1 |
S'ïo avessi
le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce, |
|
1 |
Se i miei versi fossero aspri e striduli in misura
adeguata al malvagio cerchio sopra il quale premono
tutte le altre rocce, |
4 |
io premerei
di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch' io non l'abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco; |
|
4 |
io esprimerei più
compiutamente la sostanza dei mio pensiero; ma dal
momento che non dispongo di tali versi, non senza timore
mi accingo a parlare; |
7 |
ché non è
impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo. |
|
7 |
poiché non è un’impresa da
prendere alla leggiera descrivere il centro di tutto
l’universo (nel sistema tolemaico il centro della terra
coincide con il centro dell’universo; esso, nel mondo
immaginato da Dante, è occupato da Lucifero, che si
trova nel punto centrale dei nono cerchio), né tale da
essere espressa da una lingua infantile |
10 |
Ma quelle
donne aiutino il mio verso
ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso. |
|
10 |
ma soccorrano il mio
poetare le Muse che aiutarono Anfione a cingere Tebe di
mura, in modo che le mie parole non si allontanino dalla
realtà. |
|
Accingendosi a descrivere il cerchio dei traditori (i
fraudolenti contro chi si fida) il Poeta si pone il
problema dei mezzi espressivi di cui dispone. Potrà il
volgare, la lingua parlata da tutti, rendere in modo
efficace l’orrore che si cela nel più crudele e turpe di
tutti i peccati, la fredda, disumana ferocia che
contraddistingue il tradimento?
Dante avverte la difficoltà di rappresentare al vivo
tanto gravame di colpa, tanto sgomento di pena: è
l’ultima e forse la più aspra fatica, che egli ha da
superare prima di lasciar l’inferno. Sta bene il
ghiaccio, per contrappasso al gelido batter di quei
cuori crudeli su nel mondo, non mai avvivati da un
palpito di amore; sta bene il silenzio, come indice di
un dolore cupo e senza fine, così desolato e disperato
da non potersi più nemmeno tradurre in parole, in
lamenti, in grida; sta bene l’immobilità, che è la prova
più evidente e più sconcertante della impotenza assoluta
del dannato, della sovrana potenza di Dio. Ma
l’uniformità del ghiaccio, il silenzio, la immobilità
non fanno che accrescere la difficoltà già così grande
di dover rappresentare, con parole ancor più vive e più
varie delle vivissime e svariatissime usate fin qui per
rappresentare la progressiva gravità delle altre colpe,
il progressivo orrore delle altre pene." (Chiari)
L’invocazione alle Muse consegue naturalmente
dall’asserita incapacità di affrontare con mezzi altrove
sufficienti e riducibili al parlare comune il tema
spaventoso della pena dei traditori e della colpa che a
tale pena li ha condannati. Inoltre il ricordo di
Anfione, il mitico fondatore di Tebe, al suono della cui
cetra i macigni del monte Citerone, scesi a valle, si
disposero gli uni sugli altri formando le mura della
città, "pare particolarmente adatto non solo perché
accenna ad un fatto grandioso, ma anche perché per
Dante, come per Anfione si tratta di dare l’ultima mano
ad un solenne edificio [la prima cantica]".(Chiari) |
13 |
Oh sovra
tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe! |
|
13 |
O anime più delle altre sciagurate che state nel luogo
del quale è arduo parlare, meglio per voi se nel mondo
foste state pecore o capre! |
16 |
Come noi
fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a l'alto muro, |
|
16 |
Non appena fummo in fondo
al buio pozzo assai più in basso dei piedi del gigante
(poiché la superficie ghiacciata di Cocito è inclinata
verso il suo centro e Anteo ha deposto i due pellegrini
ad una certa distanza da sé, questi si trovano in un
luogo più basso di quello ove il gigante poggia i
piedi), e io guardavo ancora l’alta parete (del pozzo), |
19 |
dicere udi'mi:
«Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de' fratei miseri lassi». |
|
19 |
udii dirmi:
"Fai attenzione a come cammini; avanza, in modo da non
calpestare con i piedi le teste degli infelici fratelli
doloranti (di noi, che fummo uomini come te, e quindi
siamo tuoi fratelli)". |
22 |
Per ch'io mi
volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d'acqua sembiante. |
|
22 |
Perciò mi volsi, e vidi stendersi davanti a me e sotto i
miei piedi un lago che sembrava di vetro e non d’acqua. |
25 |
Non fece al
corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto 'l freddo cielo, |
|
25 |
Il Danubio in Austria (la Danoia in Osterlicchi), o il
Don sotto il freddo cielo boreale non formano durante
l’inverno una crosta di ghiaccio così spessa, sullo
scorrere delle loro acque, |
28 |
com' era
quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l'orlo fatto cricchi. |
|
28 |
come quella che si trovava
in quel posto; infatti se il monte Tambura, o la Pania
della Croce (due montagne delle Alpi Apuane) vi fossero
caduti sopra, non avrebbe scricchiolato nemmeno dalla
parte dei margine (dove lo spessore del ghiaccio è
minore). |
|
Il cupo paesaggio, reso più desolato dall’espressione
indeterminata là sotto il freddo cielo (nessuno spazio
viene in essa circoscritto, come accadeva per
Osterlicchi; le acque del Don si irrigidiscono in uno
spazio sconfinato, del quale il solo cielo invernale può
riprodurre la monotona, angosciosa sterilità), e gli
immani cataclismi geologici, evocati nelle terzine 25 e
28, sono stati giudicati da alcuni critici (Momigliano,
Chiari) più come una prova di abilítà nell’uso delle
rime aspre e chiocce che come poesia. Questi critici
sono stati sfavorevolmente impressionati dall’uso della
rima, volutamente disarmonica e scostante, in " icchi "
("una bizzarrìa puerile che impoverisce lo spettacolo",
secondo il Momigliano). Con assai maggior finezza
commenta questo passo il Grabher: "ecco allora quel
Dante, che in una biblica invocazione vorrebbe far
muovere la Capraia e la Gorgona [canto XXXIII, verso
82], ricorrere anche qui ad un’immagine gigantesca per
cui vediamo intere montagne ipoteticamente lanciate su
quella incrollabile ghiaccia che - si noti il contrasto
tra tanto sforzo di natura e l’infinitesimo effetto -
non avrebbe fatto sentire il minimo scricchiolio della
minima incrinatura". |
31 |
E come a
gracidar si sta la rana
col muso fuor de l'acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana, |
|
31 |
E come la rana sta a
gracidare col muso fuori dell’acqua, nel periodo estivo,
quando la contadina sogna spesso di raccogliere il
grano, |
34 |
livide,
insin là dove appar vergogna
eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna. |
|
34 |
allo stesso modo, livide,
le ombre dei dannati erano confitte nel ghiaccio fino al
punto nel quale la vergogna si manifesta (solo il viso
sporgeva cioè dalla superficie ghiacciata), emettendo,
col battere dei denti, un suono simile a quello prodotto
dalle cicogne. |
|
Secondo il Mattalia la scelta del termine vergogna è,
nel verso 34, intenzionale e "sottintende idea di
negazione: poiché il rosso è anche il colore dell’amore,
oltre che della vergogna, e né l’uno né l’altro
sentimento è pensabile come esistente nell’animo di un
uomo capace di tradire un congiunto, reato spiegabile e
concepibile solo colla più gelida obduratio cordis, il
cui espiatorio equivalente è il ghiaccio in cui i
dannati stanno confitti". Per quel che riguarda il
paragone della rana esso - scrive il Grabher - secondo
il valore che Dante conferisce a simili richiami
animaleschi... riflette sulla degradazione di questi
peccatori un particolare senso di miseria, in cui un
lampo di grottesco è subito raffrenato e soverchiato da
tocchi di squallida tristezza: livide... dolenti; e quei
denti che il freddo fa battere in perpetuo". |
37 |
Ognuna in
giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia. |
|
37 |
Ognuna teneva il volto
abbassato: in loro il freddo è attestato dalla bocca
(attraverso il battere dei denti), e il dolore dagli
occhi. |
40 |
Quand' io
m'ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti,
che 'l pel del capo avieno insieme misto. |
|
40 |
Dopo essermi alquanto
guardato intorno, rivolsi lo sguardo ai miei piedi, e
vidi due così vicini, che avevano i capelli mescolati
insieme. |
43 |
«Ditemi, voi
che sì strignete i petti»,
diss' io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
e poi ch'ebber li visi a me eretti, |
|
43 |
"Ditemi, voi che così
strettamente siete abbracciati", dissi, "chi siete?" E
quelli alzarono la testa; e dopo che ebbero levato lo
sguardo verso di me, |
46 |
li occhi lor,
ch'eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli. |
|
46 |
i loro occhi, che prima
erano bagnati dalle lagrime soltanto all’interno, le
lasciarono cadere fino alle labbra, e il gelo le
trasformò in ghiaccio fra loro e li strinse l’uno
all’altro. |
49 |
Con legno
legno spranga mai non cinse
forte così; ond' ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse. |
|
49 |
Una spranga di ferro non
tenne mai così fortemente unito un pezzo di legno ad un
altro pezzo di legno; per cui essi come due arieti
cozzarono l’uno contro l’altro, tanta fu l’ira che li
sopraffece. |
|
Come altrove, anche qui la pena dei peccatori viene
presentata attraverso un’immagine tratta dal mondo delle
attività manuali, nelle quali più evidentemente si
manifesta la signoria che l’uomo acquista sulla natura
attraverso il lavoro. I dannati vengono in tal modo
degradati a strumenti, a oggetti privi di anima e di
volontà. In particolare l’immagine del verso 49, "che
pone in tutta luce la rapidità ed imprevedibilità del
fatto, e la forza di questo legame, di questa spranga, è
puramente fisica, ma ben vale a rendere ragione
dell’impotenza e dell’odio rabbioso che spinge i due a
cozzare insieme, nello sforzo per liberarsi, come due
caproni, cioè battendo insieme le teste. Anche questa
scena... che esclude anche l’ironia frequente in altri
episodi, come esclude ogni senso di pietà, è nel clima
di questo canto, di furore e di odio". (Gallardo) |
52 |
E un ch'avea
perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi? |
|
52 |
Ed uno di loro che a causa
del freddo aveva perduto entrambi gli orecchi,
continuando a tenere il viso abbassato, disse: "Perché
ci fissi tanto intensamente? |
55 |
Se vuoi
saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue. |
|
55 |
Se vuoi apprendere chi
sono questi due, sappi che la valle attraverso la quale
scende il fiume Bisenzio appartenne al loro padre
Alberto ed a loro. |
|
I due dannati che hanno cozzato l’uno contro l’altro
come due becchi sono Alessandro e Napoleone, figli di
Alberto degli Alberti dei conti di Mangona, proprietari
di diversi castelli nella Val di Sieve e nella Val di
Bisenzio. Guelfo il primo e ghibellino il secondo,
venuti a dissidio anche per motivi di interessi si
uccisero l’un l’altro tra il 1282 e il 1286. |
58 |
D'un corpo
usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d'esser fitta in gelatina: |
|
58 |
Furono generati da una medesima madre;
e potrai cercare per tutta la Caina, senza trovare un
dannato più meritevole di essere confitto nel ghiaccio; |
|
La Caina è la prima delle quattro sezioni circolari in
cui è diviso il nono cerchio. Prende nome da Caino, che
uccise il fratello Abele; in essa sono puniti i
traditori dei parenti. |
61 |
non quelli a
cui fu rotto il petto e l'ombra
con esso un colpo per la man d'Artù;
non Focaccia; non questi che m'ingombra |
|
61 |
non colui del quale, per
mano di Artù, il petto e l’ombra furono trafitti da un
solo colpo di lancia; non Focaccia; non costui che mi
ostruisce |
64 |
col capo sì,
ch'i' non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se', ben sai omai chi fu. |
|
64 |
la vista con la sua testa,
in modo che io non riesco a vedere più in là, ed ebbe
nome Sassolo Mascheroni: se sei toscano, sai bene ormai
di chi parlo. |
|
Quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra è un
personaggio del ciclo di leggende medievali noto come il
ciclo di re Artù, Mordret, flglio (o nipote) di Artù, il
quale avendo tentato di uccidere il re, fu da costui
trafitto con la lancia "e al trarre della lancia il sole
passò per la ferita, sì che ivi si ruppe l’ombra del
corpo" (Anonimo Fiorentino). Focaccia è il soprannome del
pistoiese di parte bianca Vanni dei Cancellieri, reo di
aver ucciso proditoriamente il cugino Detto dei
Cancellieri. Il fiorentino Sassolo Mascheroni uccise,
secondo quanto narra l’Anonimo Fiorentino, un suo cugino
in giovane età, per impadronirsi delle ricchezze che
costui aveva ereditato. |
67 |
E perché non
mi metti in più sermoni,
sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni». |
|
67 |
E perché tu non mi faccia più oltre
parlare, sappi che fui Camicione dei Pazzi; e aspetto
Carlino che mi faccia apparire meno colpevole". |
|
Alberto Camicione dei Pazzi di Valdarno si trova fra i
traditori per aver ucciso, al fine di impossessarsi di
alcune fortezze che aveva con lui in comune, un suo
congiunto. Egli preannuncia la condanna nel nono cerchio
di Carlino dei Pazzi di Valdarno, reo di un tradimento
assai più infamante del suo: nel 1302 infatti Carlino
dei Pazzi cedette ai Neri di Firenze il castello di
Piantravigne, nel quale molti esuli Bianchi avevano
trovato ospitalità. |
70 |
Poscia vid'
io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de' gelati guazzi. |
|
70 |
Poi vidi un’infinità di
volti resi paonazzi dal freddo; per cui sento un
brivido, e lo sentirò sempre, al pensiero degli stagni
ghiacciati. |
73 |
E mentre
ch'andavamo inver' lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l'etterno rezzo; |
|
73 |
E mentre avanzavamo in
direzione del centro (della terra e dell’universo) verso
il quale ogni peso converge, e io tremavo nella gelida
ombra eterna, |
76 |
se voler fu
o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi 'l piè nel viso ad una. |
|
76 |
se lo feci deliberatamente
o per volontà di Dio o per caso, non so; ma, mentre
passeggiavo fra le teste, colpii violentemente col piede
una di queste nel volto. |
|
Dante rivela qui per la prima volta - nota giustamente
il Gallardo - "il deliberato proposito suo di offendere
un dannato... Dimenticata appare qui la pietà, o
perplessità, che accompagna spesso l’assenso di Dante
alla durezza della giustizia divina".
Il Sapegno rileva come l’episodio che qui inizia sia
"tra le pagine più sconcertanti di tutto il poema, non
tanto perché il Poeta vi lasci trasparire un fondo
istintivo, come si dice, di medievale ferocia, quanto
perché in nessun luogo forse, come qui, egli sottolinea
con maggior energia quella coincidenza piena fra la sua
"vendetta " e il suo personale senso della giustizia e
la terribil arte della vindice giustizia divina". |
79 |
Piangendo mi
sgridò: «Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?». |
|
79 |
Piangendo mi rimproverò: "Perché mi
percuoti? se tu non vieni ad accrescere la punizione
assegnatami a causa di Montaperti, perché mi tormenti?". |
|
Il dannato che Dante ha percosso col piede è il guelfo
fiorentino Bocca degli Abati. Alla battaglia di
Montaperti tagliò con la spada la mano del porta insegna
della cavalleria fiorentina, Jacopo Nacca dei Pazzi,
contribuendo in tal modo alla sconfitta dei suoi
concittadini. |
82 |
E io:
«Maestro mio, or qui m'aspetta,
sì ch'io esca d'un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta». |
|
82 |
Ed io: "Maestro, aspettami
ora qui, in modo che io chiarisca un mio dubbio per
mezzo di costui; poi mi farai affrettare quanto vorrai". |
85 |
Lo duca
stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
«Qual se' tu che così rampogni altrui?». |
|
85 |
Virgilio si fermò, e io
dissi a quello che continuava ad imprecare aspramente:
"Chi sei tu che mi rimproveri in modo così violento?" |
88 |
«Or tu chi
se' che vai per l'Antenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?». |
|
88 |
"Di’ tu piuttosto chi sei
che cammini per l’Antenora colpendo" rispose "le guance
a me, in modo che, se io fossi vivo, la tua sarebbe
un’offesa troppo grave (cioè: saprei vendicarmi)?". |
|
L’Antenora è la zona di Cocito assegnata ai traditori
della patria. Prende nome dal principe troiano Antenore,
ritenuto nel Medioevo traditore della sua città per aver
consegnato ai Greci il Palladio ed aver aperto le porte
del cavallo di legno in cui erano nascosti i guerrieri
achei. |
91 |
«Vivo son
io, e caro esser ti puote»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,
ch'io metta il nome tuo tra l'altre note». |
|
91 |
"Son io che sono vivo, e
ti può essere gradito" risposi, "se desideri fama, che
io registri il tuo nome tra le altre cose che
ricorderò." |
94 |
Ed elli a
me: «Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!». |
|
94 |
Ed egli: "Desidero proprio
l’opposto; va via di qua e non mi dare più fastidio,
perché senza risultato usi le tue lusinghe in questa
bassura!" |
97 |
Allor lo
presi per la cuticagna
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna». |
|
97 |
Allora lo
afferrai per la collottola, e dissi: "Occorrerà che tu
dica il tuo nome, o che nemmeno un capello rimanga sulla
tua testa". |
100 |
Ond' elli a
me: «Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti
se mille fiate in sul capo mi tomi». |
|
100 |
Per cui egli:
"Per il fatto che tu mi strappi i capelli, né ti dirò
chi sono, né te lo rivelerò, se anche tu mi cada sulla
testa mille volte". |
|
Nella violenza con la quale Bocca rifiuta di dichiarare
il suo nome è la coscienza del male da lui compiuto. A
consapevolezza non si accompagna tuttavia il rimorso
(Farinata aveva invece esordito pensosamente: alla qual
forse fui troppo molesto) o la vergogna (Vanni Fucci
arrossisce, vedendosi scoperto fra i ladri). Nell’animo
di Bocca c’è posto soltanto per l’ostinazione e il
rifiuto. Il gesto brutale di Dante risulta così in parte
giustificato. |
103 |
Io avea già
i capelli in mano avvolti,
e tratti glien' avea più d'una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti, |
|
103 |
Io avevo già afferrato e
attorcigliato i suoi capelli, e gliene avevo strappati
più di una ciocca, mentre egli latrava con gli occhi
ostinatamente volti in basso, |
106 |
quando un
altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?». |
|
106 |
allorché un altro gridò:
"Che ti prende, Bocca? non ti basta battere i denti? hai
bisogno anche di latrare? quale diavolo ha messo la mano
su di te?" |
109 |
«Omai»,
diss' io, «non vo' che più favelle,
malvagio traditor; ch'a la tua onta
io porterò di te vere novelle». |
|
109 |
"Ormai" dissi "non ho più
bisogno che tu parli, perverso traditore; ìnfatti, per
aumentare la tua vergogna, io porterò notizie vere sul
tuo conto." |
112 |
«Va via»,
rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch'ebbe or così la lingua pronta. |
|
112 |
"Vattene" rispose, "e
racconta ciò che vuoi; ma non tralasciare, se potrai
uscire di qui, di menzionare colui che poco fa è stato
così pronto a parlare. |
115 |
El piange
qui l'argento de' Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi". |
|
115 |
Egli è punito qui per il
denaro ricevuto dai Francesi: "Io vidi" potrai dire
"quello di Dovera là dove i dannati soffrono il freddo". |
|
Bocca degli Abati si vendica del suo denunciatore
denunciandolo a sua volta, E’ il cremonese Buoso di
Dovera o Dovara, che tradì per denaro il suo partito,
allorché, posto al comando (nel 1265) di un esercito
ghibellino, non oppose resistenza all’avanzata
dell’esercito quello di Carlo di Angió. |
118 |
Se fossi
domandato "Altri chi v'era?",
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera. |
|
118 |
Se ti venisse chiesto "Chi altro
c’era?", sappi che accanto a te si trova quello dei
Beccaria al quale Firenze tagliò il collo. |
|
L’abate di Vallombrosa Tesauro dei Beccaria, legato
pontificio in Toscana, fu processato nel 1258 dai
Fiorentini sotto l’imputazione di essersi accordato con
i fuorusciti ghibellini per tradire la parte guelfa e fu
decapitato. |
121 |
Gianni de'
Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch'aprì Faenza quando si dormia». |
|
121 |
Credo che più in là sì trovi Gianni dei
Soldanieri con Gano e Tebaldello, che aprì le porte di
Faenza di notte." |
|
Il fiorentino Gianni dei Soldanieri, appartenente ad una
nobile famiglia ghibellina, tradì nel 1266 il suo
partito guidando una rivolta popolare guelfa che pose
fine alla podesteria dei frati Gaudenti Catalano e
Loderingo (cfr. canto XXIII, versi 103-108).
Gano di Maganza, uno dei protagonisti della Chanson de
Roland, messosi d’accordo con i Saraceni, provocò la
disfatta di Roncisvalle e la morte di Orlando.
Il faentino Tebaldello dei Zambrasi, per vendicarsi di
una beffa fattagli da alcuni Ghibellini di Bologna che
si erano rifugiati a Faenza, consegnò la sua città in
mano ai Guelfi bolognesi all’alba del 13 novembre 1280. |
124 |
Noi eravam
partiti già da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l'un capo a l'altro era cappello; |
|
124 |
Ci eravamo già allontanati
da lui, quando vidi in una sola buca sepolti nel
ghiaccio due dannati, in modo che la testa dell’uno
faceva da cappello a quella dell’altro; |
127 |
e come 'l
pan per fame si manduca,
così 'l sovran li denti a l'altro pose
là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca: |
|
127 |
e con la stessa avidità
con cui l’affamato mangia il pane, così quello che stava
di sopra aveva conficcato i denti nell’altro nel punto
in cui il cervello si congiunge al midollo spinale: |
130 |
non
altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l'altre cose. |
|
130 |
non diversamente Tideo
rose per odio il capo di Menalippo, da come quel dannato
rodeva il cranio e il cervello. |
|
Narra Stazio nella sua Tebaide (VIII, 740 sgg.) che uno
dei sette re che assediarono Tebe, Tideo, colpito a
morte dal tebano Menalippo, lo uccise e che, prima di
morire a sua volta, preso da odio feroce, cominciò a
rodergli il capo. In questo preludio al grande episodio
del conte Ugolino, che occuperà la prima metà del canto
seguente, il richiamo mitologico è, come altre volte,
violentemente accostato alla notazione realistica e
conferisce a quest’ultima una particolare solennità,
illuminando, come ha felicemente notato il Grabher, il
particolare della fame "di quel disdegno per cui la fame
si fa dramma". L’atto del dannato che rode la testa del
suo compagno di pena, atto apparso in un primo momento
in una luce di sinistra oggettività (verso 126), si
proietta, attraverso il richiamo mitologico, sul piano -
eroico e tragico - delle passioni senza limite, che si
alimentano del dolore e nell’infinità del dolore trovano
la loro misura. |
133 |
«O tu che
mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi 'l perché», diss' io, «per tal convegno, |
|
133 |
"O tu che manifesti
attraverso un atto così bestiale il tuo odio verso colui
che stai divorando, dimmene il motivo" dissi, "a questo
patto, |
136 |
che se tu a
ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi, |
|
136 |
che se tu giustamente ti
duoli di lui, sapendo chi siete e la sua colpa, su nel
mondo io ti possa ricompensare, |
139 |
se quella
con ch'io parlo non si secca». |
|
139 |
se quella lingua con la
quale io parlo non si inaridirà.". |