1 |
«Ecco la
fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l'armi!
Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!». |
|
1 |
"Ecco il mostro dalla coda acuminata,
che varca le montagne, e infrange ogni ostacolo; ecco
quello che appesta col suo fetore l’intero universo!" |
|
Virgilio annuncia l'arrivo di un altro custode
infernale, Gerione, simbolo della frode. Soltanto un
particolare dell'aspetto fisico del mostro è messo in
rilievo in questa terzina - la coda - ma è il
particolare che meglio ne caratterizza l'indole ambigua
e pericolosa e sul quale con maggior insistenza si
soffermerà la fantasia del Poeta. E' solo col guizzare
della coda che Gerione, protagonista muto di questo
canto, di una quasi agghiacciante sottomissione ai
comandi di Virgilio (è il primo dei custodi infernali
che non tenta di ostacolare il cammino dei due poeti),
mostrerà il nervosismo della bestia non doma. La frode
colpisce a tradimento, senza dichiarare le proprie
intenzioni; ecco perché vedremo, dietro la faccia di
uomo giusto di Gerione, enigmatica nella sua immobilità,
celarsi l'insidia, rappresentata dalla sua coda armata
di aculei velenosi.
Anche la figura di Gerione deriva, come quelle dei
custodi infernali sin qui incontrati dai due poeti,
dalla mitologia. Le leggende ne parlavano come di un re
crudelissimo, che accoglieva gli ospiti benignamente per
poi ucciderli; fu a sua volta ucciso da Ercole. I poeti
latini lo descrivono come un gigante che aveva tre corpi
e tre teste. "Ma non solo quella natura tricorporea non
aveva una descrizione precisa, essa non appariva chiara
come simbolo, e a Dante importa ritrovare nelle favole
della mitologia, almeno adombrato, un valore simbolico.
Per questo la stranezza di quei tre corpi gli suggerì
l'idea dell'inganno, della frode, ma egli volle dare
concretezza visiva e simbolica a quella figura e la
immaginò non con tre corpi, ma con tre nature diverse in
un corpo solo." (Gallardo)
Ma nella figura di Gerione confluisce, insieme
all'ispirazione mitologica, anche quella scritturale. E
probabile, infatti, che nell'immaginarla il Poeta abbia
tenuto presente un passo dell'Apocalisse (IX, 7-11) ove
si parla di locuste dal volto umano e dalla coda di
scorpione. Il re di queste locuste, Abaddon, chiamato
"angelo dell'abisso", salirà, secondo la profezia di San
Giovanni - e in ciò è forse un'altra concordanza fra
questa pagina della Commedia e il testo biblico, - dal
"pozzo dell'abisso" per dirigersi verso Gerusalemme.
Anche il moto ascendente di Gerione, tenuto conto di
quella che è la posizione dell'inferno dantesco, è
diretto verso Gerusalemme. Occorre altresì ricordare che
nella pittura, nella scultura e nella miniatura del
Medioevo è frequente la rappresentazione di figure
mostruose o grottesche. Nell'immaginare Gerione Dante
può quindi essersi ispirato anche alle arti figurative
del suo tempo. Scrive al riguardo A. Venturi: "Da una
sfinge, scolpita dai Cosmati sotto le cattedre
vescovili, sotto le colonne tortili dei pulpiti, innanzi
ai parapetti degli altari, Dante ricava la figura di
Gerione, che poi colora secondo le rappresentazioni
comuni di belve nelle stoffe orientali, con la cute
dipinta di nodi e di rotelle". |
4 |
Sì cominciò
lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d'i passeggiati marmi. |
|
4 |
Così cominciò a dirmi
Virgilio; e gli fece segno di accostarsi all’orlo del
burrone, vicino al termine degli argini pietrosi che
avevamo percorso. |
7 |
E quella
sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e 'l busto,
ma 'n su la riva non trasse la coda. |
|
7 |
E quell’immondo simbolo di
frode gíunse, e portò sull’orlo la testa e il tronco, ma
non depose sulla riva la coda. |
10 |
La faccia
sua era faccia d'uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d'un serpente tutto l'altro fusto; |
|
10 |
Il suo volto era volto di
uomo onesto, tanto benevolo era il suo aspetto
esteriore, e tutto il resto del corpo era quello di un
serpente; |
|
Diversamente da quello degli altri custodi infernali, il
viso di Gerione non ha nulla di bestiale, anzi
suggerisce una perfetta equità di pensieri ed azioni
(era faccia d'uom giusto).La frode è per essenza un male
che non si rivela, occultato sotto apparenza di bene. Un
passo del Convivio chiarisce il significato simbolico di
questi versi: "quelle cose che prima non mostrano li
loro difetti sono più pericolose, però che di loro molte
fiate prendere guardia non si può; sì come vedemo nel
traditore, che ne la faccia dinanzi si mostra amico, sì
che fa di sé fede avere, e sotto pretesto d'amistade
chiude lo difetto de la inimistade" (IV, XII, 3). |
13 |
due branche
avea pilose insin l'ascelle;
lo dosso e 'l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle. |
|
13 |
aveva due zampe artigliate pelose fino alle ascelle;
aveva il dorso e il petto e ambedue i fianchi disegnati
con nodi e piccoli cerchi: |
16 |
Con più
color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte. |
|
16 |
né Tartari né Turchi
fecero mai tappeti con più colori, con maggior varietà
di fondi e di disegni a rilievo, né simili tele furono
tessute da Aracne (espertissima tessitrice della Lidía
che sfidò Minerva e fu dalla dea trasformata in ragno). |
|
Le zampe
pelose e artigliate ricordano quelle del drago, animale
che ossessionò la fantasia dei narratori, pittori e
scultori del Medioevo e si riferiscono alla crudeltà del
male da Gerione simboleggiato; il complicato arabesco
che stria la pelle del mostro allude probabilmente alle
tortuose macchinazioni di cui i fraudolenti si servono
per sorprendere la buona fede altrui. Nessuno dei
custodi infernali è stato descritto con tanta dovizia di
particolari come questa immagine di froda. Erano tutti
stati colti sinteticamente in una manifestazione di
vitalità incomposta, che da sola bastava a denunciare il
male che personificavano. Ma Gerione appare tranquillo,
per nulla turbato dalla presenza di un vivo nel regno
delle ombre. Anzi, nella prima parte del canto, se non
fosse per il minaccioso guizzare della coda nel vuoto,
dal quale, come abile nuotatore, è emerso, sembra quasi
non avere vita. A determinare in noi questa impressione
contribuiscono, oltre che il volto inespressivo e la
sincronia di ogni suo movimento, messa in luce nelle due
ultime terzine dei canto precedente, le símilitudini
usate per dare verosimiglianza alla sua figura. Queste
similitudini, fatta eccezione per quella del castoro
(versi 21-22), riallacciano la figura di Gerione al
mondo inorganico anziché a quello della vita. Tuttavia
si tratta di mondo inorganico che porta in sé la traccia
dell'intelligenza umana (i drappi, le tele, i burchi).
La frode smentisce ogni forma di passionalità, proprio
perché la passionalità, quale, che sia il giudizio
morale che su di essa possiamo formulare, non può non
essere schietta e manifestarsi per quella che è.
L'inganno invece richiede calcolo, pazienza, capacità di
dissimulazione, sangue freddo. Gerione, misterioso e
immobile nella prima parte del canto, scenderà poi
lentamente, docile alle ingiunzioni di Virgilio, fino a
deporre i due poeti alla base del costone roccioso che
dal settimo cerchio precipita nell'ottavo, ma soltanto
dopo avere adempiuto a questo suo ufficio manifesterà
compiutamente, per un attimo, l'estrema mobilità di cui
è capace. |
19 |
Come
talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi |
|
19 |
Come a volte
le barche sono ferme a riva, con una parte del loro
scafo in acqua e una parte sulla terraferma, e come
nelle terre abitate dai Tedeschi crapuloni |
22 |
lo bivero
s'assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. |
|
22 |
il castoro si dispone a cacciare i pesci, così il
peggiore dei mostri, stava sul margine che, pietroso,
cinge la distesa di sabbia. |
|
Calzante il paragone con le barche per questa figura che
era venuta nuotando attraverso l'aria ed ora giace in
subdola calma sull'orlo pietroso del sabbione. Nota il
Soldati come Gerione sia "bestia e veicolo insieme" e
suggerisce un accostamento, per quel che riguarda il
loro aspetto esteriore, fra il mostro e quelle navi da
corsa la cui poppa era sormontata da un fregio alto e
ricurvo. Figuriamocene una, di notte, appoggiata alla
riva nella posizione dei burchi. Gerione,
nave-fiera-demonio, è così!". Il secondo paragone
richiama, come ha giustamente rilevato il Grabher, non
solo la posizione di Gerione sull'orlo interno del
cerchio, ma anche "l'intenzione di lui: quel disporsi a
far sua guerra e in modo così insidioso". |
25 |
Nel vano
tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch'a guisa di scorpion la punta armava. |
|
25 |
L’intera sua coda si agitava nel vuoto,
contorcendo in alto la velenosa estremità biforcuta che
aveva le punte munite di aculei come quella di uno
scorpione. |
|
La coda biforcuta di Gerione sta ad indicare la
doppiezza dell'azione fraudolenta. Secondo alcuni
interpreti le due punte della coda alluderebbero ai due
tipi di frode: la frode contro chi si fida e quella,
contro chi non si fida (cfr. Inferno XI, versi 53-54).
Occorre notare che il paragone con la coda dello
scorpione si riferisce al veleno di cui è munita quella
di Gerione, non alla biforcazione, che richiama
piuttosto le due pinze poste sul capo dello scorpione,
dato che la coda finisce in una punta sola. |
28 |
Lo duca
disse: «Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca». |
|
28 |
Virgilio disse: "Occorre adesso che il
nostro cammino sia deviato un poco fino a quella bestia
perversa che si trova là." |
|
Così un antico commentatore, l'Ottimo, spiega la
deviazione che a questo punto i due poeti compiono,
allontanandosi dalla direzione fino allora seguita: Il
non si potea per diritto calle andare alla frode, anzi
per tortuoso; nulla via mena a lei diritto". |
31 |
Però
scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella. |
|
31 |
Perciò scendemmo verso
destra, e percorremmo dieci passi sull’estremità del
cerchio, per evitare completamente la sabbia e la
pioggia di fuoco. |
34 |
E quando noi
a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo. |
|
34 |
E quando fummo giunti
vicino a lei, vidi un po’ più in là sulla sabbia gente
che sedeva vicino all’abisso. |
37 |
Quivi 'l
maestro «Acciò che tutta piena
esperïenza d'esto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena. |
|
37 |
Qui Virgilio: "Affinché tu
abbia una conoscenza completa di questo girone" mi
disse, "avvicinati a loro, e osserva la loro condizione. |
40 |
Li tuoi
ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti». |
|
40 |
I tuoi discorsi siano lì
brevi: finché non sarai tornato, parlerò con questa
(bestia), perché ci offra le sue vigorose spalle". |
|
Dante non assiste al colloquio di Virgilio con Gerione,
il quale rimane chiuso, in tutto il canto, in un
assoluto mutismo. Il silenzio che circonda il mostro
rende con grande evidenza il carattere ambiguo e
sfuggente della fiera, che presenta ai due pellegrini,
assoggettato ed obbediente, il solo corpo. |
43 |
Così ancor
su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta. |
|
43 |
Così me ne andai tutto
solo ancora sull’orlo estremo del settimo cerchio, dove
sedeva la gente tormentata. |
46 |
Per li occhi
fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a' vapori, e quando al caldo suolo: |
|
46 |
Il dolore di questi
dannati prorompeva in lagrime attraverso gli occhi; si
proteggevano con le mani, agitandole di qua e di là, ora
dalle fiamme, e ora dal terreno infuocato: |
49 |
non
altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani. |
|
49 |
non diversamente fanno i
cani d’estate ora con il muso, ora con la zampa, quando
sono morsicati o dalle pulci o dalle mosche o dai
tafani. |
|
Per esprimere l'inanità degli sforzi, destinati a
ripetersi in eterno, di questi dannati (gli usurai), il
Poeta ricorre ad una similitudine efficace nella sua
brutale immediatezza: quella dei cani che cercano di
difendersi dal morso fastidioso di parassiti ed insetti.
"L'assíllo della pena e il meccanico ripetersi dei gesti
sono sottolineati anche da certe insistenti ripetizioni:
quando... quando ... ; or col... or col ... ; o da... o
da... o da." (Grabher) L'atteggiamento degli usurai
esprime qui e alla fine del discorso di Reginaldo degli
Scrovegni (versi 74-75) tutta la degradazione del loro
essere. |
52 |
Poi che nel
viso a certi li occhi porsi,
ne' quali 'l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi |
|
52 |
Dopo che ebbi fissato lo
sguardo nel volto di alcuni, sui quali cade il fuoco
tormentatore, non riconobbi nessuno; ma osservai |
55 |
che dal
collo a ciascun pendea una tasca
ch'avea certo colore e certo segno,
e quindi par che 'l loro occhio si pasca. |
|
55 |
che a ciascuno di loro
pendeva dal collo una borsa, che aveva un colore
determinato e un determinato disegno, e sembrava che il
loro sguardo traesse nutrimento da queste borse. |
|
Come nel canto degli avari e prodighi, Dante mostra di
ignorare l'identità di questi peccatori: la borsa,
simbolo della loro sfrenata cupidigia di beni materiali,
appare come l'espressione più esauriente della loro
personalità. Per maggior irrisione, sul sacchetto che
pende dal collo dei dannati è dipinto lo stemma della
loro famiglia. |
58 |
E com' io
riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d'un leone avea faccia e contegno. |
|
58 |
E a mano a mano che li andavo
osservando più attentamente, vidi su una borsa gialla
dell’azzurro che aveva sembianza e atteggiamento di
leone. |
|
Il leone azzurro in campo giallo rappresenta lo stemma
dei Gianfigliazzi, famiglia guelfa fiorentina, alla
quale apparteneva Catello Gianfigliazzi, usuraio in
Francia. L'attenzione dei Poeta non si ferma sulla
persona di questo peccatore, che rimane del tutto
nell'ombra, come se non esistesse, ma sull'emblema del
suo peccato. |
61 |
Poi,
procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un'altra come sangue rossa,
mostrando un'oca bianca più che burro. |
|
61 |
Poi, mentre il carro dei mio sguardo
procedeva, oltre, ne vidi un’altra rossa come sangue,
che ostentava un’oca candida più del burro. |
|
L'oca bianca in campo rosso è lo stemma degli Obriachi,
nobile famiglia. ghibellina, i cui membri esercitarono
l'usura. Quanto al raffronto del colore dell'oca con
quello del burro il Sapegno rileva che "I'immagine
gastronomica si intona... aI tono beffardo e sarcastico,
che serpeggia per tutto questo gruppo di terzine". Ma
forse, nella descrizione degli stemmi degli usurai,
prevale, sull'intento moraleggiante, il puro gusto degli
accostamenti di colore. |
64 |
E un che
d'una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa? |
|
64 |
E uno che aveva disegnata sulla sua
borsa bianca una scrofa azzurra e pingue, mi disse: "Che
fai in questa voragine? |
|
Parla, secondo la maggior parte dei critici, il padovano
Reginaldo degli Scrovegni. "L'interrogazione stizzosa -
scrive il Torraca - lascia intendere che l'usuraio s'è
accorto di aver innanzi un vivo, e ne è scontento". |
67 |
Or te ne va;
e perché se' vivo anco,
sappi che 'l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco. |
|
67 |
Ora vattene; e poiché sei ancora vivo,
sappi che il mio concittadino Vitaliano siederà qui alla
mia sinistra. |
|
Reginaldo si compiace di riversare sui suoi compagni di
pena (verso 70) l'onta che gli deriva dall'essere stato
veduto dal Poeta, che riporterà questa notizia nel mondo
dei vivi. Egli perciò ne denuncia, non richiesto, la
presenza accanto a lui e il prossimo arrivo nel suo
girone. Osserva ancora il Torraca: "Dopo
l'interrogazione scortese, l'ingiunzione sgarbata. E non
basta: non per usar cortesia a quel vivo, ma per sfogare
la sua stizza, se la piglia con due, che sono ancora in
terra, e con i suoi stessi compagni di pena; di questi
fa la caricatura, di quelli proclama il peccato e
annunzia la punizione, di sé e degli altri cinicamente
dice la patria". L'usuraio qui menzionato è probabilmente
Vitaliano del Dente, podestà a Vicenza nel 1304 e a
Padova nel 1307. |
70 |
Con questi
Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi 'ntronan li orecchi
gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, |
|
70 |
Insieme a questi
fiorentini sono padovano: molte volte mi assordano l’udíto
gridando: "Venga il grande cavaliere, |
73 |
che recherà
la tasca con tre becchi!"».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che 'l naso lecchi. |
|
73 |
che porterà la borsa coi
tre caproni!" "A questo punto storse la bocca e tirò
fuori la lingua come un bue che sì lecca, il naso. |
|
Il cavalier sovrano è il fiorentino Giovanni Buiamonte
della famiglia dei Becchi, morto nel 1319. Il Poeta
"vuol mettere proprio in vista che l'usuraio atteso in
inferno era cavaliere, e dei più rinomati, a maggior
vergogna di Gianni Buiamonte e della città che dava
l'onore della cavalleria a siffatta gente", poiché "è
ben più vergognosa l'usura in tale che si teneva o era
tenuto primo dei cavalieri, come è, d'altra parte,
vergogna dar l'onore della cavalleria a siffatta gente"
(Barbi). |
76 |
E io,
temendo no 'l più star crucciasse
lui che di poco star m'avea 'mmonito,
torna'mi in dietro da l'anime lasse. |
|
76 |
E io, temendo che un
ulteriore indugio infastidisse Virgilio che mi aveva
raccomandato una breve sosta, tornai indietro
(allontanandomi) da quelle anime afflitte. |
79 |
Trova' il
duca mio ch'era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito. |
|
79 |
Trovai Virgilio che era
già salito sulla groppa del mostro terrificante, e che
mi disse: " Ora sii forte e coraggioso. |
82 |
Omai si
scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male». |
|
82 |
D’ora in poi si scende con
tali mezzi: sali davanti, perché io voglio stare nel
mezzo, in modo che la coda non possa nuocere". |
|
Omaí si scende per sì latte scale: i due poeti
scenderanno dal settimo all'ottavo cerchio sulle spalle
di Gerione, saranno deposti sulla superficie ghiacciata
dello stagno Cocito (nono cerchio) dalla mano del
gigante Anteo e raggiungeranno il centro della terra
calandosi lungo il corpo di Lucifero. Il loro viaggio
diventerà sempre più pericoloso a mano a mano che si
inoltreranno nel regno della frode. |
85 |
Qual è colui
che sì presso ha 'l riprezzo
de la quartana, c'ha già l'unghie smorte,
e triema tutto pur guardando 'l rezzo, |
|
85 |
Come colui che sente così
vicino il brivido della malaria, da averne già le unghie
livide, e che trema in ogni sua fibra al solo vedere un
luogo pieno d’ombra, |
88 |
tal divenn'
io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte. |
|
88 |
tale divenni dopo le
parole pronunciate (da Virgilio); ma mi ammonì il
pudore, il quale rende il servo coraggioso in presenza
di un valente padrone. |
|
Vivissimo è in Dante il senso della concretezza,
l'attenzione ai particolari che tutta una tradizione
letteraria, prima e dopo di lui, ha sdegnato. In questa
similitudine, ad esempio, il Poeta non si limita a dire
che il malarico impallidisce, ma ci pone sotto gli occhi
questo pallore e ne suggerisce il subitaneo diffondersi
attraverso la relativa c'ha già l'unghie smorte. |
91 |
I'
m'assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com' io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. |
|
91 |
Io mi sedetti su quelle
paurose spalle: provai bensì a dire, ma la voce non uscì
come credetti: "Fa in modo di cingermi con le tue
braccia". |
94 |
Ma esso,
ch'altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch'i' montai
con le braccia m'avvinse e mi sostenne; |
|
94 |
Ma egli, che già altre
volte mi aveva aiutato in altri momenti di pericolo,
appena fui salito, mi cinse e mi sorresse con le
braccia; |
97 |
e disse: «Gerïon,
moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai». |
|
97 |
e disse: "Gerione,
è tempo di partire: i giri siano ampi, e la discesa
graduale: tieni conto del carico inusitato che
trasporti". |
100 |
Come la
navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch'al tutto si sentì a gioco, |
|
100 |
Come la barca
si stacca dal punto dove ha attraccato procedendo a
ritroso, così si staccò di lì; e dopo che si sentì del
tutto a suo agio, |
103 |
là 'v' era
'l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l'aere a sé raccolse. |
|
103 |
volse la coda, là dove
prima era il petto, e, tesa, la mosse come un’anguilla,
e con le zampe tirò a sé l’aria. |
106 |
Maggior
paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; |
|
106 |
Non credo che fosse
maggiore la paura quando Fetonte lasciò andare le
redini, motivo per cui il cielo, come ancora si vede, fu
bruciato; |
109 |
né quando
Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!», |
|
109 |
né quando l’infelice Icaro
sentì le spalle perdere le penne a causa della cera che
si era scaldata, mentre il padre gli gridava: "Fai un
percorso sbagliato!", |
112 |
che fu la
mia, quando vidi ch'i' era
ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera. |
|
112 |
di quanto fosse la mia,
allorché vidi che mi trovavo circondato da ogni parte
dall’aria, e vidi scomparire la vista di ogni cosa
fuorché quella del mostro. |
|
Fetonte, figlio del Sole, avendo ottenuto dal padre il
permesso di guidarne il carro, fu colpito da un fulmine
di Gíove per aver deviato dal giusto cammino e precipitò
nell'Eridano. Secondo questa leggenda la Via Lattea è il
segno della bruciatura provocata sulla superficie del
cielo dal passaggio del carro del Sole guidato da
Fetonte. Dante rappresenta il giovinetto nel momento in
cui, perduto il controllo dei cavalli, è colto dal
terrore (Ovidio - Metamorfosi II, 1 sgg.).
lcaro, figlio di Dedalo, l'architetto che aveva
edificato a Creta il labirinto, era stato imprigionato
insieme con il padre in questa costruzione. I due
riuscirono ad evadere servendosi, delle ali che Dedalo
aveva fabbricate e incollate alle proprie spalle e a
quelle del figlio con la cera. Mentre volavano sul
Mediterraneo, per essersi Icaro troppo avvicinato al
sole, la cera che teneva attaccate le ali alle sue
spalle si sciolse, le ali caddero ed egli precipitò nel
mare (Ovidio - Metamorfosi VIII, 182-235).
Il Poeta ricorre a questi due richiami mitologici per
esprimere la paura da lui provata durante la navigazione
aerea, sul dorso di Gerione. Ma tanto è l'interesse con
cui si sofferma sul volo dei due personaggi ovidiani
(notiamo il vigore di un termine così inconsueto come
questo si cosse, riferito a ciel, e lo scorcio grandioso
del verso 111: quel padre isolato in uno spazio senza
confini, padrone delle vie dell'aria, che con tanta
semplicità - tre parole in tutto sa manifestare la sua
angoscia, per la sorte del figlio), che finisce, quasi
per dimenticare la sua paura. |
115 |
Ella sen va
notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n'accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta. |
|
115 |
Esso procede nuotando
lentamente: scende compiendo cerchi, ma non me ne rendo
conto se non per il fatto che l’aria mi colpisce in
volto e dal basso. |
118 |
Io sentia
già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. |
|
118 |
Io sentivo già a destra la
cascata (del Flegetonte) fare sotto di noi uno
spaventoso fragore, per cui sporsi verso il basso la
testa per vedere, |
|
Opportunamente il Getto rileva come in questi versi non
sia la paura ad occupare la fantasia del Poeta, "ma la
sostanza, profondamente assaporata, delle immagini della
discesa lenta, progressiva e circolare, che avvicina e
rende percepibile ai sensi quel che ne era prima lontano
ed estraneo, e, intrecciate a queste, quelle della
posizione del corpo nell'aerea cavalcata, gli occhi e il
capo che, si piegano in giù curiosamente, e le cosce che
solo timidamente, ad assecondare quello sguardo nel
vuoto, si scostano dalla cavalcatura e subito
istintivamente vi si stringono". |
121 |
Allor fu' io
più timido a lo stoscio,
però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti;
ond' io tremando tutto mi raccoscio. |
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121 |
Allora temetti
maggiormente di cadere, perché vidi fuochi e udii
pianti; perciò tremando strinsi fortemente le gambe (al
dorso di Gerione). |
124 |
E vidi poi,
ché nol vedea davanti,
lo scendere e 'l girar per li gran mali
che s'appressavan da diversi canti. |
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124 |
E mi resi conto allora,
poiché non me ne ero accorto prima, dello scendere in
cerchio a causa dei grandi supplizi che si avvicinavano
ora da una parte ora dall’altra. |
127 |
Come 'l
falcon ch'è stato assai su l'ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!», |
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127 |
Come il falco che è stato
a lungo in volo, il quale, senza aver veduto il richiamo
del cacciatore o alcuna preda, fa dire al falconiere
"Ahimè, tu stai calando!", |
130 |
discende
lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello; |
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130 |
scende stanco verso il
luogo dal quale si era mosso agile, con innumerevoli
giri, e si posa lontano dal suo padrone, sdegnoso e
crucciato, |
133 |
così ne
puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone, |
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133 |
così Gerione ci depose sul
fondo, proprio ai piedi della rupe tagliata a picco e,
liberatosi del peso dei nostri corpi, |
136 |
si dileguò
come da corda cocca. |
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136 |
sparì come freccia che si
stacchi dalla corda dell’arco. |
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Di queste due similitudini, quella del falcone
disdegnoso e fello sembra per un istante avvicinare a un
mondo di consuetudini umane (la caccia) la figura di
Gerione; quella della cocca ne ripropone appieno
l'enigma. Nulla giustifica, infatti, questa sparizione
improvvisa se non l'obbedienza del mostro a un volere
che trascenda ogni nostra capacità di intendimento. |