1 |
In quella
parte del giovanetto anno
che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno, |
|
1 |
In quel periodo dell’anno nato da poco in cui il sole
rende più caldi i suoi raggi trovandosi nella
costellazione dell’Acquario e già le notti si avviano a
durare dodici ore, |
4 |
quando la
brina in su la terra assempra
l'imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra, |
|
4 |
quando la brina riproduce
sulla terra l’aspetto della neve, ma la sua penna (con
la quale ritrae l’immagine della neve) si spunta
rapidamente, |
7 |
lo
villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond' ei si batte l'anca, |
|
7 |
il povero contadino al
quale mancano le provviste, si alza, e guarda, e vede
tutta la campagna imbiancata, per cui si percuote il
fianco, |
10 |
ritorna in
casa, e qua e là si lagna,
come 'l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna, |
|
10 |
rientra in casa, e andando
di qua e di là si lamenta, come il misero che non sa
cosa fare: poi torna fuori, e riprende la speranza, |
13 |
veggendo 'l
mondo aver cangiata faccia
in poco d'ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia. |
|
13 |
vedendo che il mondo ha mutato in poco tempo aspetto, e
prende il suo bastone, e spinge fuori le pecorelle al
pascolo. |
|
Il sole, che si trova nella costellazione dell’Acquario
dal 21 gennaio al 21 febbraio, era personificato nella
mitologia classica dal dio Apollo, al quale si
riferiscono le due espressioni, rispettivamente di
Stazio e di Virgilio, dalle quali Dante ha probabilmente
tratto ispirazione per l’immagine "in certo senso "
prebarocca "" (Maier) del verso 2: "crinem... temperat"
(Stazio Silvae I, 2, 14-15) e "crinitus Apollo"
(Virgilio - Eneide IX. 638).
L’esordio di questo canto, di particolare ampiezza e
complessità e nel quale "una fine impressione
naturalistica si è unita a una limpida suggestione
letteraria" (Maier), può dare l’impressione di non aver
nulla in comune con la narrazione del viaggio dei due
poeti (per il Sapegno esso ha "un carattere "
extravagante " rispetto alla linea narrativa") e
contrasta singolarmente con l’opprimente atmosfera
infernale. Esso è stato pertanto considerato
generalmente come un pezzo a sé, una miniatura (secondo
il Fubini, negli esordi "Dante dovette pensare molte
volte al libro miniato") perfetta nei suoi contorni, ma
scarsamente funzionale nello scorrere del racconto. Così
il Momigliano, pur caratterizzandolo felicemente ("un
quadro fresco, pungente, di campagna mattutina, un
lontano presentimento di primavera"), si limita a
considerarlo alla stregua di un "bellissimo frammento".
Il Pézard sottolinea l’affinità fra l’arte di Dante e
quella dei pittori che si ispirarono alla tradizione
medievale.
Il Sapegno giudica la similitudine del villanello, già
dal Tommaseo ritenuta "troppo erudita", negativamente:
"Il gusto del paesaggio, che ispira questi versi, non ha
nulla a che vedere con il realismo schietto e robusto di
certe similitudini della Commedia, dove il linguaggio
acquista un’intensità ed efficacia espressiva tanto più
grande quanto più aderisce con immediatezza a una verità
familiare e quotidiana". Tale giudizio, mentre esprime
la preferenza del critico per quel tipo di realismo che
forse caratterizza con maggiore autorevolezza la poesia
di Dante, non rende tuttavia conto del fascino di queste
terzine. Esso, come ha rilevato il Maier, si sprigiona
dal contrasto tra la vita quotidiana, fatta di umili ed
elementari bisogni, del villanello (per cui, ad esempio
la sua speranza "è rapportata al suo piccolo mondo
agreste e introdotta con un verbo che allude
metaforicamente ai cesti da lui usati, con vigorosa,
densa e utilitaristica materializzazione di un
atteggiamento spirituale") e l’"esitodi squisito addobbo
espressivo, sin quasi al margine della virtuosità e
della ricercatezza" cui questa umile vita quotidiana è
ricondotta attraverso la metafora del verso 2, l’uso del
termine "assemprare", la definizione perifrastica della
neve ed il richiamo, a proposito di un fenomeno naturale
come la brinata, al lavoro dell’amanuense (penna). Anche
per il Malagoli il carattere distintivo di questa
similitudine deve essere ricercato nell’intrecciarsi di
determinazioni metaforiche e determinazioni reali. Dal
punto di vista dell’ordito sintattico e stilistico,
possiamo notare che qui, come del resto ovunque nella
Commedia, mentre la perifrasi e la subordinazione (in
quella parte... che... quando) tendono a ricondurre la
realtà al pensiero, cogliendo in essa un ordine
immutabile (qui il ritmo delle stagioni) e una struttura
logica, la coordinazione (e già le notti... ma poco
dura... si leva, e guarda , e vede... ) e la
designazione diretta rispondono invece al proposito di
coglierla nella schiettezza dei suo manifestarsi,
anteriormente ad ogni determinazione concettuale.
Contro l’opinione dei critici che hanno ritenuto
ingiustificata l’inserzione, in questo punto dei
racconto, di tale scena idilliaca (il dolore del
villanello a confronto delle pene infernali appare
ingenua testimonianza di una condizione felice),
l’Apollonio rileva che l’apertura del canto XXIV si
giustifica proprio per il contrasto che in essa viene
istituito fra "la magia bianca di quelle figure
mitologiche che personificano le vicende delle
stagioni... e la magia nera delle metamorfosi
d’inferno". A sua volta il Mattalia ritiene che la sua
funzione di preludio, "poggiando sul motivo delle
illusionistiche appariscenze (brina, neve, dissoluzione
in vapore) si estende a tutta la materia dei canti XXIV
e XXV, la sezione che Dante ha voluto ritagliarsi nel
poema per i suoi agonistici e compiaciuti orgogli di
inventivo competitore di Ovidio (Lucano in linea
subordinata), il grande " maestro " delle
"trasformazioni " operate poetando". |
16 |
Così mi fece
sbigottir lo mastro
quand' io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro; |
|
16 |
Nello stesso modo Virgilio
mi fece sbigottire quando lo vidi con aspetto così
turbato, ed altrettanto rapidamente giunse la medicina
al mio spavento, |
19 |
ché, come
noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch'io vidi prima a piè del monte. |
|
19 |
poiché, non
appena giungemmo al ponte franato, la mia guida si
rivolse a me con quell’atteggiamento affettuoso che io
avevo precedentemente veduto ai piedi del colle (canto
I, versi 13 e 77). |
22 |
Le braccia
aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio. |
|
22 |
Aprì le braccia, dopo aver preso dentro di sé una
decisione e aver osservato prima attentamente la frana,
e mi afferrò. |
25 |
E come quei
ch'adopera ed estima,
che sempre par che 'nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver' la cima |
|
25 |
E come colui che agisce e valuta, il quale dà sempre
l’impressione di pensare prima di agire, in tal modo,
mentre mi sollevava verso la sommità |
28 |
d'un
ronchione, avvisava un'altra scheggia
dicendo: «Sovra quella poi t'aggrappa;
ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia». |
|
28 |
di un masso sporgente,
cercava con lo sguardo un’altra sporgenza dicendo:
"Afferrati poi a quella; ma accertati prima se è
abbastanza salda da reggerti". |
31 |
Non era via
da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa. |
|
31 |
Quella non era una strada
che gli ipocriti, vestiti delle loro pesanti cappe,
avrebbero potuto percorrere, poiché a stento noi, egli
leggero (perché puro spirito) e io spinto da lui,
potevamo salire di appiglio in appiglio; |
34 |
E se non
fosse che da quel precinto
più che da l'altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto. |
|
34 |
e se non fosse stato per
il fatto che su quell’argine più che sull’altro il
pendio era breve, non so cosa sarebbe accaduto a
Virgilio, ma io senz’altro sarei stato sopraffatto
(dalla stanchezza). |
37 |
Ma perché
Malebolge inver' la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta |
|
37 |
Ma poiché Malebolge è
tutta quanta inclinata verso l’apertura della voragine
più bassa (che porta al nono cerchio), la posizione di
ogni bolgia comporta |
40 |
che l'una
costa surge e l'altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l'ultima pietra si scoscende. |
|
40 |
che un argine (quello
esterno) si eleva maggiormente e l’altro (quello
interno) è invece più basso: noi infine giungemmo sulla
sommità dalla quale l’ultimo masso (del ponte franato)
sporge in fuori. |
|
Dante non si accontenta di darci una descrizione del
modo in cui il paesaggio infernale gli è apparso nel
corso del suo viaggio, ma vuole altresì ragguagliarci su
quello che esso è in sé: una struttura geometrica in cui
si riflette la volontà ordinatrice di Dio. Di qui la sua
costante preoccupazione di determinare, attraverso una
terminologia tecnicamente precisa, forme, rapporti
spaziali e misure del suo oltretomba. Questo realismo,
di carattere più che altro scientifico, in quanto nasce
da uno scrupolo di esattezza, differisce da quello
attraverso il quale vengono colti, intuitivamente e con
uno straordinario potere di sintesi, i tratti più
salienti di una situazione o di un personaggio, ma serve
non meno di quello a conferire concretezza e serietà al
mondo immaginato dal Poeta. Nei punti della Commedia nei
quali, come qui, egli intende chiarirci l’ordinamento
topografico delle regioni da lui visitate, l’esattezza
grafica ha il sopravvento sul rilievo plastico o
musicale dei suo linguaggio. |
43 |
La lena
m'era del polmon sì munta
quand' io fui sù, ch'i' non potea più oltre,
anzi m'assisi ne la prima giunta. |
|
43 |
Il fiato a tal punto mi
era stato spremuto fuori dai polmoni nel momento in cui
raggiunsi la cima, che non potevo più andare avanti,
anzi mi sedetti appena arrivato. |
46 |
«Omai
convien che tu così ti spoltre»,
disse 'l maestro; «ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre; |
|
46 |
"Ormai è necessario che tu
con fatiche di questo genere ti tolga di dosso la
pigrizia" disse Virgilio; "poiché, adagiandosi sui
cuscini, o sotto le coperte, non si raggiunge la fama; |
49 |
sanza la
qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma. |
|
49 |
chi termina la sua vita
senza questa, lascia di sé sulla terra una traccia
simile a quelle che lasciano il fumo nell’aria e la
schiuma nell’acqua. |
52 |
E però leva
sù; vinci l'ambascia
con l'animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s'accascia. |
|
52 |
E perciò alzati: vinci
l’affanno con la volontà che trionfa di qualsiasi
difficoltà, se non si abbatte con il corpo pesante cui è
legata. |
|
La descrizione minuziosa della scalata compiuta dai due
poeti è qui, come nota il Mattalia, evidentemente "
moralizzata ". Nel monito di Virgilio si afferma con
singolare vigore l’ideale etico dantesco, per il quale
la vita, dono che abbiamo ricevuto da Dio, deve essere
convertita in compito, in missione. Dante non è uno
spirito contemplativo; per lui, se alla base del
riscatto dell’uomo dalla sua condizione imperfetta deve
porsi un diretto intervento di Dio (la Grazia), l’uomo
può e deve tuttavia tendere al bene con le proprie
forze. In questi versi l’esortazione del poeta latino si
orna "di una sfumatura "umanistica" per la presenza in
essa dell’accenno alla " gloria "" (Maier). Questo
accenno caratterizza il mondo culturale che nel poema ha
in Virgilio il suo portavoce (nella tradizione classica,
diversamente che in quella cristiana, orientata verso
l’interiorità delle coscienze, la gloria era stata
considerata tra i fini più alti che l’uomo può
raggiungere) e la funzione allegorica di quest’ultimo
(la gloria è tra i fini che si possono conseguire con
l’uso della sola ragione). In tutta questa scena, alla
serietà della professione di fede nella vita come dovere
si intreccia, secondo il Mattalia, un "gusto
autocaricaturale", che assume qua e là toni lievemente
comici per il contrasto tra la solennità
dell’ammonimento e la esiguità del fatto che lo ha
determinato, ma occorre non dimenticare che i dialoghi
tra maestro e discepolo hanno un valore simbolico dal
quale non è lecito prescindere: in esso si configura la
battaglia che l’anima, sotto la guida della ragione,
combatte per vincere il male che è in lei e rendersi
degna della Grazia. Sotto questo punto di vista anche il
più trascurabile incidente, nell’itinerario che i due
poeti percorrono, può rívelarsi fatale: un attimo di
pigrizi a, un momentaneo rilassarsi della vigilanza può
portare in sé i germi della perdizione. |
55 |
Più lunga
scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia». |
|
55 |
Occorre salire una scala
più lunga (dal centro della terra alla vetta dei
purgatorio); non è sufficiente che tu ti sia allontanato
da questi dannati: se mi capisci, ora fa in modo che la
mia esortazione ti sia d’aiuto." |
58 |
Leva'mi
allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch'i' non mi sentia,
e dissi: «Va, ch'i' son forte e ardito». |
|
58 |
Allora mi alzai,
mostrandomi provvisto di forze più di quanto io stesso
me ne sentissi, e dissi: "Procedi, poiché sono forte e
coraggioso". |
61 |
Su per lo
scoglio prendemmo la via,
ch'era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria. |
|
61 |
Ci incamminammo sul ponte
(che varca la settima bolgia), il quale era irto di
sporgenze, angusto e difficile da percorrere ed assai
più ripido di quello precedente. |
64 |
Parlando
andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de l'altro fosso,
a parole formar disconvenevole. |
|
64 |
Procedevo parlando per non
apparire stanco; per cui dall’altra bolgia usci una
voce, incapace di articolare parole. |
67 |
Non so che
disse, ancor che sovra 'l dosso
fossi de l'arco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso. |
|
67 |
Non so che cosa disse,
sebbene mi trovassi già sulla sommità del ponte che qui
fa da valico: ma colui che parlava pareva spinto a
camminare. |
70 |
Io era vòlto
in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per ch'io: «Maestro, fa che tu arrivi |
|
70 |
Io ero rivolto verso il
basso, ma il mio sguardo, per quanto penetrante, non
poteva arrivare fino al fondo (della bolgia) a causa
dell’oscurità; perciò dissi: " Maestro, fa in modo di
arrivare |
73 |
da l'altro
cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com' i' odo quinci e non intendo,
così giù veggio e neente affiguro». |
|
73 |
all’altro argine e
scendiamo giù da questo ponte; poiché, come di qui odo
senza comprendere, così vedo quello che c’è nel fondo
senza distinguere nulla". |
76 |
«Altra
risposta», disse, «non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
si de' seguir con l'opera tacendo». |
|
76 |
"Non ti do altra risposta
se non il fare (ciò che tu chiedi)" disse; "poiché
occorre soddisfare la richiesta giusta con i fatti,
senza parlare." |
79 |
Noi
discendemmo il ponte da la testa
dove s'aggiugne con l'ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta: |
|
79 |
Discendemmo per il ponte
da quella estremità in cui esso si congiunge con
l’argine ottavo, e poi la bolgia mi divenne visibile: |
82 |
e vidivi
entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa. |
|
82 |
e in essa vidi uno
spaventoso ammasso di serpenti, e di così strano genere,
che il ricordarmene mi guasta ancora il sangue. |
85 |
Più non si
vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena, |
|
85 |
Più non si vanti la Libia
con i suoi deserti, poiché se genera chelidri, iaculi e
faree, e cencri con anfisibene, |
88 |
né tante
pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l'Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso è. |
|
88 |
mai mise in mostra tanti
animali velenosi né così nocivi insieme con tutta
l’Etiopia, e con la terra (l’Arabia) che è delimitata
dal Mar Rosso. |
|
Le specie
di serpenti che qui Dante menziona si trovano in un
passo della Farsaglia di Lucano (IX, versi 711-720). I
chelidri farebbero, secondo l’autore latino, sprigionare
fumo lungo la strada da essi percorsa; gli iaculi
avrebbero la capacità di volare; le faree lascerebbero
dietro di sé una traccia fatta con la coda; i cencri
procederebbero sempre in linea retta; le anfisibene
avrebbero due teste. Come ha notato Sante Muratori, in
questa presentazione che Dante fa dell’insieme della
settima bolgia l’uso di termini peregrini e l’accenno a
paesi esoticì introducono in quell’atmosfera di mistero
che caratterizza le metamorfosi di questa bolgia. La
descrizione della trasformazione dei ladri, che qui
inizia, non deve essere considerata come un pezzo di
bravura, anche se Dante mostra di essere consapevole
della difficoltà del tema trattato e della propria
abilità e di questa abilità si vanta. "In verità anche
qui l’ispirazione di Dante è più complessa e profonda
che non appaia a prima vista. Il distacco artistico, che
regola la tecnica descrittiva e guida la fantasia a
sbrigliarsi in una sorta di divertimento umanistico di
miracolosa sapienza inventiva e figurativa, si genera a
sua volta in uno stato d’animo di crudele e sprezzante
giudizio morale." (Sapegno) |
91 |
Tra questa
cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia: |
|
91 |
In mezzo a questa feroce e
terribile moltitudine correvano schiere nude e
atterrite, senza speranza di trovare riparo o elitropia
(pietra che si credeva guarisse dal morso dei serpenti e
rendesse invisibili): |
94 |
con serpi le
man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate. |
|
94 |
avevano le mani avvinte
dietro la schiena con serpenti; questi spingevano la
coda e la testa lungo i loro fianchi, e si
attorcigliavano sul loro davanti. |
|
Il contrappasso che si cela nella pena dei ladri è così
spiegato dai commentatori: le mani, di cui in vita si
servirono per compiere i loro furti, sono ora
immobilizzate dai serpenti. Questi, secondo alcuni,
simboleggerebbero l’astuzia connaturata all’idea del
furto. Anche nelle trasformazioni che i ladri subiscono
occorrerebbe vedere un significato simbolico: essi
verrebbero in tal modo defraudati di quello che per ogni
uomo è un bene inalienabile: le proprie sembianze umane. |
97 |
Ed ecco a un
ch'era da nostra proda,
s'avventò un serpente che 'l trafisse
là dove 'l collo a le spalle s'annoda. |
|
97 |
Ed ecco che
contro uno che si trovava dalla parte del nostro argine,
si scagliò un serpente che lo trafisse nel punto in cui
il collo si congiunge alle spalle. |
100 |
Né O sì
tosto mai né I si scrisse,
com' el s'accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse; |
|
100 |
Non si
scrisse mai tanto rapidamente né " o " né " i ", come
quello prese fuoco e bruciò, e dovette, cadendo,
diventare tutto quanto cenere; |
103 |
e poi che fu
a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e 'n quel medesmo ritornò di butto. |
|
103 |
e dopo che fu così
annientato a terra, la cenere si radunò insieme per
virtù propria, e si trasformò di colpo nello stesso
dannato di prima: |
106 |
Così per li
gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa; |
|
106 |
allo stesso modo i grandi
sapienti affermano che la fenice muore e in un secondo
tempo rinasce, allorché si avvicina al suo
cinquecentesimo anno: |
109 |
erba né
biado in sua vita non pasce,
ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,
e nardo e mirra son l'ultime fasce. |
|
109 |
mentre è in vita non si
ciba né di erbe né di biada, ma solo di stille d’incenso
e di amomo (resina aromatica), e morendo si avvolge nel
nardo e nella mirra. |
|
Dopo aver evocato il numero ingente di serpenti che
popolano la bolgia, il Poeta, nel descrivere la
trasformazione di uno dei dannati, mette l’accento sulla
rapidità (né o si tosto mai né i si scrisse) e sulla
innaturalezza (e ‘n quel medesmo ritornò di butto) di
questa metamorfosi. Per quel che riguarda l’immagine dei
verso 100, analogicamente affine a quella del verso 6
(ma poco dura alla sua penna tempra), l’Anonimo
Fiorentino spiega: "queste due lettere, o e i si
scrivono a uno tratto di penna, e pertanto si scrivono
più velocemente che le altre, che con più tratti di
penne è dato loro forma".
La fenice è un mitico uccello del quale hanno
favoleggiato gli scrittori dell’antichità. Il paragone
dei versi 106-111 è stato ispirato a Dante probabilmente
da Ovidio, ma risulta, rispetto al testo latino, assai
più ricco di vita poetica. Del brano di Ovidio
(Metamorfosi XV, versi 392-400) Dante ha omesso la
menzione degli alberi sui quali la fenice nidifica
"certo avvertendo che l’eccessiva specificazione e
l’indicazione di piante comuni e note (il " leccio " e
la " tremula palma ") venivano a dismagare l’incanto
della rappresentazione dell’uccello straordinario; e ha
invece interamente puntato sui dati più peregrini ed
efficacemente caratterizzanti, tutti stilizzati nel
senso dell’accentuazione magica e fantastica del motivo:
e precisamente i particolari dei cinquecentesimo anno,
della morte e della rinascita (riunite in un sol verso,
per suggerire l’immediatezza miracolosa del trapasso),
dei rari cibi di cui la fenice si pasce; ed ha anche
colto e trasferito "di peso " nel suo testo i due punti
più sorprendenti e poetici del passo ovidiano: quello
delle lagrime d’incenso e d’amomo (e l’inversione del
nesso soggetto - complemento di specificazione accentua
la rarità di quel cibo singolare) e quello della morte
dell’uccello fra gli incensi, efficacemente
materializzato, secondo il tipico gusto dantesco del
concreto, nell’audacissima immagine delle ultime fasce"
(Maier). |
112 |
E qual è
quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch'a terra il tira,
o d'altra oppilazion che lega l'omo, |
|
112 |
E quale è colui
(l’epilettico) che cade, e non ne conosce il perché, a
causa di un assalto di demoni che lo fa precipitare a
terra, o di un altro impedimento che lo paralizza, |
115 |
quando si
leva, che 'ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch'elli ha sofferta, e guardando sospira: |
|
115 |
il quale, quando si
rialza, si guarda attorno del tutto disorientato a causa
del grande dolore che ha sofferto, e mentre guarda
sospira, |
118 |
tal era 'l
peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant' è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia! |
|
118 |
tale era il peccatore
quando si rialzò. Oh quanto è severa la potenza di Dio,
la quale per punizione scaglia tali colpi! |
|
Dopo le immagini suggerite al Poeta dalla frequentazione
di testi letterari - immagini che traggono gran parte
della loro carica suggestiva dal riferimento ad epoche e
culture lontane - ecco una immagine che esprime, in
termini di estrema precisione, un diretto contatto con
la realtà. I punti di più vigoroso rilievo della
similitudine sono posti all’inizio e alla fine e si
corrispondono sia per la posizione nel verso (occupano
il secondo emistichio dei versi 112 e 117) sia per la
loro funzione (in un periodo ordinato secondo una
rigorosa subordinazione, e non sa como... e guardando
sospira rappresentano i momenti di più viva
immediatezza, di maggiore aderenza da parte del Poeta
all’oggetto della sua visione). Fra le subordinate il
ritorno insistente delle relative (di cui due
armonicamente si bilanciano, conferendo alla terzina 115
una particolare eleganza) mira a circostanziare nei suoi
dettagli il quadro, a conferirgli il crisma
dell’oggettività. Lo stesso scopo ha l’enunciazione
delle possibili cause del fenomeno considerato, in
merito alle quali il Poeta non si pronuncia e che
separa, ponendole sullo stesso piano, per mezzo della
particella disgiuntiva o. |
121 |
Lo duca il
domandò poi chi ello era;
per ch'ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera. |
|
121 |
Virgilio gli chiese poi
chi fosse; onde egli rispose: "Io precipitai dalla
Toscana, poco tempo fa, in questa bolgia crudele. |
124 |
Vita bestial
mi piacque e non umana,
sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana». |
|
124 |
Trovai di mio gradimento
una vita da bestia, non da uomo, degna del bastardo che
fui; sono Vanni Fucci, la bestia, e Pistoia fu il mio
degno covo". |
|
Vanni, figlio illegittimo del nobile Fuccio dei Lazzari
di Pìstoia, militò nel partito dei Neri e prese parte
alle lotte civili che insanguinarono la sua città.
Condannato in contumacia per omicidi e rapine nel 1295,
si ritirò nel castello di Lizzano, da dove alcuni mesi
dopo rientrò in Pistoia per distruggere le case dei
Bianchi. Era stato al servizio del comune di Firenze
nella guerra contro Pisa (1289-1293) e forse Dante lo
conobbe in quell’occasione. Il Poeta lo colloca nella
bolgia dei ladri perché gli attribuisce il furto,
avvenuto nel dicembre 1292 o nel gennaio 1293, delle
statue d’argento della Vergine e degli Apostoli
custodite nella cappella di Sant’Jacopo del duomo di
Pistoia. Del furto furono incolpati un certo Rampino
Foresi, poi prosciolto, e, in un secondo tempo, il
notaio Vanni della Monna, che fu condannato a morte e
impiccato. Vanni Fucci morì nel 1300.
La figura di Vanni Fucci ha una sua tragica grandezza.
Molti critici hanno veduto in lui il più diabolico fra i
personaggi dell’Inferno. Per il De Sanctis le prime
parole che il dannato rivolge a Dante costituiscono "una
professione di bestialità". Scrive il De Sanctis: "Era
riserbato a Vanni Fucci il dire: io piovvi... il
personalizzare questo verbo, lo scegliere una immagine
impersonale, nella quale egli annega la sua propria
persona. Vita bestial mi piacque; e non se ne
accontenta, e vi aggiunge la vita umana a contrapposto
ed esclusione. Siccome a mul ch’io fui: alla
degradazione dell’anima aggiunge la degradazione della
sua origine: egli si proclama bastardo e la espressione
è degna della sua intenzione: l’immagine ch’egli sceglie
è quella del mulo... Un uomo direbbe: - Pistola fu mia
patria -; Vanni Fucci bestia soggiunge: Pistoia mi fu
degna tana". |
127 |
E ïo al
duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù 'l pinse;
ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci». |
|
127 |
E io a Virgilio: "Digli di
non sgusciar via, e chiedigli quale peccato lo spinse
quaggiù; poiché io lo conobbi come uomo sanguinario e
rissoso". |
130 |
E 'l
peccator, che 'ntese, non s'infinse,
ma drizzò verso me l'animo e 'l volto,
e di trista vergogna si dipinse; |
|
130 |
E il peccatore, che capì,
non esitò, ma rivolse verso di me l’animo e lo sguardo,
e arrossì di malvagia vergogna; |
133 |
poi disse:
«Più mi duol che tu m'hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l'altra vita tolto. |
|
133 |
poi disse: "Provo più
dolore per il fatto che tu mi abbia sorpreso nella
condizione miseranda nella quale mi vedi, di quello che
provai morendo. |
|
La terzina 133 riecheggia le parole che Farinata rivolge
a Dante dopo l’intermezzo rappresentato dal colloquio
del Poeta con Cavalcante: s’elli han quell’arte... male
appresa, ciò mi tormenta più che questo letto. Vanni
Fucci si è definito bestia (era questo il soprannome che
gli era stato dato in vita) e con gioia perversa ha
ribadito a Dante la sua inumanità. Ma nel rossore che
gli si dipinge sul volto allorché si vede costretto a
confessare di essere stato, oltre che un violento (di
ciò se ne era fatto un vanto), anche un ladro, e
nell’energica dichiarazione del suo rammarico (che
quando lui dell’altra vita tolto) si esprime una pena
umana ed un apprezzamento non pervertito dei valori
morali. I versi 133-135, se non fanno di questo dannato
un magnanimo come il grande eretico ghibellino del canto
decimo, rivelano in lui la presenza di una coscienza ed
un cupo, insanabile dolore. Per liberarsi da questo
dolore egli cercherà di fare del male (profetizzando a
Dante una sconfitta dei Bianchi). |
136 |
Io non posso
negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch' io fui
ladro a la sagrestia d'i belli arredi, |
|
136 |
Non posso ricusarti quello
che mi chiedi: sono collocato così in basso perché fui
ladro nella sagrestia riccamente addobbata, |
139 |
e falsamente
già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da' luoghi bui, |
|
139 |
e il furto fu allora
ingiustamente attribuito ad altri. Ma affinché tu non
gioisca per avermi veduto in questo stato, se mai
uscirai dall’inferno, |
142 |
apri li
orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d'i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi. |
|
142 |
presta attenzione alla mia
profezia, e ascolta: Pistoia dapprima si svuota dei Neri
(scacciati nel 1301 dai Bianchi): in seguito Firenze
cambia (i Bianchi verranno banditi dopo l’entrata in
città di Carlo di Valois, perché con il suo appoggio i
Neri sostituiranno al potere il partito avversario)
popolazione e forme di governo. |
145 |
Tragge Marte
vapor di Val di Magra
ch'è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra |
|
145 |
Marte fa uscire dalla val
di Magra un fulmine avviluppato in nuvole cupe; e con
travolgente e aspra tempesta |
148 |
sovra Campo
Picen fia combattuto;
ond' ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto. |
|
148 |
si combatterà a Campo
Piceno; per cui esso vigorosamente dissiperà le nubi, in
modo che ogni Bianco ne sarà colpito. |
151 |
E detto l'ho
perché doler ti debbia!». |
|
151 |
E ho detto ciò perché ti
debba far male!" |
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Nello stile oscuro delle profezie Vanni Fucci predice a
Dante la sconfitta dei Bianchi pistoiesi ad opera di
Moroello Malaspina. marchese di Giovagallo (il vapor che
il dio della guerra, Marte, fa uscire dalla val di
Magra), e dei suoi alleati Neri, lucchesi e fiorentini
(i torbidi nuvoli in cui è avviluppato), avvenuta nel
territorio di Pistoia (sovra Campo Picen). Dante, come
molti suoi contemporanei, identifica erroneamente l’Ager
Picenus di cui parla Sallustio (Catilinaria LVII) con il
territorio pistoiese. In coerenza con lo sviluppo
metaforico di questa predizione la battaglia tra Neri e
Bianchi è veduta come una tempesta. Moroello Malaspina
condusse fra il 1302 e il 1306 una guerra contro Pistoia
governata dai Bianchi, che ebbe nella presa del castello
di Serravalle (1302) e in quella di Pistoia i suoi
episodi più notevoli. Non è certo a quale di questi due
eventi alluda Vanni Fucci nella sua profezia. |