1 |
'Per me si
va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente. |
|
1 |
«Attraverso me si entra
nella città dolorosa, nel dolore che mai avrà termine,
tra le anime dannate. |
|
Ossessiva
e agghiacciante si ripete nella prima terzina "la stessa
idea, come presente immobile, eterno, ripetizione di se
stesso: dolore e sempre dolore, quel luogo e sempre quel
luogo" (De Sanctis). |
4 |
Giustizia
mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e 'l primo amore. |
|
4 |
Dio, mio
eccelso creatore, fu mosso dalla giustizia: sono opera
del Padre (la divina potestate), del Figlio (la somma
sapienza) e dello Spirito Santo ('I primo amore). |
7 |
Dinanzi a me
non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'. |
|
7 |
Prima di
me non fu creata nessuna cosa se non eterna, e io durerò
fino alla fine dei tempi. Abbandonate, entrando, ogni
speranza». |
|
Se non
etterne:
le cose create per essere eterne, prima dell'inferno,
sono i cieli, gli angeli, la materia ancora informe. |
10 |
Queste
parole di colore oscuro
vid' ïo scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro». |
|
10 |
Vidi
questa sentenza dal minaccioso significato. incisa in
cima a una porta; per cui mi rivolsi a Virgilio: «
Maestro, ciò che essa dice per me è terribile». |
13 |
Ed elli a
me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta. |
|
13 |
Ed egli, da persona
perspicace qual era: «A questo punto occorre abbandonare
ogni esitazione; ogni forma di pusillanimità deve ora
sparire. |
16 |
Noi siam
venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto». |
|
16 |
Siamo
giunti dove ti dissi che avresti veduto le anime
doloranti che hanno perduto la speranza di vedere Dio». |
|
Il ben
dell'intelletto:
secondo Aristotile, il vero e, quindi, la verità
suprema, Dio. |
19 |
E poi che la
sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose. |
|
19 |
Subito il maestro con
affetto mi prese la mano rassicurandomi, e mi informò su
quello che stava succedendo |
22 |
Quivi
sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai. |
|
22 |
Ivi echeggiavano nell'aria
senza luce gemiti, pianti e acuti lamenti, tanto che
(udendoli) per la prima volta ne piansi. |
25 |
Diverse
lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle |
|
25 |
Differenti lingue,
orribili pronunce, espressioni di dolore, esclamazioni
di rabbia, grida acute e soffocate, miste al percuotersi
delle mani l'una contro l'altra |
|
Il Mazzoni
ha ravvisato una suggestiva rispondenza tra il contenuto
di questa similitudine e la sua struttura sintattica:
"La rena si avvolge a spirale crescendo rapida
dall'inerzia al moto culminante, per quindi ricadere dal
moto culminante all'inerzia: non altrimenti troviamo
nella descrizione del Poeta un salire dal meno al più, e
un ridiscendere dal più al meno". |
28 |
facevano un
tumulto, il qual s'aggira
sempre in quell' aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira. |
|
28 |
creavano
nell'aria buia, priva di tempo, una confusione
eternamente vorticante, così come (rapida vortica) la
sabbia quando soffia un vento turbinoso. |
31 |
E io ch'avea
d'error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?
e che gent' è che par nel duol sì vinta?». |
|
31 |
E io che
avevo la testa attanagliata dall'orrore, esclamai:
"Maestro, che significano queste grida? che gente è
questa, che appare così sopraffatta dal dolore ?" |
|
Gli ignavi
non possono, a rigore, essere inclusi fra i dannati, non
avendo essi trasgredito in modo esplicito la legge
morale. Questo è il motivo per cui Dante li colloca al
di qua del fiume Acheronte, in quel vestibolo
dell'inferno che l'autore dell'Eneide aveva assegnato
agli insepolti.
Ma la concezione eroica ed intransigente che il Poeta ha
del nostro compito in terra, conferisce alla sua parola
vigore eccezionale nell'atto in cui li addita alla
nostra riprovazione. Così ha osservato il Croce: ."la
vera loro punizione sono i versi che li fustigano in
eterno: questi sciaurati, che mai non fur vivi...; che
visser senza infamia e senza lodo...; a Dio spiacenti ed
a nimici sui...: che fece per viltate il gran
rifiuto...; non ragioniam di lor, ma guarda e passa".
Il disprezzo di Dante per coloro che per viltà si
astennero dall'agire, disprezzo che il Poeta manifesta
con estrema violenza, "è correlativo alla simpatia, in
lui così viva sempre, per i magnanimi, per coloro cioè
che, in bene o in male, seppero imprimere una potente
impronta nella storia del loro tempo" (Sapegno). |
34 |
Ed elli a
me: «Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo. |
|
34 |
E
Virgilio: "Questa infelice condizione è propria delle
anime spregevolì di quelli che vissero senza meritare né
biasimo né lode. |
37 |
Mischiate
sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. |
|
37 |
Sono
mescolate alla malvagia schiera degli angeli che (in
occasione della rivolta di Lucifero) non si ribellarono
né rimasero fedeli a Dio, ma fecero parte a sé. |
40 |
Caccianli i
ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli». |
|
40 |
Perché il
loro splendore non ne sia offuscato, i cieli li tengono
lontani da sé, né in sé li accoglie la voragine
infernale, perché i colpevoli (gli angeli che
parteggiarono per Lucifero) avrebbero di che vantarsi
rispetto ad essi " . |
43 |
E io:
«Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve. |
|
43 |
Ed io:
"Maestro, cosa riesce loro così insopportabile, da farli
prorompere in così disperati lamenti?" Rispose: "Te lo
dirò in pochissime parole. |
46 |
Questi non
hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte. |
|
46 |
Costoro
non possono sperare in un completo annullamento del loro
essere (cioè nella morte dell'anima) e (d'altra parte)
la loro vita senza scopo è tanto miserabile, da renderli
invidiosi di qualsiasi altro destino. |
49 |
Fama di loro
il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa». |
|
49 |
Il mondo
non lascia sussistere alcun ricordo di loro; Dio non li
degna né della sua pietà né di una sentenza di condanna
non parliamo di loro, ma osserva e va oltre". |
52 |
E io, che
riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna; |
|
52 |
E io,
guardando con maggiore attenzione, scorsi un vessillo
che girava correndo così velocemente, da sembrare
incapace di una qualsiasi forma di quiete; |
|
Le pene
dell'inferno e del purgatorio riflettono, nella Divina
Commedia, la razionalità della giustizia divina. Tra
esse e il peccato che colpiscono c'è sempre una stretta
relazione, il cosiddetto contrappasso: questa punizione
in alcuni casi si manifesta per analogia, in altri,
invece, per contrapposizione, come qui, per gli ignavi.
"... indegno di riposo è chi non milita, chi non
arrischia, chi non combatte. Dopo la vittoria ci si
riposa, e dopo la sconfitta; o anche dopo il cammino: e
costoro non vollero vincere, temerono di perdere, non si
mossero mai. Vadano dunque eternamente, camminando
rapidi, senza saper neppure quale insegna sia quella che
li precede; e poi che per nulla mai si scaldarono,
prorompano ora in accenti d'ira; poi che per nulla mai
gemerono, versino ora lamenti e lagrime; poi che per
nulla mai rischiarono una goccia di sangue, stillino
sangue. Lagrime e sangue, che furono da loro negati al
servigio delle cause umane, e di quella di Dio, scendano
a impinguare i vermi che brulicano ai loro piedi con
tormentoso fastidio" (Mazzoni).
L'infinita moltitudine degli ignavi riecheggia, qui, un
passo della Sacra Scrittura: "Degli stolti il numero è
infinito" (Ecclesiaste 1, 15). Scrive il Momigliano: "il
mondo, dunque, secondo Dante è fatto soprattutto di
ignavi, di una folla amorfa e grigia, su cui emergono
quelli che vivono con infamia o con lode". |
55 |
e dietro le
venìa sì lunga tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta. |
|
55 |
e dietro
ad esso avanzava una tale moltitudine, quale mai avrei
immaginato fosse stata annientata dalla morte. |
|
Le pene
dell'inferno e del purgatorio riflettono, nella Divina
Commedia, la razionalità della giustizia divina. Tra
esse e il peccato che colpiscono c'è sempre una stretta
relazione, il cosiddetto contrappasso: questa punizione
in alcuni casi si manifesta per analogia, in altri,
invece, per contrapposizione, come qui, per gli ignavi.
"... indegno di riposo è chi non milita, chi non
arrischia, chi non combatte. Dopo la vittoria ci si
riposa, e dopo la sconfitta; o anche dopo il cammino: e
costoro non vollero vincere, temerono di perdere, non si
mossero mai. Vadano dunque eternamente, camminando
rapidi, senza saper neppure quale insegna sia quella che
li precede; e poi che per nulla mai si scaldarono,
prorompano ora in accenti d'ira; poi che per nulla mai
gemerono, versino ora lamenti e lagrime; poi che per
nulla mai rischiarono una goccia di sangue, stillino
sangue. Lagrime e sangue, che furono da loro negati al
servigio delle cause umane, e di quella di Dio, scendano
a impinguare i vermi che brulicano ai loro piedi con
tormentoso fastidio" (Mazzoni).
L'infinita moltitudine degli ignavi riecheggia, qui, un
passo della Sacra Scrittura: "Degli stolti il numero è
infinito" (Ecclesiaste 1, 15). Scrive il Momigliano: "il
mondo, dunque, secondo Dante è fatto soprattutto di
ignavi, di una folla amorfa e grigia, su cui emergono
quelli che vivono con infamia o con lode". |
58 |
Poscia ch'io
v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto. |
|
58 |
Dopo aver
ravvisato qualcuno nella folla, vidi e riconobbi l'anima
di colui che per pusillanimità rifiutò il trono papale
(fece per viltà il gran rifiuto). |
|
L'eremita
Pier da Morrone, eletto papa nel 1294 col nome di
Celestino V, dopo cinque mesi rinunciò al pontificato.
Gli succedette, sulla cattedra di Pietro, Bonifacio VIII,
il quale, nel conflitto divampato a Firenze fra le due
fazioni dei Guelfi, i Bianchi e i Neri, favorì questi
ultimi. In seguito al prevalere dei Neri, Dante, che era
andato a Roma in missione ufficiale presso il papa, non
poté più tornare nella sua città (1302). |
61 |
Incontanente
intesi e certo fui
che questa era la setta d'i cattivi,
a Dio spiacenti e a' nemici sui. |
|
61 |
Compresi
allora d'un tratto e fui sicuro che questa era la turba
dei vili, sgraditi a Dio non meno che ai suoi nemici (i
diavoli). |
64 |
Questi
sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi. |
|
64 |
Questi
miserabili, che vissero come se non fossero vivi (in
quanto non seppero affermare la loro personalità), erano
nudi, continuamente punti da mosconi e da vespe che si
trovavano lì. |
67 |
Elle rigavan
lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto. |
|
67 |
Esse
rigavano il loro volto di sangue, che, misto a lagrime,
era succhiato ai loro piedi da vermi nauseabondi. |
70 |
E poi ch'a
riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d'un gran fiume;
per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi |
|
70 |
E dopo
aver spinto il mio sguardo più in là, vidi sulla riva di
un gran fiume una folla; perciò interpellai Virgilio:
"Maestro, consentimi |
73 |
ch'i' sappia
quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com' i' discerno per lo fioco lume». |
|
73 |
di
apprendere chi sono queste genti, e quale consuetudine
le fa apparire così ansiose di passare sull'altra riva,
come intravedo attraverso la debole luce". |
|
Osserva il
Momigliano, a proposito della scena che qui inizia: "Il
tema direttivo della seconda parte del canto è questa
lividità sconfinata e minacciosa, dentro cui s'inquadra
così bene l'immagine autunnale delle anime che si
staccano dalla riva come foglie morte dall'albero. Tutta
la vita della scena spira dalla livida palude, da questa
tinta, da questo tragico barlume dell'orizzonte, che
Dante accenna solo e che pure si stende dovunque come il
colore che evapora naturalmente da quell'affollarsi di
dannati che hanno lasciato ogni speranza. Perfino il
terremoto che chiude il canto, è in armonia con quella
tinta di corruccio che ne domina lo sfondo". |
76 |
Ed elli a
me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d'Acheronte». |
|
76 |
Virgilio
mi rispose: «Le cose ti saranno note (conte: conosciute)
quando fermeremo i nostri passi presso il doloroso fiume
Acheronte». |
79 |
Allor con li
occhi vergognosi e bassi,
temendo no 'l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi. |
|
79 |
Allora,
con gli occhi abbassati per la vergogna, temendo che il
mio discorso gli riuscisse fastidioso, cessai di parlare
finché arrivammo al fiume. |
|
Questo,
come altri atteggiamenti di umiltà di Dante nei
confronti del maestro, rischia di apparire eccessivo
rispetto al motivo che lo ha determinato, se lo si
limita al suo significato più ovvio.
In realtà, Virgilio, nelle prime due cantiche, non è un
personaggio al pari degli altri, come d'altronde non è
nemmeno solo un'allegoria, un semplice simbolo. Per
capire il rapporto che si stabilisce nel corso del poema
tra Dante e Virgilio, occorre tener presente che in
quest'ultimo si incarnano, per Dante, le più eccelse
qualità della poesia, quasi un traguardo di perfezione
nella cui contemplazione egli si perde. Non si tratta di
un sovrassenso meccanicamente imposto alla lettera (come
potrebbe essere la ragione, o la filosofia, o - sul
piano politico - l'idea imperiale, cui di volta in volta
la figura di Virgilio è stata ricondotta, con scrupolo
forse eccessivo, dagli interpreti), ma di un senso più
vasto del significato letterale, che da quest'ultimo
continuamente trabocca. La trascendenza come poesia:
ecco quello che il personaggio di Virgilio incarna agli
occhi di Dante. Il poeta latino - avverte il Montanari
"è la persona viva che ha rivelato a Dante il più alto
valore della poesia: di una poesia che sia capace di
assorbire nella propria forma non solo la ragione umana
che si esercita sulle cose visibili, ma l'aspirazione
dell'uomo a varcare le soglie di quel cammino invisibile
senza del quale l'uomo non può raggiungere il suo ultimo
destino". Solo un sentimento religioso può dettare
parole come quelle che la reverenza per il maestro ha
ispirato a Dante. |
82 |
Ed ecco
verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave! |
|
82 |
E (dopo
essere qui giunti) ecco dirigersi alla nostra volta, su
un'imbarcazione, un vecchio, canuto (bianco per antico
pelo), che gridava: « Sventura a voi, anime malvage! |
85 |
Non isperate
mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo. |
|
85 |
Non
illudetevi di poter più vedere il cielo: vengo per
traghettarvi sull'altra riva nel buio eterno, nel fuoco
e nel ghiaccio. |
88 |
E tu che se'
costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch'io non mi partiva, |
|
88 |
E tu che,
ancora in vita, ti trovi con loro, allontanati dalla
turba dei già morti». Ma dopo aver visto che non me
n'andavo, |
91 |
disse: «Per
altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti». |
|
91 |
continuò:
«Attraverso vie e luoghi di imbarco diversi giungerai
alla riva, che non è questa, da dove sarai traghettato
(per passare): una barca più leggiera ti dovrà
trasportare». |
|
Caronte è
il primo dei custodi infernali che i due poeti
incontrano nel loro viaggio. La sua figura è desunta,
come altre della prima cantica, dal libro VI
dell'Eneide, in cui è narrata la discesa di Enea
nell'oltretomba. Ma su qualunque argomento Dante si
soffermi, sia esso tratto dall'osservazione diretta
della realtà o invece rivissuto sulle pagine degli
autori a lui cari, gli imprime i tratti della sua
poesia: essenzialità, concisione, vigore drammatico ed
espressivo. A proposito dei mostri passati dalla
mitologia classica nell'inferno dantesco, il Momigliano
osserva: "hanno tutti un'imponenza che, fusa con
l'aspetto minaccioso e mostruoso, tradisce in questi
guardiani sotterranei la espressione d'una potenza
superiore intesa a flagellare il regno del peccato.
Tutti hanno una gagliarda, quasi tutti una monumentale,
violenza di atteggiamenti e di movimenti, e condensano
in sé la disperata vitalità che è il carattere dominante
dell'Inferno".
Caronte sa che Dante è destinato a salvarsi: l'anima del
Poeta, dopo la morte del suo corpo, sarà tra quelle che
si raccoglieranno alla foce del Tevere, per essere
trasportate in purgatorio da un vasello snelletto e
leggiero (Purgatorio II, 41) , ossia dal più lieve legno
cui accenna Caronte. |
94 |
E 'l duca
lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare». |
|
94 |
E Virgilio
gli disse: «Non te n'avere a male, o Caronte: si vuole
così là dove si può fare tutto ciò che si vuole (è la
decisione divina presa nel cielo Empireo, dove tutto ciò
che è voluto può avere immediata attuazione), e non
chiedere altro». |
|
Vuolsi
così colà dove si puote:
Dante non nomina mai Dio parlando con i custodi
infernali, ma la perifrasi è esplicita nell'indicare
Colui che ha decretato il suo viaggio nell'al di là.
Un motivo più intimamente poetico può tuttavia rendere
ragione di questa formula, che verrà ripetuta tale quale
o con lievi modifiche in occasione di altri incontri con
i guardiani infernali. "Se infatti Virgilio avesse
risposto semplicemente che questo era voluto da Dio,
Caronte non sarebbe stato colpito come da quel tortuoso
intrico di parole, che lo circuiscono tremende e
misteriose, incidendo, ossessionanti, la volontà e la
potenza del Cielo..." (Grabher)
Il Sapegno scorge invece in questo procedimento "un
certo schematismo e una certa meccanicità d'invenzione",
destinati a sparire col progressivo maturare, in senso
drammatico e mosso, dell'arte del Poeta. |
97 |
Quinci fuor
quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote. |
|
97 |
Da questo istante si
calmarono le gote ricoperte di fluente barba del
traghettatore del buio fiume (livida palude: livido è,
per antonomasia, il colore della morte), che aveva
intorno agli occhi cerchi di fuoco. |
|
Quinci
fuor quete le lanose gote:
Caronte ha cessato di parlare. Dante non si sofferma.
tanto sull'aspetto auditivo di questo silenzio, quanto
su quello visivo. "Infatti le parole di Caronte, nella
loro violenza, specialmente iniziale (guai a voi ecc.)
hanno scomposto la plastica di quel volto, facendo
sobbalzare l'antica e copiosa canizie. Appena Caronte
tace; ciò che più colpisce Dante, fisso con stupore e
terrore nel volto del vecchio, è il ricomporsi del volto
stesso, nella sua compostezza plastica. Ecco perché il
Poeta dice: fuor quete le lanose gote; e lanose,
richiamando il vello degli animali, aggiunge qualcosa di
bestiale a quella che, nel Caronte virgiliano, è solo
una « abbondante, incolta canizie»." (Grabher) |
100 |
Ma quell'
anime, ch'eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che 'nteser le parole crude. |
|
100 |
Ma quelle anime, che erano
affrante e inermi, trascolorarono e batterono i denti,
non appena ebbero udite le crudeli parole: |
103 |
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti. |
|
103 |
maledicevano Dio e i loro genitori, il genere umano e il
luogo e il tempo (in cui erano state generate) e
l'origine della loro stirpe e della loro nascita. |
|
La
bestemmia è, tra le manifestazioni dei dannati, forse la
più tipica. Privati della possibilità del pentimento,
all'ingresso dell'inferno, essi sfogano, in questa
incalzante e grandiosa maledizione, che ha per oggetto
il creato nei suoi principii di vita e di generazione
(Dio e lor parenti... e 'l seme), la loro rabbia cieca e
impotente.
Ma la bestemmia solo apparentemente può sembrare in loro
una manifestazione di rivolta; in realtà essi, come
automi, riflettono una volontà che li trascende,
glorificano, sia pure negativamente, Colui che le loro
imprecazioni invano bersagliano.
"Il dannato stesso è parola di Dio, esercita un
ministerium, è inviato al vivente per ammonizione
salvifica." (Montanari)
Qui, sulla riva dell'Acheronte, i reprobi sono
impazienti di varcare la livida palude. La paura che
incutono in essi i prossimi tormenti infernali è vinta
dal desiderio di eseguire i comandi di Chi giustamente
li ha dannati, e perciò ogni bestemmia, pronunciata da
loro, assume tragici riflessi. |
106 |
Poi si
ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch'attende ciascun uom che Dio non teme. |
|
106 |
Poi si
adunarono tutte insieme, piangendo dirottamente, sulla
riva del fiume del male che aspetta tutti coloro che non
temono Dio. |
109 |
Caron
dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s'adagia.
|
|
109 |
Il demonio
Caronte, con occhi fiammeggianti, facendo loro segni, le
accoglie tutte (nella barca); percuote col remo chiunque
tarda (ad obbedirgli). |
|
Caron
dimonio con occhi di bragia:
il virgiliano "stant lumina flamma " (Eneide VI, 300) -
precedentemente riprodotto da Dante (che 'ntorno allí
occhi avea di fiamme rote) "con una di quelle immagini
stilizzate, quasi di pittura pregiottesca, che erano
dello stile lirico" (Sapegno) - viene qui interpretato
nel senso di una più intensa espressività e di un
maggiore realismo: con occhi di bragia. Domina su tutta
la scena il muto cenno del nocchiero, che basta da solo
a far salire le anime nella barca. |
112 |
Come
d'autunno si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie, |
|
112 |
Come in
autunno le foglie si staccano l'una dopo l'altra (dal
ramo), finché questo vede sparsa a terra tutta la sua
veste frondosa, |
115 |
similemente
il mal seme d'Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo. |
|
115 |
allo
stesso modo la corrotta progenie di Adamo si precipita
da quella riva, anima dopo anima, a un cenno (di Caronte),
come il falco (auge!) al richiamo (del falconiere). |
|
La
similitudine delle foglie che si staccano dall'albero è
già in Virgilio (Eneide VI, 305-312), a significare la
sterminata turba dei defunti. Dante la ricrea
conferendole movimento drammatico e un che di
ineluttabile (come auge! per suo ríchiarno) che
sottolinea la perdita, nei trapassati, di qualsiasi
forma di libero arbitrio. La similitudine in Dante, pur
nella sua immediatezza e nel suo realismo, si carica
sempre di accenti morali. |
118 |
Così sen
vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s'auna. |
|
118 |
Avanzano
così sull'acqua buia, e prima che questa moltitudine sia
sbarcata sulla riva opposta, un'altra già s'accalca nel
punto d'imbarco. |
121 |
«Figliuol mio», disse 'l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l'ira di Dio
tutti convegnon qui d'ogne paese; |
|
121 |
«Figlio
mio», spiegò cortesemente Virgilio, «tutti coloro che
muoiono in stato di peccato (nell'ira di Dio) si
radunano qui (venendo) da ogni luogo della terra: |
124 |
e pronti
sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio. |
|
124 |
e sono
(spiritualmente) disposti a varcare il fiume, poiché la
giustizia di Dio li stimola, in modo che il timore
(delle pene) si converte in loro nel desiderio (di
affrontarle). |
127 |
Quinci non
passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona». |
|
127 |
Di qui non
passano mai anime virtuose: e perciò, se Caronte si
lamenta della tua presenza, puoi ben comprendere ormai
quale significato hanno le sue parole.» |
130 |
Finito
questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna. |
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130 |
Appena
Virgilio ebbe finito di parlare, la terra buia tremò con
tanta violenza, che il ricordo (la mente: la memoria)
dello spavento provato m'inonda ancora di sudore. |
133 |
La terra
lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento; |
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133 |
Dalla
terra bagnata dalle lagrime dei dannati uscì un vento,
che si convertì in un lampo sanguigno il quale mi fece
perdere i sensi; |
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Nel
Medioevo si credeva che i terremoti fossero provocati da
masse aeriformi compresse nelle viscere della terra.
L'origine dei lampi era attribuita al subitaneo erompere
di vapori. |
136 |
e caddi come
l'uom cui sonno piglia. |
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136 |
e caddi
come chi cede al sonno. |
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