IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

 
HOME PAGE
 
1 2 3 4
5 6 7 8
9 10 11 12
13 14 15 16
17 18 19 20
21 22 23 24
25 26 27 28
29 30 31 32
33 34    

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

HOME PAGE
 
1 2 3 4
5 6 7 8
9 10 11 12
13 14 15 16
17 18 19 20
21 22 23 24
25 26 27 28
29 30 31 32
33 34    


 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI INFERNO CANTO XXV°

1 Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!».
  1

Non appena ebbe finito di parlare il ladro levò entrambi i pugni col pollice sporgente fra l’indice e il medio, gridando: "Prendi, Dio, poiché rivolgo a te questo gesto!"

  A proposito dello sconcio gesto di Vanni Fucci può essere utile ricordare quanto scrive nella sua Cronaca (VI, 5) il Villani: sulla rocca pistoiese di Carmignano "avea una torre alta settanta braccia, e ivi due braccia di marmo che faceano con le mani le fiche a Firenze". Nel suo commento il Tommaseo dà notizia di una disposizione dello statuto di Prato, in base alla quale chi avesse compiuto questo gesto verso un’immagine di Dio o della Vergine doveva pagare "dieci lire per ogni volta; se no, frustato".
Il gesto imprevedibile e gratuito del ladro - il quale, dopo essersi fatto, per predire al suo avversario politico la sconfitta dei Bianchi, "solenne e severo come un profeta", "apostrofa brevemente Dio, con irridente familiarità, come chiamerebbe per nome un suo degno compagno o avversario di risse e di alterchi" (Ferrero-Chimenz) - è in questi termini motivato dal Torraca. "Vanni Fucci... al termine della sua profezia... è così pieno di maligna soddisfazione, e insieme, così eccitato, da osar di rivolgersi contro, Dio stesso... Non godrà Dante di averlo veduto, e non deve godere Dio di averlo messo tanto giù; e che monta la condanna e la pena, se egli ha potuto quasi infiggere un pugnale nel cuore di quel vivo, di quel Bianco, di quel suo nemico?
4 Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch' una li s'avvolse allora al collo,
come dicesse 'Non vo' che più diche';
  4 Da allora in poi i serpenti mi diventarono cari, poiché uno gli si attorcigliò in quello stesso istante al collo, come per dire "Non voglio che parli oltre",
7 e un'altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.
  7 ed un altro alle braccia, e lo legò nuovamente, congiungendo con tale forza capo e coda sul suo davanti, che (il dannato) non poteva con esse fare alcun movimento.
  Il significato del termine "amicizia" è in Dante assai vicino a quello di "affetto", "amore". Più forte dell’istintivo orrore che l’uomo prova alla vista del serpente è nel Poeta la riconoscenza per gli strumenti della giustizia divina, che pongono fine al blasfemo rovesciamento di ogni valore.
10 Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d'incenerarti sì che più non duri,
poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?
  10

Ahi Pistoia, Pistoia, perché non decidi di ridurti in cenere in modo da non esistere più, dal momento che superi nel fare il male i tuoi fondatori?

  Secondo una leggenda assai diffusa nel Medioevo i fondatori di Pistoia erano stati i soldati dell’esercito di Catilina, per cui, come scrive il Villani, "non è da maravigliarsi se i Pistolesi sono stati e sono gente di guerra, fieri, crudeli, intra loro e con altrui. essendo stratti dal sangue di Catellina" (Cronaca 1, 32). Per quel che riguarda l’invettiva di Dante contro questa città, essa, come fa notare il Tomaselli, appare perfettamente legittimata nel quadro dei principii giuridici medievali, secondo i quali tutti i cittadini di un comune erano ritenuti corresponsabili del reato compiuto da uno di loro. Il tono di quest’apostrofe riecheggia quello dei profeti dell’Antico Testamento: l’augurio espresso dal Poeta è una risposta indiretta alla profezia di Vanni.
13 Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da' muri.
  13

In nessuno dei tenebrosi cerchi infernali vidi mai un dannato così superbo verso Dio, neppure colui (Capaneo) che precipitò dall’alto delle mura di Tebe.

  L’accenno a Capaneo, fatto attraverso una perifrasi che richiama l’attenzione del lettore non sulla superbia di questo personaggio, ma sul momento in cui questa superbia si dimostrò insufficientemente fondata (la caduta dalle mura di Tebe), mette in luce il carattere assolutamente disumano, non riducibile neppure alle proporzioni del mito, dell’empietà di Vanni Fucci. "Capaneo spunta l’asprezza del proprio sarcasmo tra le pieghe della sua magniloquenza; Lucifero è un vinto, un grande vinto, che nella coscienza della propria impotenza goccia tutta l’amarezza del proprio dolore: Satana di quell’inferno è Vanni." (Cosmo) Molto persuasive le seguenti osservazioni del Sapegno: "Proiettata su uno sfondo di vicende e di costumi moderni, ritratti con immediatezza realistica; resa più torbida e insieme più intensa dalla presenza di una feroce passione politica, che coinvolge anche lo stato d’animo dello spettatore; la ribellione di Vanni Fucci si svolge secondo una linea di tensione drammatica e di esasperato movimento, che nettamente si contrappongono, sul piano artistico, alla costruzione immobile e prevalentemente scultorea della figurazione di Capaneo".
16 El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov' è, ov' è l'acerbo?».
  16 Quello fuggì senza più dire parola; ed io scorsi un centauro gonfio d’ira avanzare gridando: "Dov’è, dov’è quel ribelle?"
19 Maremma non cred' io che tante n'abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.
  19 Non credo che la Maremma abbia tante serpi, quante quello aveva sulla groppa fin dove cominciano le fattezze umane.
22 Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l'ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s'intoppa.
  22 Sopra le sue spalle, dietro la nuca, stava un drago con le ali aperte; e questo investiva col fuoco chiunque s’imbatteva in lui,
25 Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto 'l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.
  25 Virgilio disse: "Costui è Caco, il quale nella spelonca sul monte Aventino molte volte fu autore di sanguinose stragi.
28 Non va co' suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch'elli ebbe a vicino;
  28 Non percorre la medesima strada dei suoi simili (posti a guardia del primo girone dei violenti) a causa del furto che compì con l’inganno della grande mandria che ebbe a portata di mano;
31 onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d'Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».
  31 per questo le sue azioni scellerate ebbero termine sotto la clava di Ercole, il quale probabilmente gli assestò cento colpi, mentre egli non riuscì a sentirne nemmeno dieci".
  Il centauro Caco, figlio di Vulcano, si servi della frode, oltre che della violenza, come specifica Virgilio in un passo dell’Eneide (VIII, verso 206), per derubare Ercole di alcune giovenche e di alcuni tori facenti parte dell’armento che era stato di Gerione. Infatti per far perdere le proprie tracce Caco trascinò il bestiame rubato per la coda, facendolo camminare all’indietro fino alla propria spelonca. Questo è il motívo per il quale non si trova insieme con gli altri centauri a guardia del girone in cui sono puniti, insieme con gli omicidi, coloro che rubarono usando la sola violenza. La figura semi-umana e semiferina descritta da Virgilio è deformata da Dante, con la aggiunta del groviglio di serpi e del drago che vomita fuoco, secondo un gusto tipicamente medievale. Essa risulta, rispetto all’originale virgiliano, più terribile e più grottesca ad un tempo. La presentazione ironica della sua morte ad opera di Ercole (l’ironia è in un avverbio - forse - e nella simmetrica contrapposizione dei due emistichi del verso 33, per cui a diè corrisponde sentì, a cento, diece) non si risolve in una semplice arguzia, al livello di un malizioso, ma in fondo innocente, gioco di parole. Per V. Rossi "c’è nella frase un pò d’arguzia irrisoria"; per il Torraca: "L’osservazione di Virgilio ha dell’arguto, e fa sorridere con la chiusa che non si aspetterebbe"; analogo è il punto di vista espresso nella loro monografia su questo canto dal Ferrero e dal Chimenz. Più nel giusto appare il Momigliano allorché vede in essa l’espressione di una "vitalità vigorosa", di una "rudezza vichiana".
34 Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de' quai né io né 'l duca mio s'accorse,
  34 Mentre diceva queste cose, ecco che Caco passò oltre e tre ombre vennero sotto il luogo in cui ci trovavamo, delle quali né io né Virgilio ci accorgemmo,
37 se non quando gridar: «Chi siete voi?»;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.
  37 se non quando gridarono: "Chi siete?": onde il nostro discorrere cessò, e da quel momento in poi facemmo attenzione soltanto a loro.
40 Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l'un nomar un altro convenette,
  40 Io non li riconoscevo; ma accadde, come suole accadere casualmente, che uno di loro dovesse fare il nome di un altro,
43 dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento,
mi puosi 'l dito su dal mento al naso.
  43 dicendo: "Dove sarà rimasto Cianfa?": per la qual cosa io, affinché Virgilio prestasse attenzione, gli feci segno di tacere.
  Del fiorentino Cianfa, appartenente alla famiglia dei Donati, capi dei Neri, consígliere del capitano dei popolo per il sesto di porta San Piero nel 1282, un antico commentatore scrive che "sempre si dilettò di furare bestie e di robare bottiglie e votare cassette"; ma, a parte questa caratterizzazione faceta che sa di leggenda, si conosce ben poco di questo personaggio.
46 Se tu se' or, lettore, a creder lento
ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che 'l vidi, a pena il mi consento.
  46 Se tu ora, lettore, sei restio a credere ciò che dirò, non sarà cosa strana, dal momento che io, che ne fui spettatore, consento a malapena a me stesso di crederlo.
49 Com' io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.
  49 Mentre tenevo gli occhi rivolti verso di loro, ecco che un serpente con sei piedi si scaglia contro uno di loro, e aderisce a lui interamente.
52 Co' piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l'una e l'altra guancia;
  52 Con i piedi centrali gli serrò il ventre, e con quelli anteriori gli afferrò le braccia; poi gli morsicò entrambe le guance;
55 li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra 'mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.
  55 stese i piedi posteriori lungo le cosce, e fra queste infilò la coda, e la tese nuovamente su per il suo dorso.
58 Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l'orribil fiera
per l'altrui membra avviticchiò le sue.
  58 Edera non fu mai a tal punto stretta ad un albero, come il mostro spaventoso avvinse le sue membra a quelle dei dannato.
  In merito a questa prima metamorfosi del canto, nella quale è stato veduto "il vertice poetico, la chiave di volta dell’episodio" (Ferrero-Chimenz), acutamente osserva il Momigliano: "Sembra una presa di possesso. Il serpe è lo strumento di Dio, della sua giustizia così illuminata ed esatta: senza di questo la sua adesione al corpo del ladro non sarebbe così geometrica, non ci sarebbe, pure in tanto impeto, tanta compostezza... Ogni mossa è diretta ad ottenere la più completa compenetrazione dei due corpi: e nulla potrebbe manifestar meglio del matematico combaciar dei due esseri, l’intenzione divina di cancellare nella mostruosa fusione ogni traccia dello spirito umano". La violenta presa di possesso dell’uomo da parte del serpente è "affermata e ribadita, con urgenza spietata, dai verbi che s’incalzano: si lancia, s’appiglia, avvinse, prese, addentò, avviticchiò. Così gagliarda è questa vitalità ferina, che qualcosa di essa, quasi una prepotenza animalesca, pare trasmessa all’immagine affettuosa e familiare dell’edera che il Poeta prende a paragone" (Ferrero-Chimenz).
61 Poi s'appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l'un né l'altro già parea quel ch'era:
  61 Dopo che si fusero insieme come fossero stati di cera calda, e mescolarono i loro colori, né l’uno né l’altro sembrava più quello di prima,
64 come procede innanzi da l'ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e 'l bianco more.
  64 come sulla superficie della carta si muove, precedendo la fiamma, un colore scuro che non è ancora nero e non è più bianco.
  Dopo la violenta aggressione, nettamente scandita in ciascuno dei suoi termini, per cui la distinzione tra agente e paziente si ripropone, nelle terzine 52 e 55, in ciascun verso "I’ispirazione, secondando il fatto, da plastica si fa pittorica" (Momigliano). Dopo la similitudine dell’ellera che suggella, definendolo visivamente, l’impeto del serpente, le distinzioni si attenuano, i due principii di individuazione si offuscano, i due corpi si fondono, le due forme si perdono in un che d’indefinito e mai visto. Questo secondo tempo della metamorfosi è espresso, sintatticamente, dal sostituirsi della terza persona plurale nei versi 61-62, alla terza persona singolare delle terzine 52 e 55. "Non c’è più né aggredito né aggressore; alla rapida, aspra, tagliente precisione di principio del quadro succede una lentezza e una pietà nascosta", per cui, ad esempio, la similitudine del papiro, così riposata e mesta in confronto a quella dell’ellera, termina con una parola - more - la quale, "più che al quadro, ci fa pensare al sentimento, all’agonia di quelle due forme vive invasate l’una nell’altra, all’angoscia inespressa dello spirito umano che muore confuso colla bestia".(Momigliano)
67 Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se' né due né uno».
  67

Gli altri due lo osservavano attentamente, e ciascuno gridava: "Ahimè, Agnolo, come, ti trasformi ! Vedi che ormai non sei né due figure né una sola".

  Su Agnolo Brunelleschi, appartenente a nobìle famiglia fiorentina passata dal partito ghibellino a quello dei Guelfi neri, non abbiamo notizie precise, a parte quelle, umoristiche e poco attendibili, contenute in una chiosa anonima: "infino picciolo votava la borsa al padre e alla madre, poi votava la cassetta alla bottega, e imbolava; poi da grande entrava per le case altrui, e vestiasi a modo di povero, e faciasi la barba di vecchio; e però il fa Dante così trasformare per li morsi di quello serpente come fece per furare".
70 Già eran li due capi un divenuti,
quando n'apparver due figure miste
in una faccia, ov' eran due perduti.
  70

Le due teste erano già divenute una sola, allorché ci apparvero due aspetti fusi in un unico volto, nel quale erano due esseri che avevano smarrito la propria fisionomia.

  Il tema della tristezza e della pietà, implicito al di là della perspicuità visiva dei termini nelle immagini della cera e del papiro, ed esplicitamente denunziato dal verbo, more con il quale si chiude il verso 66, riaffiora nell’espressione perduti alla fine del verso 72. Il suo significato immediato è: "confusi in modo da non essere più riconoscibili". Ma altri significati, appartenenti non più alla sfera delle cose visibili, fondano questa confusione che gli occhi registrano e della quale la mente prende atto con terrore: la "perdizione" di questi due esseri, prima che fisica, è stata metafisica e morale: solo in quanto morti e dannati (morti quindi due volte, alla vita fisica e a quella dello spirito) essi possono perdere la propria individualità confondendosi l’uno nell’altro.
73 Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso
divenner membra che non fuor mai viste.
  73 Dall’unione di quattro strisce (le braccia dell’uomo ed i piedi anteriori del serpente) ebbero origine le braccia; le cosce, le gambe, il ventre e il petto divennero membra mai vedute prima d’allora.
76 Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l'imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.
  76 Ogni sembianza precedente era li cancellata: la figura deforme aveva l’aspetto di due cose e di nessuna; e così se ne andò con lenta andatura.
79 Come 'l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,
  79 Come il ramarro sotto la grande sferza del sole nei giorni della Canicola (dal 21 luglio al 21 agosto), nel passare da una siepe all’altra, sembra un fulmine se attraversa la strada,
82 sì pareva, venendo verso l'epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;
  82 così appariva, nel dirigersi verso i ventri degli altri due, un piccolo serpente infuriato, scuro e nero come un granello di pepe;
85 e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l'un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.
  85 e trafisse ad uno di loro quel punto del corpo attraverso il quale, quando siamo nel grembo materno, riceviamo il cibo; poi cadde disteso per terra davanti a quello.
  La rapidità del serpentello (è il ladro Francesco Cavalcanti; cfr. nota ai versi 139-141 e 151), sottolineata dalla similitudine della terzina 79, contrasta fortemente col passo torpido del mostro generatosi davanti agli occhi del Poeta attraverso l’innaturale fusione di due esseri appartenenti a specie diverse. Per un attimo "la malia sembra cessata, fugata l’aria immobile e stregata" (Momigliano). Da notare il contrasto fra l’immobile luce solare (la gran fersa dei dì canicular) e l’immagine della folgore, cui è ricondotto il movimento del ramarro: la stasi sonnolenta della natura è percorsa come da un brivido, da un principio di attività, di vita non rassegnata all’inerzia, da un essere mobilissimo, animato da una volontà sicura.
88 Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse;
anzi, co' piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l'assalisse.
  88 Il trafitto lo guardò, ma non disse nulla; anzi, con i piedi immobili, sbadigliava proprio come se fosse preso da sonno o febbre.
 
91 Elli 'l serpente e quei lui riguardava;
l'un per la piaga e l'altro per la bocca
fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.
  91 Egli guardava il serpente, e questo (guardava) lui; l’uno attraverso la ferita, e l’altro attraverso la bocca emettevano un fumo denso, e i due fumi si mescolavano incontrandosi.
  Il fumo è il veicolo attraverso il quale si opera la seconda metamorfosi di questo canto. Il Momigliano rileva che esso "è un elemento comune nelle scene magiche: la sua forma indeterminata è come la figurazione concreta della loro anima misteriosa". Il "senso della fascinazione" (durante tutte le fasi della loro reciproca trasformazione il serpente e l’uomo non cessano di guardarsi negli occhi) è reso musicalmente, nella terzina 91, dalla "simmetria tre volte ripetuta della prima parte del verso colla seconda, che incanta lo spirito colla monotonia lievemente sonnolenta del ritmo".
94 Taccia Lucano ormai là dov' e' tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch'or si scocca.
  94 Più non si vanti Lucano per il passo in cui tratta dell’infelice Sabello e di Nassidio, e ascolti attentamente ciò che ora esce dalla mia fantasia.
97 Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo 'nvidio;
  97 Più non si vanti Ovidio a proposito di Cadmo e di Aretusa; poiché se nei suoi versi trasforma quello in serpente e quella in fonte, io non lo invidio;
100 ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch'amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.
  100 mai infatti egli trasformò due esseri posti l’uno di fronte all’altro in modo che le forme di entrambi fossero in grado di scambiarsi la loro materia.
  Nella Farsaglia di Lucano (IX, versi 761-804) è descritta la morte di due soldati romani nel deserto libico: Sabello, morso dal serpente "seps", divenne in brevissimo tempo cenere; Nassidio, morso dal serpente "prester", si dilatò fino al punto di scoppiare, trasformandosi così in una massa informe. Ovidio narra, nelle Metamorfosi, la trasformazione di Cadmo, il leggendario fondatore di Tebe. in serpente (IV, versi 563-603), e quella della Nereide Aretusa, la quale, inseguita dal fiume Alfeo, fu da Diana mutata in fonte (V, versi 572-641).
Dante sostiene, rispetto ai due modelli latini, l’originalità della propria invenzione poetica, basata sul reciproco trapasso delle forme da un essere all’altro. La terminologia filosofica (nature... forme... matera) dà rilievo al carattere miracoloso di questa metamorfosi. Essa avviene - come rileva il Mattalia - in deroga "da alcuni capitali postulati scientifico-dottrinali: che da una " forma " all’altra non c’è passaggio; che ogni mutamento o distruzione dei vincolo della " forma " con la sua materia comporta alterazione e morte dell’organismo; che una stessa materia non può esser soggetta contemporaneamente all’attività di due " forme "; e che la materia di un corpo, infine, infranto quel che gli scolastici chiamavano il principio d’individuazione, non può comportarsi come materia organizzata o, per l’intervento della forma, in via di organizzazione; e insieme come pura potenza o materia informe".
103 Insieme si rispuosero a tai norme,
che 'l serpente la coda in forca fesse,
e 'l feruto ristrinse insieme l'orme.
  103 (Le due nature) si corrisposero l’una all’altra secondo questa regola, il serpente divise la sua coda in forma di forca, e il trafitto unì insieme i suoi piedi.
106 Le gambe con le cosce seco stesse
s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.
  106 Le gambe, e nel medesimo tempo le cosce, si fusero insieme a tal punto, che in breve la linea d’unione non mostrava più alcun segno che fosse visibile.
109 Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.
  109 La coda divisa prendeva la forma che si perdeva nell’uomo, e la sua pelle diveniva morbida (come quella dell’uomo), mentre quell’altra s’induriva (come quella del serpente).
112 Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,
e i due piè de la fiera, ch'eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
  112 Vidi le braccia ritirarsi attraverso le ascelle, e i due piedi della bestia, che erano corti, allungarsi tanto quanto quelle si accorciavano.
115 Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l'uom cela,
e 'l misero del suo n'avea due porti.
  115 Poi i piedi posteriori, attorcigliati l’uno all’altro, si trasformarono nel membro che l’uomo nasconde, e l’infelice dal suo membro aveva fatto uscire due piedi.
118 Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela
di color novo, e genera 'l pel suso
per l'una parte e da l'altra il dipela,
  118 Mentre il fumo ricopriva di nuovo colore sia l’uno che l’altro, e faceva spuntare il pelo sul serpente privandone l’uomo,
121 l'un si levò e l'altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.
  121 uno si alzò (quello che era serpente) e l’altro (quello che era uomo) piombò a terra, senza che per questo l’uno distogliesse dall’altro gli occhi malvagi, sotto i quali ognuno mutava volto.
124 Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,
e di troppa matera ch'in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;
  124 Quello che era in piedi, ritirò il suo muso verso le tempie, e per l’eccessiva materia che in quella parte della testa si raccolse, vennero fuori dalle gote, che in precedenza ne erano prive, le orecchie:
  L’ultima delle metamorfosi dei ladri, seguita dal Poeta in tutte le sue fasi e minuziosamente descritta, è quella che dà anche l’impressione di maggior freddezza. Avverte tuttavia il Momigliano: "Che questa descrizione sia molto precisa, non è che un’impressione superficiale; quella più profonda, quella che toglie ogni apparenza di vano virtuosismo, è il vagare affascinato dell’occhio fra l’una e l’altra figura". Le mutazioni infatti "procedono, a due a due, sicché noi rivediamo continuamente nella seconda quel che nella prima s’era dileguato dinanzi al nostro occhio".
127 ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne.
  127 ciò che di quell’eccesso di materia non si ritirò e rimase dov’era, formò il naso per il volto, e ingrossò le labbra quanto fu necessario.
130 Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;
  130 Quello che stava disteso a terra, aguzzò il proprio volto, e ritirò le orecchie dentro la testa, come la lumaca fa con le sue corna;
133 e la lingua, ch'avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.
  133 e la lingua, che in precedenza aveva avuto tutta d’un pezzo e pronta a parlare, si divise, mentre quella biforcuta nell’altro divenne unita; e il fumo cessò.
136 L'anima ch'era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l'altro dietro a lui parlando sputa.
  136 Lo spirito che si era trasformato in serpente, fuggì sibilando per la bolgia, e l’altro parlando sputò dietro di lui.
139 Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra,
com' ho fatt' io, carpon per questo calle».
  139 Quindi gli voltò le spalle formale da poco, e disse all’altro (al ladro che non ha subìto metamorfosi): "Voglio che Buoso corra carponi per questo sentiero, come ho fatto io".
  Il ladro che, ríacquistate le fattezze umane, parla e sputa è Francesco Cavalcanti, quello divenuto serpente è Buoso Donati, o, secondo altri commentatori, Buoso degli Abati, membri entrambi di famiglie nobili di Firenze. L’atto dello sputare è messo dal Torraca in relazione con la "credenza dell’antichità e del Medioevo che la saliva dell’uomo avesse virtù contro i serpenti".
142 Così vid' io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.
  142 Vidi in tal modo i dannati della settima bolgia trasformarsI e scambiarsi le fattezze; e a questo proposito la straordinarietà dell’argomento valga a scusarmi, se il mio scrivere manca un poco di chiarezza.
145 E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l'animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
  145 E sebbene i miei occhi fossero alquanto disorientati, e l’animo sgomento, quei due non poterono allontanarsi tanto di nascosto,
148 ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;
  148 che io non riuscissi a distinguere chiaramente Puccio Sciancato; ed era il solo, dei tre dannati che prima erano sopraggiuntí insieme, che non aveva subìto trasformazioni:
151 l'altr' era quel che tu, Gaville, piagni.   151 l’altro era quello a causa del quale, tu, Gaville, ti lamenti.
  Del fiorentino Puccio Sciancato, appartenente alla famiglia ghibellina dei Galigai, una chiosa trecentesca dice che fu autore di "belli furti e leggiadri" e aggiunge che "fue cortese furo [ladro] a tempo, e però non era trasmutato, overo perché li suoi furti erano di die e non di notte".
Colui a causa dei quale Gaville, un borgo del Valdarno, si lamenta, è Francesco Cavalcanti, ucciso, secondo quanto narra l’Anonimo Fiorentino, in questa località; "per la qual morte i consorti di messer Francesco molti di quelli da Gaville uccisono e disfeciono; e però dice l’autore che per lui quella villa ancor ne piagne e per le accuse e testimonianze e condennagioni e uccisioni di loro, che per quella cagione ne seguìtarono".

 

© 2009 - Luigi De Bellis