma occorre che io
precipiti prima fino al centro (della terra)". |
|
In questa terzina il Poeta riassume, come già nella
risposta a Brunetto Latini, ma in forma più concisa,
armonizzando così il suo modo di parlare a quello dei
suoi interlocutori, la vicenda del suo viaggio nell'al
di là. Riappare per un attimo il linguaggio simbolico,
di chiara intonazione scritturale (lo tele... dolci
pomi), che aveva caratterizzato il suo colloquio con il
notaio fiorentino nel canto precedente. |
64 |
«Se
lungamente l'anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca, |
|
64 |
"Possa tu vivere a lungo"
rispose ancora quello," e la tua fama risplendere dopo
la tua morte, |
67 |
cortesia e
valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n'è gita fora; |
|
67 |
ma di’ se nella nostra
città abitano ancora cortesia e valore così come
solevano, o se sono completamente scomparsi; |
70 |
ché
Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole». |
|
70 |
poiché Guglielmo Borsiere,
il quale da poco soffre qui con noi, e cammina là con i
compagni, ci addolora molto con le sue parole." |
|
Come già nell'episodio di Farinata, sembra che anche per
questi tre Fiorentini i tormenti dell'inferno passino in
seconda linea di fronte all'interesse che essi nutrono
per la sorte della loro città. Ma in loro la carità del
natìo loco (Inferno XIV, 1) è più pura che in Farinata:
essi non guardano agli interessi della patria attraverso
quelli del loro partito; la loro dedizione va intera a
Firenze, al di là di ogni discordia intestina; la loro
attenzione si rivolge, non al fatto politico in sé, ma
ai suoi riflessi civili e morali (cortesia e valor di'
se dimora).
Guglielmo Borsiere fu, secondo il Boccaccio, "cavalier
di corte, uomo costumato molto è di laudevol maniera". |
73 |
«La gente
nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». |
|
73 |
"La gente nuova (pervenuta di recente
alle cariche politiche e arrivata in gran parte dal
contado) e gli improvvisi guadagni hanno prodotto
superbia e sfrenatezza, in te, Firenze, tanto che già te
ne duoli." |
|
L'apostrofe di Dante, una delle più celebri della
Commedia, ripropone, in questa terzina, quelli che già
negli episodi di Ciacco e di Brunetto Latini sono stati
considerati i motivi determinanti del corrompersi delle
antiche virtù in Firenze. Qui, alla domanda di Jacopo
Rusticucci, ansioso di sapere la sorte toccata in
Firenze a cortesia e valor, il Poeta risponde
rivolgendosi, nel tono degli antichi profeti,
direttamente alla sua città: al binomio cortesia e
valor, se ne oppongono, nelle sue parole, due, quasi a
rafforzare, col peso delle determinazioni, la durezza
della sua affermazione: la gente nova e' subiti
guadagni, cui fa eco, subito dopo, il duplice
complemento oggetto orgoglio e dismisura. Nel drammatico
prorompere del suo dolore Dante insiste sulla presenza
in Firenze del male, più che soffermarsi sul suo primo
manifestarsi nel tempo: ecco perché i quattro sostantivi
che questo male denunziano sono anteposti, come a
formare un unico indissolubile blocco, al verbo che
sintatticamente li unisce (han generata). |
76 |
Così gridai
con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l'un l'altro com' al ver si guata. |
|
76 |
Così gridai a testa alta;
e i tre, che interpretarono queste parole come una
risposta, si guardarono l’un l’altro come ci si guarda
quando si ode una verità (che rattrista). |
79 |
«Se l'altre
volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta! |
|
79 |
"Se ti costa sempre così
poco sforzo" risposero tutti "accontentare gli altri, te
fortunato se riesci ad esprimerti così bene! |
82 |
Però, se
campi d'esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere "I' fui", |
|
82 |
Perciò, possa tu scampare
a questi luoghi oscuri e tornare a rivedere le belle
stelle, quando ti sarà dolce dire "Io fui
(nell’inferno)", |
85 |
fa che di
noi a la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle. |
|
85 |
(in nome di questo
augurio) fa in modo di parlare alla gente di noi."
Quindi ruppero il cerchio, e le loro agili gambe
sembrarono ali nel fuggire. |
|
Il Momigliano attira l'attenzione, a proposito di questa
immagine, sulla "precisione visiva di rupper" e
sull'impressione che da tutto il periodo scaturisce,
"d'una ruota che si spezza in tanti raggi sbalestrati
nell'aria". |
88 |
Un amen non
saria possuto dirsi
tosto così com' e' fuoro spariti;
per ch'al maestro parve di partirsi. |
|
88 |
Non si sarebbe potuto
pronunciare un amen così rapidamente come essi
sparirono; e perciò Virgilio giudicò opportuno che ci
allontanassimo. |
91 |
Io lo
seguiva, e poco eravam iti,
che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi. |
|
91 |
Io lo seguivo, ed avevamo
percorso poco cammino, quando il fragore dell’acqua ci
fu così vicino, che se avessimo parlato ci saremmo uditi
appena. |
94 |
Come quel
fiume c'ha proprio cammino
prima dal Monte Viso 'nver' levante,
da la sinistra costa d'Apennino, |
|
94 |
Come quel fiume che, per
primo (per chi guarda) dal Monviso verso levante, ha
(tra i fiumi che nascono) dal versante sinistro
dell’Appennino, un corso interamente suo, |
97 |
che si
chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante, |
|
97 |
il quale
nella parte superiore si chiama Acquacheta, prima di
scendere nel suo alveo in pianura, e a Forlì non ha più
quel nome |
100 |
rimbomba là
sovra San Benedetto
de l'Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto; |
|
100 |
rimbomba
sopra San Benedetto dell’Alpe per il fatto che precipita
attraverso una sola cascata ove dovrebbe essere ricevuto
da mille (cascate), |
103 |
così, giù
d'una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell' acqua tinta,
sì che 'n poc' ora avria l'orecchia offesa. |
|
103 |
così trovammo che
rimbombava quell’acqua oscura, riversandosi attraverso
un pendio ripido, in modo tale che avrebbe in poco tempo
danneggiato l’udito. |
|
Anche
questa similitudine, così ricca di riferimenti ad una
realtà che non pare concedere nulla all'insorgere del
sentimento, così minuziosa nella determinazione di
particolari apparentemente superflui (come, ad esempio,
quello riguardante il nome che il fiume, il Montone, ha,
prima di precipitare nella cascata sopra San Benedetto
dell'Alpe), è concepita in funzione di quella
umanizzazione della cupa atmosfera infernale già
rilevata nelle similitudini delle arnie e della rota.
Come opportunamente scrive il Caretti, "tutta la serie
delle precisazioni geografiche (inutili soltanto per chi
tenga d'occhio la similitudine in se stessa) hanno lo
scopo di togliere ogni carattere fantomatico al fragore
ormai vicino e di prepararci progressivamente
all'incontro con la ripa discoscesa e con l'acqua
tinta".
|
106 |
Io avea una
corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta. |
|
106 |
Io avevo una corda legata intorno (ai
fianchi), e con essa avevo pensato una volta di
catturare la lonza dal manto screziato. |
|
Il significato del simbolo adombrato nella corda è
piuttosto oscuro. Non sembra che in essa possa vedersi,
come voleva un antico commentatore, il Buti, il
cordiglio francescano. Tra le varie ipotesi avanzate al
riguardo, grande credito ha goduto quella dello
Scartazzini, secondo il quale la corda alluderebbe alla
castità che vince la lussuria (simboleggiata dalla
lonza). La corda non servirebbe ormai più a Dante, "dal
momento che egli ha lasciato dietro di sé l'ultimo
cerchio dove si puniscono peccati di lussuria" (quelli
dei violenti contro natura). Egli può quindi a questo
punto liberarsene. Secondo un'altra interpretazione,
essa non designerebbe soltanto una difesa contro la
lussuria, ma anche contro la frode (il peccato punito
nei due cerchi che il Poeta si appresta a visitare) : in
essa dovremmo pertanto vedere, oltre la mortificazione
della carne, anche il senso della legalità, il potere
della legge. "La corda è gettata via prima che Dante
scenda tra i fraudolenti, perché la legge si rivela
insufficiente quando a sostegno della colpa sopravviene
l'ausilio dell'intelletto, quando il peccatore si
arrocca nelle agili formule del farisaismo leguleio..."
(Pasquazi) |
109 |
Poscia ch'io
l'ebbi tutta da me sciolta,
sì come 'l duca m'avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta. |
|
109 |
Dopo essermi completamente
slegato, così come mi aveva ordinato Virgilio, gliela
porsi stretta e avvolta. |
112 |
Ond' ei si
volse inver' lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell' alto burrato. |
|
112 |
Per cui egli si volse
verso destra, e la gettò giù in quel profondo precipizio
alquanto lontano dalla sponda. |
115 |
«E' pur
convien che novità risponda»,
dicea fra me medesmo, «al novo cenno
che 'l maestro con l'occhio sì seconda». |
|
115 |
"Eppure occorre che
qualcosa di nuovo appaia" dicevo fra me stesso "in
risposta al segnale inusitato che Vìrgìlio segue con lo
sguardo così attentamente." |
118 |
Ahi quanto
cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l'ovra,
ma per entro i pensier miran col senno! |
|
118 |
Ahi quanto prudenti devono
essere gli uommi davanti a coloro che non vedono
soltanto le azioni, ma penetrano con l’inteffigenza
dentro i pensieri! |
121 |
El disse a
me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch'al tuo viso si scovra». |
|
121 |
Egli mi disse: "Fra poco
salirà ciò che attendo e che il tuo pensiero
confusamente immagina: fra poco dovrà apparire alla tua
vista". |
124 |
Sempre a
quel ver c'ha faccia di menzogna
de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote,
però che sanza colpa fa vergogna; |
|
124 |
L’uomo deve sempre tacere,
finché può, quella verità che ha apparenza di menzogna
(per il fatto che è incredibile), poiché essa, senza che
egli ne abbia colpa, lo pone nella condizione di
vergognarsi; |
127 |
ma qui tacer
nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s'elle non sien di lunga grazia vòte, |
|
127 |
ma a questo punto non
posso tacere (la verità); e sui versi di questa
commedia, o lettore, ti giuro, così possano essi non
essere privi di accoglienza gradita che duri a lungo, |
130 |
ch'i' vidi
per quell' aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro, |
|
130 |
che vidi attraverso quell’aria
densa e tenebrosa venire nuotando verso l’alto una
figura, tale da destare sgomento in ogni animo forte, |
133 |
sì come
torna colui che va giuso
talora a solver l'àncora ch'aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso, |
|
133 |
così come torna alla
superficie colui che scende talvolta a disincagliare
l’ancora impigliata o in uno scoglio o in altra cosa
chiusa nel mare, |
136 |
che 'n sù si
stende e da piè si rattrappa. |
|
136 |
il quale si tende nella
parte superiore del corpo, e si rattrappisce in quella
inferiore. |
|
Per conferire maggior credibilità alla scena irreale che
si prepara a descrivere (l'arrivo del mostro Gerione,
simbolo della frode), Dante giura sui versi del proprio
poema. Secondo quanto il Poeta dice nella lettera da lui
indirizzata a Cangrande della Scala per dedicargli il
poema (XIII, 29-31) e in un passo del De vulgari
eloquentia (II, IV, 5-6), il termine comedia
designerebbe ogni componimento poetico trattato in uno
stile familiare e in una lingua semplice e
caratterizzato da un lieto scioglimento. Nel Paradiso (XXV,
1-2) il poema sarà invece definito 'l poema sacro al
quale ha posto mano e cielo e terra.
Il mostro che sale dall'abisso, in risposta al segnale
della corda gettata da Virgìlio, è per ora ancora
soltanto una immagine indeterminata (figura), animata
però da una vitalità possente e armonica. La
similitudine del sommozzatore mette in rilievo l'energia
controllata di ogni suo movimento. Proprio perché
simboleggia la frode, Gerione appare, fin da questi
primi versi, del tutto diverso, nelle sue
manifestazioni, dalle potenze infernali poste a custodia
dei cerchi degli incontinenti e dei violenti. |