IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

 
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 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI INFERNO CANTO II°

1 Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
  1 Il giorno finiva, e l’oscurità faceva interrompere ai vivi in terra le loro fatiche; io solo
4 m'apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
  4 mi preparavo a sostenere il travaglio fisico e morale (del viaggio), che la memoria, esatta nel trascrivere ciò che ha appreso, narrerà.
  Dante non indulge mai in descrizioni di mero colore: nella Divina Commedia la natura è sempre ricca di dramma, di umana tensione. Così nell'attacco di questo canto, che prende rilievo dal contrasto tra il destino di tutti, che è quello di riposare dopo le fatiche della giornata, e quello del Poeta, oppresso dal peso della sua responsabilità, insonne, travagliato dall'angoscia.
Le parole che Dante rivolgerà a Virgilio per esporgli i propri dubbi trarranno solennità e concentrazione proprio dal fatto di essere dette in questo tramonto, simbolo del commiato di un uomo da tutto ciò che di umano ancora lo tiene legato al mondo dei vivi.
7 O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
  7 O Muse, o mia forza intellettuale, soccorretemi; o memoria, che porti impressa in te la mia visione, qui apparirà il tuo valore.
10 Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s'ell' è possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.
  10 Io cominciai con queste parole: "Poeta, mia guida, guarda se le mie capacità sono sufficienti, prima di affidarmi all’arduo passaggio.
13 Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
  13 (Nell’Eneide) tu narri che il padre di Silvio (cioè Enea, che generò Silvio da Lavinia), mentre era ancora in vita, andò nel mondo dei morti (immortale: perché in esso le anime hanno vita eterna), e fece ciò in carne e ossa.
16 Però, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
  16 Ma, se Dio (l’avversario d’ogni male) fu con lui cortese, riflettendo sull’importanza dei risultati ( Roma, la sua storia, il suo impero) che avrebbero avuto in Enea la loro origine, e sulle sue qualità personali e sulla sua stirpe regale,
 

Però, se l'avversario d'ogni male: contro i presupposti dell'esegesi tradizionale, per i quali oggetto del giudizio dell'uomo assennato è la cortesia usata da Dio ad Enea, il Pagliaro sottolinea "l'impossibilità, per così dire, ideologica, di attribuire al Poeta della cristianità medievale, che nella teologia ha concentrato e trasfigurato la pienezza e la purezza del suo amore terreno, un atteggiamento irrispettoso o per lo meno distratto, al punto da fargli dire che un uomo di senno non può obbiettare nulla contro il favore dimostrato da Dio nei riguardi di Enea..." Il giudizio dell'uomo assennato verterebbe quindi sulla persona di Enea, non sulla cortesia di Dio. Quanto alla domanda affacciata da alcuni interpreti, se cioè Dante credeva alla discesa agli Inferi di Enea (di cui Virgilio parla nell'Eneide, canto VI, 237 sgg.) come a un evento storicamente accertato, occorre ricordare che per la mentalità medievale il problema non si poneva in questi termini: un fatto veniva accettato come vero per il momento di verità interiore che in esso appariva contenuto.
Nell'empireo ciel per padre eletto: il cielo Empireo è il decimo, il più remoto dalla terra, quello che rinchiude in se tutto il creato ed è sede di Dio.

19 non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:
  19 la cosa non appare ingiustificata a chi ragiona; poiché egli fu prescelto da Dio come capostipite della nobile Roma e del suo impero:
22 la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.
  22 Roma e il suo impero, se vogliamo essere esatti, furono costituiti da Dio per preparare il luogo sacro dove ha sede il pontefice, successore del grande Pietro.
25 Per quest' andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
  25 A causa di questa discesa ( nel regno dei morti), di cui (nel tuo poema) lo hai considerato degno, apprese fatti (il padre Anchise gli pronosticò il felice esito dei suoi travagli e la grandezza di Roma) che furono le premesse della sua vittoria (nella guerra contro i Latini e i loro alleati) e dell’autorità papale.
 

L'apostrofe di Dante a Virgilio inizia sul tono di un ragionamento dimostrativo, "ma si trasforma via via in una commossa apoteosi di quella Roma ideale, latina e cristiana, che, per divina elezione, doveva essere luce di vita temporale e spirituale al genere umano" (Grabher).

28 Andovvi poi lo Vas d'elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di salvazione.
  28 La seconda discesa nell’oltretomba è quella di San Paolo, l’eletto da Dio, il quale vi andò per trarne forza per la diffusione della fede cristiana, senza la quale la salvezza è impossibile.
 

Vas d'elezione: il vaso della scelta, il recipiente colmo, per decisione divina, di grazia; nel Paradiso ( canto XXI, versi 127-128) Dante chiamerà San Paolo il gran vasello dello Spirito Santo. Il verso allude al rapimento mistico che San Paolo rivela di aver avuto, allorché "se nel suo corpo, o fuori del suo corpo..., lo sa Iddio, fu rapito fino al terzo cielo" (II Corinti XII. 2-4).

31 Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri 'l crede.
  31 Ma qual è il motivo per il quale io devo intraprendere questo viaggio? chi mi autorizza a farlo? Non sono né Enea né San Paolo: né io mi ritengo all’altezza del compito, né qualcun altro me ne ritiene degno.
 

A più riprese, nella Divina Commedia, Dante manifesta l'alta coscienza che ha di sé e della missione affidatagli; ma qui, in questo severo e tormentato dibattito con se stesso, vediamo quanto sia profonda la sua umiltà dinanzi ai supremi ideali in cui crede. L'Impero e la Chiesa si levano giganteschi davanti a lui nelle persone: Enea e di San Paolo, a testimoniargli la provvidenzialità del corso della storia. Di fronte a questi due fulcri della volontà di Dio in terra, il Poeta ha vivo il sentimento della sua umana piccolezza.

34 Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».
  34 Perciò, se, per quel che riguarda questo viaggio, m’induco ad acconsentire, temo che la mia venuta (nell’oltretomba) sia temeraria: sei saggio; sei in grado di comprendere meglio di quanto io non sia in grado di esprimermi.
37 E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
  37 E nello stato d’animo di chi cessa di volere ciò che ha voluto prima e cambia intento per il sopraggiungere di nuovi pensieri, in modo da scostarsi dal proposito iniziale,
40 tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
  40 venni a trovarmi io su quel buio pendio (e scesa nel frattempo la notte), perché portai a termine, col pensiero ( prevedendone tutti gli ostacoli e rendendomi conto della sua folle temerarietà), l’impresa cui mi ero accinto con tanta baldanza.
 

Il paragone, volto a illustrare uno stato d'animo, senza avere l'ampiezza di risonanze della similitudine del naufrago del primo canto, è condotto con "energia nervosa ", cui "conferisce l'evidenza d'una scena drammatica lo scenario interposto, tal mi fec'io in quella oscura costa" (Momigliano).

43 «S'i' ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
«l'anima tua è da viltade offesa;
  43 "Se ho capito bene il tuo discorso" rispose l’ombra di Virgilio, "il tuo animo è fiaccato dalla pusillanimità:
 

Magnanimo: si contrappone alla viltate del verso 45: "Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanime, per contrario, sempre si tiene meno che non e" (Convivio I, XI, 18).

46 la qual molte fïate l'omo ingombra
sì che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.
  46 essa molte volte ostacola l’uomo tanto da allontanarlo da un’impresa onorata, così come una ingannevole apparenza fa volgere indietro una bestia quando si adombra.
49 Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
  49 Perché tu ti liberi da questo timore, ti esporrò il motivo per cui sono venuto (in tuo aiuto) e ciò che udii quando per la prima volta sentii pietà per il tuo stato.
52 Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
  52 Mi trovavo (nel limbo) tra coloro che sono in una condizione intermedia tra i beati e i dannati al fuoco eterno, quando fui chiamato da una donna di tale bellezza e soffusa di tanta letizia, da essere indotto a pregarla di comandare.
 

I critici hanno variamente insistito sugli aspetti che ricollegano l'apparizione di Beatrice a Virgilio in questo canto ai modi in cui la figura di Beatrice è presentata nella Vita Nova, lo scritto giovanile con cui Dante ha celebrato le virtù della donna amata. Per il Sapegno tutta l'intonazione dell'episodio riflette quel "misticismo amoroso" che aveva trovato in Dante il suo più sicuro interprete, nell'ambito della scuola poetica del dolce stil novo. Il Momigliano nota anch'egli la "continuità ideale e artistica" fra la Vita Nova e la Commedia, rilevando in questo episodio maggiore maturità e sicurezza d'impianto rispetto agli scritti giovanili.

55 Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
  55 La luce dei suoi occhi vinceva quella delle stelle; e cominciò a parlarmi dolcemente e pacatamente, con voce d’angelo:
58 "O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto 'l mondo lontana,
  58 "O cortese anima mantovana, la cui fama dura ancora fra gli uomini, ed è destinata a durare tanto a lungo quanto durerà il mondo,
61 l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt' è per paura;
  61 colui che è amato da me, ma non dalla sorte, ha trovato tali ostacoli sul deserto pendio del colle, che si è già volto indietro per la paura;
64 e temo che non sia già sì smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
  64 il mio timore è che egli si sia a tal punto nuovamente perduto (nel buio del peccato), da rendere ormai tardivo (e quindi inutile) il mio aiuto, per quel che di lui mi è stato riferito in cielo.
 

Alcuni credono che con l'espressione l'amico mio Beatrice intenda accennare all'amore di Dante per lei, anziché a quello suo per Dante. Questa interpretazione concorderebbe con quella di un antico commentatore che insiste sul senso allegorico: ''molti amano Beatrice, cioè la dottrina delle cose divine, non per lei né per aver quella, ma per acquistarne fama e reputazione mondana e ricchezze e dignità, le quali cose son beni di fortuna" (Buti).

67 Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.
  67 Va dunque, e aiutalo sia con la tua eloquenza sia con tutto ciò che altrimenti occorra per la sua salvezza, in modo da rendermi contenta.
70 I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
  70 Io, che ti invito ad andare, sono Beatrice; vengo dal cielo, dove desidero tornare; sono stata spinta (fin qui) da amore e amore ha ispirato le mie parole.
 

Il termine "amore", ha qui una grande complessità di significati. "È' l'amore di Beatrice per il suo fedele; ma anche l'Amore inteso nel suo valore assoluto, cioè Dio, da cui deriva ogni impulso caritatevole."(Sapegno)

73 Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia' io:
  73 Quando sarò davanti a Dio, spesso Gli parlerò degnamente di te." Allora tacque, e poi io cominciai:
76 "O donna di virtù sola per cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,
  76 "O signora di virtù, per la quale virtù soltanto il genere umano è superiore ad ogni altro essere contenuto dal cielo (quello della Luna) che compie (nel suo moto di rotazione intorno alla terra) i giri più piccoli,
 

Di quel ciel c'ha minor li cerchi sui: secondo il sistema tolemaico, nove cieli concentrici girano intorno alla terra, che viene quindi a trovarsi come contenuta in essi. Il più basso e quindi il più piccolo (e il più vicino alla terra) è il cielo della Luna.

79 tanto m'aggrada il tuo comandamento,
che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;
più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.
  79 il tuo comando mi è così gradito, che, se anche avessi iniziato ad obbedirti, mi sembrerebbe pur sempre d’aver fatto tardi; più non occorre che tu mi manifesti: il tuo volere.
82 Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l'ampio loco ove tornar tu ardi".
  82 Dimmi piuttosto il motivo per cui non temi di scendere qua in basso, nel centro dell’universo (occupato appunto dall’inferno), dal luogo sconfinato (l’Empireo), dove bruci dal desiderio di ritornare."
85 "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch' i' non temo di venir qua entro.
  85 "Poiché vuoi penetrare tanto in profondità con la tua mente, ti dirò in breve perché non temo di scendere nell’inferno" mi rispose.
88 Temer si dee di sole quelle cose
c'hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, ché non son paurose.
  88 Conviene temere soltanto quelle cose che possono arrecare danno; le altre no, poiché non sono temibili.
 

Il Boccaccio, riportandosi a un passo dell'Etica di Aristotile, afferma: "il non temer le cose che possono nuocere... è atto di bestiale e di temerario uomo; e così temere quelle che nuocere non possono... è atto di vilissimo uomo..."
Questa così ovvia risposta di Beatrice - sarebbe sufficiente alla domanda di Virgilio. "Ma Beatrice ha compreso che Virgilio desidera sapere la ragione personale, intima, della improvvisa e affatto straordinaria discesa di lei, non già di udire una sentenza filosofica." (Torraca)

91 I' son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.
  91 Dio mi creò, per sua grazia,tale che la vostra miseria di peccatori non mi tocca, né possono attaccarmi le fiamme infernali.
 

In queste parole di Beatrice "non c'è disprezzo per la miseria e l'incendio... che travaglia i dannati, ma il senso di una pace, di una felicità sicura, di un distacco ineffabile dal mondo e dalla materia... e nello stesso tempo il candore della creatura celestiale, trionfante con tanta semplicità e umiltà (Chimenz).

94 Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov' io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
  94 Nel cielo una donna gentile (la Vergine) ha compassione per queste difficoltà verso le quali io ti mando (a liberare Dante), tanto da mitigare la severità della giustizia divina.
97 Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.
  97 Questa chiamò Lucia e disse: "Il tuo fedele ha ora bisogno di te, ed io a te lo raccomando".
 

Lucia: martire siracusana, protettrice della vista, simboleggia la Grazia illuminante; forse Dante le fu particolarmente devoto in seguito ad una malattia degli occhi di cui ebbe a soffrire (Convivio III, IX, 15-16).

100 Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov' i' era,
che mi sedea con l'antica Rachele.
  100 Lucia, nemica di ogni crudeltà, si mosse, e venne dove io sedevo insieme all’antica Rachele.
 

Rachele: personaggio dell'Antico Testamento, nel Medioevo simboleggia la vita contemplativa ed è perciò posta accanto a Beatrice, simbolo della teologia.

103 Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t'amò tanto,
ch'uscì per te de la volgare schiera?
  103 Parlò: - Beatrice, vera gloria di Dio (loda: lode, in quanto la sua perfezione torna a gloria di chi la creò), perché non aiuti chi tanto ti amò, colui che, per amor tuo, seppe elevarsi sulla turba dei mediocri?
 

Beatrice, loda di Dio vera: il senso di questa espressione così concisa si chiarisce attraverso una pagina della Vita Nova, ove è scritto che la gente, dopo aver visto Beatrice, ringrazia il Signore per la perfezione delle sue creature: "Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilmente sae adoperare!" (XXVI).
Ch'uscì per te della volgare schiera: Dante è consapevole di essere riuscito, per altezza di poesia, per coerenza di vita morale, per sicurezza di dottrina. a sollevarsi al disopra dei suoi contemporanei. Questo verso può riferirsi "sia al bello stile che ha fatto onore a Dante cantando di Beatrice, sia alla superiorità spirituale sopra la gente volgare, raggiunta dal Poeta in virtù del suo amore" (Chimenz).

106 Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che 'l combatte
su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? -.
  106 non odi il suo pianto angoscioso? non vedi il pericolo della dannazione che lo assale sul fiume (del peccato), sul quale il mare non può vantare la sua forza?
 

La fiumana ove 'l mar non ha vanto: nella fiumana dobbiamo vedere lo scorrere della vita dell'uomo nel peccato e nel male. Una interpretazione diversa è stata avanzata dal Pagliaro, il quale, accertato che ove può avere soltanto il significato di "nel luogo in cui", ricostruisce così il senso della metafora: "Dante è in pericolo come colui che si trova su una fiumana, nel punto in cui questa si incontra col mare, e il mare non riesce a vincerla". In questa interpretazione, l'immagine, circoscritta al senso letterale, non richiede l'aggiunta di un sovrassenso.

109 Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com' io, dopo cotai parole fatte,
  109 Sulla terra non ci furono mai persone così pronte a perseguire il loro utile e a evitare ciò che potesse danneggiarle, come fui pronta io, dopo che tali parole mi furono dette,
112 venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".
  112 nello scendere fin quaggiù dal mio seggio di beata, confidando nella tua nobile eloquenza, che onora sia te sia quelli che l’hanno intesa (traendone profitto spirituale)."
115 Poscia che m'ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.
  115 Dopo avermi dette queste cose, volse verso di me gli occhi lucidi di lagrime; e per questo mi rese più sollecito a venire (dove tu eri);
 

La figura di Beatrice in lagrime suggerisce al Boccaccio questo commento: "atto d'amante e massimamente di donna; le quali, come hanno pregato d'alcuna cosa la quale desiderino, incontanente lagrimano, mostrando in quello il desiderio loro essere ardentissimo". Beatrice ha qui un contorno luminoso e celestiale, senza tuttavia nulla perdere della trepidazione di una donna che ama. C'è in tutto il suo discorso "una linea pura, la semplicità di una sfera remota dal mondo" (Momigliano).
Nel suo saggio su Dante il Croce sembra voler suggerire una ideale collocazione di Beatrice quale appare in questo "prologo in cielo", accanto alle grandi eroine della letteratura mondiale, allorché osserva: "Beatrice è ora veramente l'eterno femminile, la pietà, la sollecitudine quasi materna, con alcunché di molle e di amoroso, una santa, e pur sempre una donna bella, che in qualche modo gli appartenne e fu di lui solo, di lui suo cantore, che la celebrò viva e morta".

118 E venni a te così com' ella volse:
d'inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
  118 e come Beatrice volle venni da te; ti portai via dal cospetto della lupa, che t’aveva impedito di raggiungere per la via più breve la cima del colle.
121 Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,
 
  121 Che hai dunque? perché, perché indugi ? perché accogli in cuore tanta pusillanimità? perché non hai coraggio e schietta fiducia in te stesso?
124 poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e 'l mio parlar tanto ben ti promette?».
  124 dal momento che tre beate tanto potenti perorano la tua causa davanti al tribunale di Dio, e che le mie parole promettono (al tuo viaggio) un esito così felice?"
127 Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
  127 Come i gracili fiori, prostrati a terra con le corolle serrate per difendersi dal freddo della notte, appena li rischiara all’alba il primo raggio di sole si ergono sui loro steli con le corolle tutte aperte,
130 tal mi fec' io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch'i' cominciai come persona franca:
  130 così mi ripresi dal mio precedente stato di abbattimento, e tanto coraggio entrò nel mio animo, che cominciai (a parlare) libero da ogni timore:
 

Quali i fioretti...: la similitudine riflette, attraverso un particolare aspetto della natura all'alba. il progressivo ritorno della fiducia (buono ardire) nel cuore di Dante. La preziosa sostanza dell'immagine, il delicato atteggiarsi dei fioretti, il senso di fragilità che c'è nel loro risveglio, propongono un confronto tra l'arte di Dante e la grande tradizione figurativa del Trecento.
C'è in questa similitudine qualcosa che attesta... una malattia solo da poco decisamente superata: Dante puo ben paragonarsi a un convalescente. Guardate quei fiori: sono gracili, teneri fiori, sono soltanto fioretti: e il primo sole, che i color vari suscita dovunque si riposa, non fa che imbiancarli solamente, quasi non fossero ben capaci ancora di sopportare l'intensità dei loro colori; torna lo slancio vitale e si manifesta in quell'aprirsi, dilatarsi tutta, avidamente, della corolla, come a inebriarsi della luce del nuovo giorno, quasi di una nuova vita... (Chimenz)

133 «Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch'ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
  133 "Oh misericordiosa colei che mi venne in aiuto! e te generoso, che non hai tardato a prestare obbedienza alle veritiere parole che ti indirizzo!
136 Tu m'hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch'i' son tornato nel primo proposto.
  136 Col tuo ragionamento mi hai a tal punto predisposto l’animo con desiderio al viaggio, che sono tornato ad avere l’intenzione che avevo in origine.
139 Or va, ch'un sol volere è d'ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,
  139 Incamminati dunque, poiché un’unica volontà ci governa: siimi guida, padrone, maestro. " Cosi parlai; ed essendosi egli avviato,
142 intrai per lo cammino alto e silvestro.   142 entrai (dietro a lui) nell’arduo e orrido cammino.
         

 

© 2009 - Luigi De Bellis