1 |
Una medesma
lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l'una e l'altra guancia,
e poi la medicina mi riporse; |
|
1 |
Una stessa lingua (quella di Virgilio) dapprima mi
rimproverò, in modo da farmi arrossire, e poi mi ridiede
conforto: |
4 |
così od' io
che solea far la lancia
d'Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia. |
|
4 |
così sento dire che la
lancia di Achille e di Peleo soleva essere causa in un
primo tempo di una offerta dolorosa e in un secondo
tempo di una offerta buona. |
|
Secondo Ovidio (Remedia amoris 44-48) la lancia che
Achille ebbe dal padre Peleo aveva la proprietà di
rimarginare le ferite da essa stessa prodotte. Nella
lirica medievale questa immagine ricorre di frequente
per indicare lo stato d’animo, duplice e contrastante,
dell’amante alla vista della donna amata. Per il
Malagoli fra i termini su cui è basata la elaborata ma
vigorosa struttura metaforica della prima terzina
(lingua... morse... tinse) non è possibile stabilire un
rapporto logico: "c’è in Dante solo il gusto
dell’espressione sensibile in se stessa". Questo
giudizio è sostanzialmente giusto: fortissima è in Dante
l’esigenza di tradurre nel concreto anche le esperienze
psicologiche o intellettuali più astratte. Occorre
tuttavia ricordare che tra metafora e metafora corrono
in Dante rapporti analogici strettissimi, per cui un
gruppo di immagini raramente presenta un carattere di
casualità. |
7 |
Noi demmo il
dosso al misero vallone
su per la ripa che 'l cinge dintorno,
attraversando sanza alcun sermone. |
|
7 |
Noi voltammo le spalle
alla decima bolgia lungo l’argine che la circonda,
attraversandolo senza parlare. |
10 |
Quiv' era
men che notte e men che giorno,
sì che 'l viso m'andava innanzi poco;
ma io senti' sonare un alto corno, |
|
10 |
Qui era meno buio ché di
notte e meno chiaro che di giorno, così che la mia vista
si spingeva avanti di poco; ma udii un corno dal suono
così fragoroso, |
13 |
tanto
ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco. |
|
13 |
che avrebbe fatto sembrare debole qualunque tuono, il
quale suono, continuando a percorrere il suo cammino,
fece rivolgere attentamente la mia vista verso un unico
punto in direzione opposta a quella da cui proveniva. |
16 |
Dopo la
dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando. |
|
16 |
Dopo la grave disfatta,
quando Carlo Magno perdette i paladini della fede, non
suonò in modo così terribile Orlando. |
|
In un’ambigua atmosfera di crepuscolo, che nega alle
cose la nettezza dei loro contorni, pur senza abolirli
del tutto (e l’incertezza di questo crepuscolo,
simbolicamente, prelude allo spegnersi totale della vita
che caratterizzerà la condizione, morale e fisica, dei
traditori imprigionati nel ghiaccio di Cocito), il cupo
suono di un corno diffonde, come una minaccia, un dolore
lancinante e incontenibile. Il Poeta ripensa all’agonia
di Orlando nella gola di Roncisvalle nei Pirenei (la
disfatta ad opera degli Arabi della retroguardia
dell’esercito franco comandata da Orlando ebbe luogo nel
778 d. C.): quando il paladino, già ferito, si risolse a
suonare il corno per chiedere aiuto, la maggior parte
dei suoi compagni era morta. Ecco come la sua morte è
descritta nella Chanson de Roland (versi l753-1767):
"Rolando ha messo l’olifante alle labbra, l’imbocca bene
e lo suona con grande forza. Alti sono i poggi e lunga è
la sua voce; trenta gran leghe l’odono rispondere. Carlo
l’ode e tutto il suo esercito... Il conte Rolando con
pena ed affanno a gran dolore suona il suo olifante.
Dalla bocca sgorga il chiaro sangue. Le sue tempie si
rompono per lo sforzo. Altissimo è il rimbombo del
corno: l’ode Carlo... il duca Namo lo ascolta,
l’ascoltano i Franchi".
La morte di Orlando é - nota V. Rossi - uno degli
episodi "che più profondamente colpirono fa fantasia e
il cuore degli uomini dei Medioevo". Nella terzina 16 "è
l’eco gagliarda di questa commozione: nel primo verso,
arduo di ritmo, sanguina il dolore cristiano (la bella
osservazione è del Torraca) per quella sconfitta; nel
terzo, dominato, da una lunga e sonora e suggestiva
parola e chiuso dal più gran nome della leggenda epica,
corre un fremito tra di sgomento e di ammirazione". |
19 |
Poco portäi
in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond' io: «Maestro, dì, che terra è questa?». |
|
19 |
Avevo per
poco tempo tenuto la testa volta in quella direzione,
allorché mi sembrò di scorgere numerose alte torri; per
cui dissi: "Maestro, dimmi, che città è questa?" |
22 |
Ed elli a
me: «Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri. |
|
22 |
E Virgilio a me: "Poiché tu ti spingi con lo sguardo
attraverso il buio troppo da lontano, accade poi che tu
confonda nel raffigurarti ciò che vedi. |
25 |
Tu vedrai
ben, se tu là ti congiungi,
quanto 'l senso s'inganna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi». |
|
25 |
Tu vedrai bene, se arriverai in quel luogo, quanto il
senso (della vista) possa errare da lontano; perciò
sprona maggiormente te stesso". |
28 |
Poi
caramente mi prese per mano
e disse: «Pria che noi siam più avanti,
acciò che 'l fatto men ti paia strano, |
|
28 |
Poi mi prese
affettuosamente per mano, e disse: "Prima che noi
giungiamo più innanzi, affinché la cosa ti appaia meno
sorprendente, |
31 |
sappi che
non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l'umbilico in giuso tutti quanti». |
|
31 |
devi sapere che non sono
torri, bensì giganti, e che stanno tutti nel pozzo lungo
la sua parete circolare dall’ombelico in giù". |
|
Il verso 33 si contrappone idealmente a quello che, nel
canto X. definiva lo energico ergersi di Farinata (dalla
cintola in su tutto ‘l vedrai). La grandezza dell’eroe
ghibellino era anzitutto forza morale (com’avesse
l’inferno in gran dispitto), carattere indomabile che si
esprimeva, plasticamente, nel suo atteggiamento
statuario. Quella dei giganti, è bruta materialità,
porta in sé i segni della sconfitta e del disfacimento.
Osserva il Chiari: "chiunque ricorda il canto X
dell’Inferno sa che per Farinata la condanna, che lo
imprigiona nell’arca rossa di fuoco, è superata dalla
grandezza spirituale e dalla nobiltà del magnanimo
difensore a viso aperto di Firenze, e sente che qui
invece si insiste sul lungo distendersi dei corpi
immensi al disopra della ripa e nella profondità del
pozzo, e che l’accenno alla loro mole non è accompagnato
da nessun tratto di libera vigoria, ma anzi è unito e
superato dall’accenno dell’immobilità che impone una
forza divina, trionfante di essi, i superbi, in eterno".
Posti a guardia dell’ultimo cerchio dell’inferno, i
giganti si distinguono dai custodi dei cerchi superiori
per la loro immobilità cieca ed ottusa. Il Poeta si
compiace di sottolineare, lungo tutto l’arco
dell’episodio che li ha per protagonisti, il contrasto
fra la maestà del loro apparire e la loro forza
umiliata, resa inerme dalla confusione che ha invaso le
loro menti. Simboli di una superbia dissennata, portata
al parossismo (vollero misurarsi con la divinità,
pretesero di debellare con la forza l’intelligenza),
occupano ora, il gradino più basso nella gerarchia
infernale. |
34 |
Come quando
la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa, |
|
34 |
Come quando la nebbia si
dissolve, l’occhio gradatamente distingue quello che
nasconde il vapore che rende densa l’aria, |
37 |
così forando
l'aura grossa e scura,
più e più appressando ver' la sponda,
fuggiemi errore e crescémi paura; |
|
37 |
così, penetrando con lo
sguardo nell’aria spessa e buia, a mano a mano che mi
avvicinavo all’orlo del pozzo, si dileguava il mio
errore e aumentava la mia paura; |
40 |
però che,
come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così la proda che 'l pozzo circonda |
|
40 |
poiché come il castello di
Montereggioni è cinto di torri nella cerchia delle mura
che lo circondano, così la sponda che gira intorno al
pozzo |
43 |
torreggiavan
di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona. |
|
43 |
soverchiavano come torri
con metà del loro corpo i mostruosi giganti, che Giove
sembra ancora minacciare col tuono dal cielo. |
|
Munita di quattordici torri, la fortezza di
Montereggioni era stata costruita dai Senesi nel 1213
nella Val d’Elsa, per difendersi dagli attacchi dei
Fiorentini. La vigorosa similitudine dei versi 40-41
suggerisce l’idea di una forza compatta ed impassibile
(ma appunto per questo confinata entro i limiti di una
inanimata materialità). La sfida dei figli della terra a
Giove (cfr. canto XIV, versi 52-59) si propone qui non
come un’azione cosciente e volta ad un fine, ma come
semplice esistenza dello smisurato, che, in quanto tale,
minaccia l’armonico coesistere delle cose e il regolare
svolgersi degli eventi. |
46 |
E io
scorgeva già d'alcun la faccia,
le spalle e 'l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giù ambo le braccia. |
|
46 |
E io già di uno di costoro
intravedevo il viso, le spalle e il petto e gran parte
del ventre, e le due braccia abbandonate lungo i
fianchi. |
49 |
Natura
certo, quando lasciò l'arte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte. |
|
49 |
Certamente la natura,
quando smise di produrre simili esseri viventi, fece
cosa molto buona, perché sottrasse a Marte (il dio della
guerra) tali esecutori (delle sue volontà). |
52 |
E s'ella
d'elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
più giusta e più discreta la ne tene; |
|
52 |
E se la natura non si
pente degli elefanti e delle balene. chi riflette con
attenzione, la giudica per questo più giusta e più
assennata; |
55 |
ché dove
l'argomento de la mente
s'aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente. |
|
55 |
poiché nei casi in cui lo
strumento della ragione si aggiunge alla volontà di
nuocere e alla forza fisica, gli uomini non possono
opporre alcuna difesa. |
58 |
La faccia
sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l'altre ossa; |
|
58 |
La faccia di quel gigante
mi sembrava lunga, e grossa come la pigna di San Pietro
in Roma (questa figura di bronzo ai tempi di Dante si
trovava nell’atrio di San Pietro; oggi invece è
all’interno del Vaticano, nel cortile detto della,
Pigna), e le altre membra erano proporzionate ad essa; |
61 |
sì che la
ripa, ch'era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma |
|
61 |
così che la sponda, che
gli serviva da veste dalla metà del corpo in giù,
lasciava vedere tanto della parte superiore del suo
corpo, che di arrivargli ai capelli |
64 |
tre Frison
s'averien dato mal vanto;
però ch'i' ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov' omo affibbia 'l manto. |
|
64 |
tre abitanti della Frisia
(rinomati per la loro alta statura) difficilmente
avrebbero potuto vantarsi; poiché ne scorgevo trenta
palmi (poco più di sette metri) abbondanti dal collo in
giù. |
|
Secondo il Grabher "i paragoni di misure mirerebbero a
dare maggiore concretezza" alla mole del gigante, mentre
"in realtà la sminuiscono". Opportunamente tuttavia il
Mattalia osserva: "La minuziosa precisione dì Dante...
nella quale va parzialmente perduta la misura fantastica
che del gigante il lettore aveva ricevuto dai versi
20-31, ha un suo preciso significato: il Poeta intende
mantenere il gigantesco nei limiti del ragionevolmente
pensabile e immaginabile, entro i limiti, precisando, in
cui è possibile immaginare una figura sufficientemente
compatta e distinta nel suo insieme; e fuori dei quali,
invece, l’immaginazione " abborra ", abborraccia, tende
a sperdersi". L’esigenza del razionale si impone con
maggior urgenza a Dante nel momento in cui deve
affrontare il tema delle forze e delle dimensioni
smisurate che la tradizione attribuiva ai giganti. |
67 |
«Raphèl maì
amècche zabì almi»,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi. |
|
67 |
"Raphél may améch zabi
almì" cominciò a gridare la mostruosa bocca, alla quale
non si addicevano discorsi più gradevoli. |
70 |
E 'l duca
mio ver' lui: «Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand' ira o altra passïon ti tocca! |
|
70 |
E Virgilio, rivolgendosi a
lui: "Spirito sciocco, accontentati del corno, e sfogati
con quello quando ti prende l’ira o un’altra passione! |
73 |
Cércati al
collo, e troverai la soga
che 'l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che 'l gran petto ti doga». |
|
73 |
Cerca intorno al tuo
collo, e troverai la cinghia che lo tiene legato, o
anima ottenebrata, e guardalo come attraversa il tuo
petto possente". |
76 |
Poi disse a
me: «Elli stessi s'accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s'usa. |
|
76 |
Poi mi disse: "Da solo
rivela chi egli sia; costui è Nembrot per il cui empio
pensiero nel mondo non si usa più un unico linguaggio. |
79 |
Lasciànlo
stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto». |
|
79 |
Lasciamolo stare e non
parliamo inutilmente; perché per lui ogni linguaggio è
tale (così: cioè incomprensibile) come per altri è il
suo, che non è conosciuto da nessuno. |
|
Nel libro della Genesi (X 8-10; XI, 1-9) Nembrot, nipote
di Cam e re di Babilonia, è detto "forte cacciatore"; di
qui è venuta probabilmente a Dante l’idea di assegnargli
il corno col quale esprime la sua rabbia e il suo
dolore. La letteratura patristica considera Nembrot
responsabile della costruzione della torre di Babele.
Per questo Dante lo colloca, insieme con i titani che sì
ribellarono a Giove (veduto qui in quanto espressione
dell’idea del divino), tra i guardiani dei nono cerchio
e gli fa pronunciare la frase incomprensibile del verso
67. Questa espressione risulta dalla storpiatura di
alcune parole ebraiche. In merito al suo significato
ogni discussione appare superflua dal momento che Dante
stesso ci avverte che la lingua che Nembrot parla non è
conosciuta che da quest’anima confusa. |
82 |
Facemmo
adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro
trovammo l'altro assai più fero e maggio. |
|
82 |
Percorremmo dunque un più
lungo cammino, diretti verso sinistra; ed a un tiro di
balestra incontrammo l’altro (gigante) molto più crudele
nell’aspetto e più grande. |
85 |
A cigner lui
qual che fosse 'l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l'altro e dietro il braccio destro |
|
85 |
Chi fosse l’artefice che
lo legò, non so dire, ma egli aveva piegato davanti il
braccio sinistro e dietro il braccio destro |
88 |
d'una catena
che 'l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto. |
|
88 |
per mezzo di una catena
che lo teneva legato dal collo in giù, in modo che essa
gli si avvolgeva intorno per cinque giri nella parte
visibile del corpo. |
91 |
«Questo
superbo volle esser esperto
di sua potenza contra 'l sommo Giove»,
disse 'l mio duca, «ond' elli ha cotal merto. |
|
91 |
"Questo superbo volle
sperimentare la sua forza contro l’altissimo Giove"
disse Virgilio, "per cui ha una simile ricompensa. |
94 |
Fïalte ha
nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a' dèi;
le braccia ch'el menò, già mai non move». |
|
94 |
Il suo nome è Fialte, e
mostrò la sua grande forza al tempo in cui i giganti
fecero paura agli dei: ora non muove. più le braccia che
egli mosse." |
|
Figlio di Nettuno, il titano Efialte (o Fialte) fu tra i
più accaniti nemici degli dei. Gli antichi poeti gli
attribuivano il tentativo di dare la scalata all’Olimpo
sovrapponendo il monte Ossa al monte Pelio. Questa
pazzesca impresa - che presenta evidenti analogie con il
motivo della costruzione della torre di Babele -
determinò l’inizio della guerra fra dei e titani, guerra
che si combatté nella pianura di Flegra e nella quale lo
stesso Giove, preso dal panico, perdette la propria
olimpica tradizionale maestà (cfr. canto XIV, versi
57-58). A proposito dei verso 96 acutamente osserva il
Sapegno: "La pausa, che isola il verso, sottolinea il
contrasto fra quella superbia smisurata e folle del
titano, e l’impotenza, assoluta a cui l’ha ridotto
l’inesorabile vendetta divina; il presente move, in
antitesi con menò, dà risalto all’incolmabile diversità
fra la dimensione umana e storica del tempo e quella
divina, in cui presente ed eterno coincidono". |
97 |
E io a lui:
«S'esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo
esperïenza avesser li occhi mei». |
|
97 |
E io a lui:
"Se fosse possibile, vorrei che i miei occhi vedessero
l’immane Briareo", |
100 |
Ond' ei
rispuose: «Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
che ne porrà nel fondo d'ogne reo. |
|
100 |
Per cui
Virgilio rispose: "Tu vedrai qui vicino Anteo, che sa
esprimersi e non è legato, il quale ci deporrà sul fondo
dell’inferno. |
|
Anteo, figlio di Nettuno e della Terra. non appare
incatenato come gli altri giganti perché non prese parte
alla lotta contro gli dei. Viveva, secondo quanto narra
Lucano (Farsaglia IV, 590 sgg.), in una grotta della
Libia, e si cibava di leoni. Fu ucciso da Ercole dopo un
lungo e difficile combattimento. Il gigante infatti
riacquistava le sue forze ogni volta che toccava terra.
L’eroe greco lo fece morire tenendolo a lungo sollevato
in aria. |
103 |
Quel che tu
vuo' veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto». |
|
103 |
Quello che tu vuoi vedere é molto più
distante, ed è incatenato e ha la stessa corporatura di
Fialte, tranne che appare più terribile nel volto". |
|
A Briareo, definito "immenso" da Stazio . (Tebaide Il,
596), la tradizíone aveva attribuito cento mani e
cinquanta teste. Virgilio, descrivendo questo mostro
(Eneide X, versi 565-568), "premette un dicunt, dicono,
si dice; e Dante ha fermato questa riserva" (Mattalia).
Il Sapegno mette in rilievo che "riducendo Briareo a
normale figura di uomo, seppure gigantesco", Dante ci
fornisce l’esempio di "una mentalità razionalistica,
tipicamente medievale, che s’applicava soltanto ai
particolari più inverosimili del dato leggendario,
anziché aggredirlo e rifiutarlo nella tua integrità". |
106 |
Non fu
tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
come Fïalte a scuotersi fu presto. |
|
106 |
Mai vi fu terremoto tanto
violento, che scuotesse una torre con lo stesso impeto
con il quale fu pronto a scuotersi Fialte. |
109 |
Allor
temett' io più che mai la morte,
e non v'era mestier più che la dotta,
s'io non avessi viste le ritorte. |
|
109 |
Allora più che mai ebbi
paura della morte, e non vi sarebbe stato bisogno
d’altro oltre la paura (perché io morissi), se non
avessi veduto le catene. |
112 |
Noi
procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
sanza la testa, uscia fuor de la grotta. |
|
112 |
Allora proseguimmo nel
nostro cammino, e giungemmo presso Anteo, che sovrastava
la parete rocciosa di oltre sei metri, se non si teneva
conto della testa. |
|
Alle: "alla -
secondo l’Anonimo Fiorentino - è una misura in
Fiandra... ch’è intorno di braccia due e mezzo". Il
Poeta ci fornisce le misure del corpo di Anteo con un
procedimento analogo a quello da lui usato per definire,
nelle sue reali dimensioni, la grandezza di Nembrot:
"invece di offrire la misura dell’insieme, Dante la
sdoppia ponendo la necessità di una somma di due
grandezze di per sé già eccezionali: l’effetto è la
nozione visiva dei gigantesco, ma (e questa è la
funzione dell’indicazione numerica) contenuto nei
limiti" (Mattalia). |
115 |
«O tu che ne
la fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,
quand' Anibàl co' suoi diede le spalle, |
|
115 |
"O tu che nella fortunosa
valle che fece Scipione erede di gloria, quando Annibale
fu volto in fuga col suo esercito, |
118 |
recasti già
mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l'alta guerra
de' tuoi fratelli, ancor par che si creda |
|
118 |
portasti un giorno
innumerevoli leoni catturati, e che se avessi preso
parte alla grande guerra dei tuoi fratelli, ancora vi è
chi potrebbe credere |
121 |
ch'avrebber
vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra. |
|
121 |
che avrebbero vinto i
giganti (i figli della terra), deponici, e non sdegnare
di farlo, dove il freddo congela le acque di Cocito. |
124 |
Non ci fare
ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo. |
|
124 |
Non ci fare andare né da
Tizio né da Tifo (il primo di questi due giganti fu
fulminato da Apollo per aver tentato di sedurre Latona,
il secondo da Giove): il mio compagno può darti ciò che
nell’inferno è desiderato (la fama tra i vivi); perciò
abbassati, e non volgere altrove il viso. |
127 |
Ancor ti può
nel mondo render fama,
ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta
se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama» |
|
127 |
Egli ti può ancora dare,
gloria nel mondo. poiché egli vive, e attende ancora di
vivere a lungo se la grazia divina non lo chiama a sé
prima dei tempo." |
|
La preghiera che Virgilio rivolge ad Anteo "rivela
indirettamente - scrive il Grabber - il carattere di
questo e degli altri giganti, toccando ciò che può
stimolare il loro animo: la superbia della forza e
l’ombrosa velleità della fama". Si insinua, nelle parole
del poeta latino, una sottile ironia (ancor par che si
creda ... ), ma, accanto e al di là di questa ironia, il
suo discorso ha un respiro, ampio e solenne. Per il solo
fatto di essere vissuto nella valle che vide il trionfo
di Scipione, nel 202 a. C. a Zama, sulle milizie
cartaginesi dì Annibale, Anteo appare a Dante più nobile
del suoi compagni, più degno di essere elogiato,
partecipe, sia pure in modo oscuro ed indiretto, del
compiersi provvidenziale di un grande disegno storico. |
130 |
Così disse
'l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese 'l duca mio,
ond' Ercule sentì già grande stretta. |
|
130 |
Così parlò Virgilio; e
Anteo stese sollecito le mani, di cui Ercole aveva
sentito una volta la stretta poderosa, e afferrò la mia
guida. |
133 |
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»;
poi fece sì ch'un fascio era elli e io. |
|
133 |
Virgilio, quando si sentì
afferrare, mi disse: "Avvicinati, così che io possa
prenderti"; poi fece in modo che egli ed io formassimo
un solo fascio. |
136 |
Qual pare a
riguardar la Carisenda
sotto 'l chinato, quando un nuvol vada
sovr' essa sì, ched ella incontro penda: |
|
136 |
Come appare la Garisenda
(la minore delle due famose torri di Bologna) quando la
si guarda dalla parte in cui è inclinata, allorché una
nuvola passa sopra ad essa, in direzione contraria alla
sua pendenza (sì, che ella incontro penda: sembra allora
che la nuvola sia ferma e la torre stia per piombare a
terra), |
139 |
tal parve
Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch'i' avrei voluto ir per altra strada. |
|
139 |
così apparve Anteo a me
che facevo attenzione per vederlo nell’atto del suo
piegarsi, e fu un momento tale che avrei voluto andare
per un’altra strada. |
142 |
Ma
lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, lì fece dimora, |
|
142 |
Ma dolcemente ci depose
sul fondo che imprigiona Lucifero e Giuda; né, così
chinato, lì indugiò, |
145 |
e come
albero in nave si levò. |
|
145 |
ma si levò diritto come in
una nave l’albero. |
|
La similitudine della Garisenda - nella quale la limpida
osservazione di un dato reale si congiunge ad un senso
allucinante di incubo - ripropone, in termini di
movimento e dì miracolo, l’immagine delle torri che
aveva fin qui definito staticamente, come masse
minacciose ma immote, i giganti. Il carattere miracoloso
della discesa dei due poeti dall’argine estremo
dell’ottavo cerchio sul fondo del nono è espresso con
particolare rilievo - attraverso un’avversativa e la
netta contrapposizione, tonale e ritmica, dei due
emistichi - dal verso 142. Il sovrannaturale si dispiega
poi grandiosamente ai nostri occhi nell’immagine
conclusiva del canto, analoga a quella che pone fine
alla discesa di Gerione. |