1 |
Al tornar de
la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d'i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse, |
|
1 |
Quando riprendo la
conoscenza, che era rimasta in me offuscata alla vista
del pianto doloroso di Paolo e Francesca, pianto che mi
aveva, per la tristezza, completamente sconvolto, |
4 |
novi
tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch'io mi mova
e ch'io mi volga, e come che io guati. |
|
4 |
vedo
intorno a me nuove pene e nuovi puniti, dovunque io
vada, o mi rigiri, o volga lo sguardo. |
7 |
Io sono al
terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l'è nova. |
|
7 |
Mi trovo
nel terzo cerchio, il cerchio della pioggia destinata a
non aver termine, tormentatrice, gelida e pesante; mai
non cambia il suo ritmo ne la materia di cui è fatta. |
|
La
monotona insistenza della piova etterna sembra
ripercuotersi anche nella struttura sintattica e nel
ritmo dei primi versi del canto. Da terzina a terzina
non c'è quasi svolgimento: ognuna appare come chiusa in
sé, ognuna ostinatamente ribadisce l'incubo paralizzante
del tetro paesaggio infernale. |
10 |
Grandine
grossa, acqua tinta e neve
per l'aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve. |
|
10 |
Grossi chicchi di
grandine, acqua sudicia e neve cadono con violenza
attraverso l’aria buia; la terra che accoglie tutto
questo emana un fetido odore. |
|
La legge
del contrappasso ha qui, per i dannati del terzo cerchio
- i golosi - un'applicazione evidente: "Questa sozzura
("fastidio" dice uno degli antichi commentatori) in
forma di pioggia è appropriato castigo, quasi fetente
reciticcio di crapula, agl'ingordi gustatori d'ogni più
raffinata squisitezza di cibi e di bevande" (Del Lungo). |
13 |
Cerbero,
fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa. |
|
13 |
Cerbero, belva crudele e mostruosa,
latra, a modo di cane, attraverso tre gole, incombendo
sulle turbe che in quest’acqua impura sono immerse. |
16 |
Li occhi ha
vermigli, la barba unta e atra,
e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. |
|
16 |
Ha gli
occhi iniettati di sangue, la barba unta e nera, il
ventre capace, e le mani munite di artigli; graffia le
anime dei peccatori, le scuoia e le squarta. |
|
Sul piano
allegorico, secondo gli antichi commentatori, gli
occhi... vermigli stanno a significare l'avidità
rabbiosa, la barba unta la ributtante ingordigia, il
ventre largo l'insaziabilità, le unghiate mani l'indole
rapace. Anche Cerbero, come Caronte e Minosse, è figura
desunta dalla mitologia classica. Tuttavia, mentre in
Virgilio e in Ovidio il cane dal trifauce latrato è
posto a guardia del regno dei morti, nell'Inferno esso
assolve la funzione di tormentatore dei dannati del
terzo cerchio. Il Cerbero dantesco appare, inoltre, in
confronto a quello degli antichi, assai più complesso e
inquietante, sia per l'intrecciarsi in lui degli
elementi ferini e umani ( rappresentati questi ultimi
dalla barba, dalle mani, dalle facce) sia per la
vitalità che si sprigiona da ogni suo atto: "vitalità
immediata o animale", annota il Croce, tutta tesa a
soddisfare il più elementare degli impulsi: la fame. E'
"il laceratore - scrive il Del Lungo - il consumatore, a
graffi a morsi a bocconi, dei già divoratori brutali e
sfrenati, ora in ben altra condizione che di
gozzoviglia, e fra ben altro tumulto che quello
sconciamente giocondo dell'orgia". |
19 |
Urlar li fa
la pioggia come cani;
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani. |
|
19 |
La pioggia li spinge a
lamentarsi in modo disumano: con uno dei fianchi
proteggono l’altro; gli infelici peccatori continuano a
rivoltarsi (cercando inutilmente di sottrarsi al
tormento). |
|
Volgonsi spesso i miseri profani:
il termine profani può suggerire genericamente l'empietà
di chi pecca, o anche riferirsi in senso più specifico
ai golosi: "profani", in quanto adoratori del ventre,
"perché il loro dio è il ventre", come dice San Paolo
(Epistola ai Filippesi III, 19). |
22 |
Quando ci
scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo. |
|
22 |
Quando Cerbero, l’orribile
mostro, ci vide, spalancò le bocche e ci mostrò i denti;
un fremito di rabbia lo agitava tutto. |
|
Non avea
membro che tenesse fermo:
questo verso condensa come in una definizione quanto c'è
di parossistico e inane nel furore di questo, non meno
che degli altri mostri infernali, alla vista di Dante. |
25 |
E 'l duca
mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne. |
|
25 |
Virgilio tese le mani
aperte, afferrò della terra, e, riempitosene i pugni, la
gettò nelle tre bramose gole. |
|
Virgilio
ripete il gesto della Sibilla di fronte a Cerbero
(Eneide V, I, 419-421). |
28 |
Qual è quel
cane ch'abbaiando agogna,
e si racqueta poi che 'l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna, |
|
28 |
Come
quello del cane che, abbaiando, manifesta il suo
desiderio, e si calma solo dopo aver addentato il cibo,
poiché è tutto intento nello sforzo di divorarlo, |
31 |
cotai si
fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che 'ntrona
l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde. |
|
31 |
tale
divenne il sozzo aspetto del triplice volto del diavolo
Cerbero, che (coi suoi latrati) stordisce i peccatori a
tal punto, da far loro desiderare la sordità. |
34 |
Noi passavam
su per l'ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona. |
|
34 |
(Camminando) calpestavamo le ombre che la pioggia
fastidiosa prostra, e mettevamo le piante dei nostri
piedi sulla loro inconsistenza materiale, che ha
l’apparenza di un corpo umano. |
|
Dopo la
mossa e vibrante raffigurazione di Cerbero questa
terzina ci ripropone il tema, improntato a pesante
tristezza, dell'uggioso paesaggio infernale. Qui la
tristezza è accresciuta dal fatto che i due poeti sono
costretti, per poter procedere nel loro cammino, a
calpestare le ombre dei golosi; la perifrasi sopra lor `
vanità che par persona, dandoci quasi la trascrizione in
chiave morale dell'inconsistenza di questi spettri,
conferisce allo stato d'animo di Dante una straordinaria
profondità di risonanze. |
37 |
Elle giacean
per terra tutte quante,
fuor d'una ch'a seder si levò, ratto
ch'ella ci vide passarsi davante. |
|
37 |
Erano
tutte distese per terra, ad eccezione di una che si levò
a sedere, non appena ci vide passarle davanti. |
|
Bene
osserva il Del Lungo come la terzina precedente prepari,
insieme al primo verso di questa, la subitanea
apparizione dell'ombra che rivolgerà la parola a Dante:
"quella serie d'imperfetti passavam, ponevam, giacean,
inchiude e quasi strascica qualche cosa come di
preparazione e d'attesa di novità, la quale, poi, al
verso fuor chiana ch'a seder si levò, scatta baldanzosa
di suoni, di sintassi, d'imagine, che secondano
mirabilmente l'atto dell'ignoto dannato". L'ombra che si
leva a sedere al passaggio dei due poeti è quella di
Ciacco, un fiorentino in cui qualcuno ha voluto
ravvisare il poeta Ciacco dell'Anguillaia. Secondo
altri, Ciacco (nel significato di " porco ") sarebbe
soltanto un soprannome dato a questo goloso. Di questo
fiorentino ci ha lasciato un vivo ritratto il Boccaccio
"Era morditore di parole, e le sue usanze erano sempre
co' gentili uomini e ricchi, e massimamente con quelli
che splendidamente e delicatamente mangiavano e beveano,
da' quali, se chiamato era a mangiare, v'andava e
similmente, se invitato non era, esso medesimo
s'invitava". |
40 |
«O tu che
se' per questo 'nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto». |
|
40 |
"O tu che
sei condotto per questo inferno", parlò, "vedi se sei in
grado di riconoscermi: tu nascesti prima che io
morissi." |
|
Ciacco,
dolorosamente consapevole di essere sfigurato nei suoi
lineamenti dal dolore che lo tormenta, propone a Dante
l'enigma della sua identità: riconoscimi, se sai "E, per
dire che Dante è nato prima ch'egli morisse, usa un
apparente bisticcio, che serve invece a porre più forte
la tremenda antitesi, anche verbale, di due decisivi
momenti della vita umana, il " farsi " e il " disfarsi "
la nascita e la morte; dalla quale - e ne risalta la
potenza distruttrice - fu disfatto." (Grabher)
L'alterarsi delle fattezze umane nei dannati è uno dei
motivi sui quali la fantasia del Poeta torna con maggior
insistenza e con effetti di notevole efficacia sul piano
della poesia, quasi a ribadire il carattere di semplice
apparenza che il nostro corpo riveste, agli occhi di
Dio, di contro alla indistruttibile sostanza che è
l'anima. |
43 |
E io a lui:
«L'angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch'i' ti vedessi mai. |
|
43 |
E io: "La
pena che ti tormenta forse ti allontana dalla mia
memoria, così che mi sembra di non averti mai veduto. |
46 |
Ma dimmi chi
tu se' che 'n sì dolente
loco se' messo, e hai sì fatta pena,
che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente». |
|
46 |
Ma dimmi
chi sei, anima collocata in un posto così doloroso ed
assegnata ad un tale tormento, che, se pur ve ne sono di
più grandi, nessuno è altrettanto fastidioso". |
49 |
Ed elli a
me: «La tua città, ch'è piena
d'invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena. |
|
49 |
Ed egli
"Firenze, che a tal punto è colma di odio da non poterne
più contenere, mi ebbe fra i suoi abitanti quando vivevo
sulla terra. |
|
Il
piacevole motteggiatore di un tempo è qui serio,
pensoso, amaro: quanta malinconia in quell'attributo
serena, che qualifica la vita sulla terra idealmente
contrapponendola alla dura condizione dei dannati! La
morte conferisce, nel poema di Dante, un tragico rilievo
anche a figure che, considerate in se stesse, non
avrebbero nessuna delle qualità che caratterizzano
l'eroe tragico. |
52 |
Voi
cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. |
|
52 |
Voi
concittadini mi chiamaste Ciacco: per il peccato
rovinoso della gola, come vedi, mi struggo sotto la
pioggia. |
55 |
E io anima
trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola. |
|
55 |
Né io
(qui) sono il solo spirito infelice, poiché tutti questi
altri sono soggetti ai medesimi tormenti per la medesima
colpa". E più non pronunciò parola. |
58 |
Io li
rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno |
|
58 |
Gli
risposi: "Ciacco, il tuo dolore mi affligge tanto, da
indurmi a piangere; ma dimmi, se lo sai, a quali estremi
si ridurranno |
|
Le parole
riguardose con cui il Poeta manifesta a Ciacco la sua
simpatia riecheggiano quelle indirizzate a Francesca.
Dante è benevolo con coloro che hanno peccato per
incontinenza. Assai più aspra sarà la sua reazione alla
vista delle pene che tormentano i peccatori che hanno
fatto il male per fredda malizia. |
61 |
li cittadin
de la città partita;
s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione
per che l'ha tanta discordia assalita». |
|
61 |
gli
abitanti della città divisa in fazioni; se in essa si
trova qualcuno che sia giusto; e dimmi anche il motivo
per cui tanta discordia ha cominciato a travagliarla". |
64 |
E quelli a
me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l'altra con molta offensione. |
|
64 |
Ed egli:
"Dopo una lunga contesa si arriverà a un fatto di
sangue, e il partito degli uomini del contado (la parte
selvaggia: quella dei Cerchi, i Bianchi) manderà in
esilio gli esponenti del partito avversario (quello dei
Donati, i Neri) danneggiandoli gravemente. |
|
Le due
fazioni, in cui si era divisa la guelfa Firenze sul
finire del XIII secolo, erano capeggiate dalla famiglia
dei Cerchi e da quella dei Donati. Un primo scontro fra
cerchieschi e donateschi, soprannominati in seguito
rispettivamente Bianchi e Neri, si ebbe nel 1300 in
occasione delle feste di Calendimaggio. Le due parti
vennero al sangue, come dice Dante, e ci furono alcuni
feriti.
Per ristabilire l'ordine i Priori, tra i quali era anche
Dante ne esiliarono gli esponenti più in vista, che però
riuscirono ben presto a tornare in Firenze. Un anno dopo
lo scontro di Calendimaggio, nel giugno 1301, i Bianchi
(la parte selvaggia) espulsero dalla città i capi di
parte nera, per esserne a loro volta cacciati, al
rientro in Firenze di questi, nel 1302 (infra
tre soli:
cioè prima di tre rivoluzioni solari a partire dal 1300,
data dell'immaginario viaggio di Dante nell'oltretomba)
. La riscossa del partito dei Donati avvenne con
l'appoggio di Bonifacio VIII (con la forza di tal che
testé piaggia). Questo papa, che in un primo tempo
pareva deciso a mantenere un atteggiamento neutrale fra
le due fazioni in lotta per il predominio in Firenze,
optò alla fine per i Neri, che si mostravano propensi ad
accettare le sue richieste. |
67 |
Poi appresso
convien che questa caggia
infra tre soli, e che l'altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia. |
|
67 |
In seguito
è destino che il partito dei Bianchi soccomba prima che
siano trascorsi tre anni, e che il partito dei Neri
abbia il sopravvento con l’aiuto di qualcuno che
attualmente si barcamena (fra le due opposte fazioni). |
70 |
Alte terrà
lungo tempo le fronti,
tenendo l'altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n'aonti. |
|
70 |
Il partito
dei Neri spadroneggerà a lungo. tenendo sottomessa la
fazione avversa con provvedimenti iniqui, per quanto
questa si lamenti e si sdegni. |
73 |
Giusti son
due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi». |
|
73 |
I
cittadini giusti sono due, ma nessuno dà loro ascolto:
la superbia, l’invidia e la brama di guadagni sono le
tre scintille che hanno appiccato il fuoco agli animi
(aizzando i Fiorentini gli uni contro gli altri)". |
|
Giusti son
due:
già i primi commentatori mostrano di non sapere a quali
personaggi della vita pubblica fiorentina Dante
intendesse fare riferimento con questa espressione. Ma
può anche darsi come sostiene il Del Lungo - che il
Poeta abbia solamente inteso "senza allusioni personali,
significare che in si grande cittadinanza il numero dei
giusti era piccolissimo, e quasi nullo; e quei
pochissimi, non ascoltati". |
76 |
Qui puose
fine al lagrimabil suono.
E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni
e che di più parlar mi facci dono. |
|
76 |
A questo
punto pose termine al suo discorso doloroso; e io:
"Vorrei avere da te ancora altri schiarimenti, e vorrei
che tu mi facessi la grazia di continuare a parlare. |
79 |
Farinata e
'l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca
e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni, |
|
79 |
Farinata e
Tegghiaio, che furono così degni di onore, Jacopo
Rusticucci, Arrigo e Mosca e gli altri cittadini che si
adoperarono per il bene di Firenze, |
82 |
dimmi ove
sono e fa ch'io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca». |
|
82 |
dimmi dove
si trovano e fa in modo che io apprenda qualcosa di
loro; perché grande è il desiderio che ho di sapere se
il paradiso dà loro dolcezza, o l’inferno li amareggia". |
|
Dante
chiede al suo concittadino notizie di alcuni uomini
politici del tempo passato. Di questi, troveremo
Farinata degli Uberti, capo ghibellino e vincitore dei
Guelfi a Montaperti, tra gli eretici; Tegghiaio
Aldobrandi degli Adimari e Jacopo Rusticucci, guelfi
entrambi, tra i violenti contro natura; Mosca dei
Lamberti, considerato il primo responsabile del
divampare in Firenze delle lotte tra Guelfi e
Ghibellini, fra i seminatori di discordia. Arrigo
sarebbe un membro della famiglia dei Fifanti, il quale
partecipò nel 1215 alla uccisione di Buondelmonte: da
questo delitto gli storici del tempo fecero dipendere la
divisione dei Fiorentini in Guelfi e Ghibellini. Non e
più menzionato nel poema. |
85 |
E quelli:
«Ei son tra l'anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere. |
|
85 |
E Ciacco:
"Si trovano tra i dannati più colpevoli: peccati diversi
(da quello punito in questo cerchio) pesano su di loro
in modo da tenerli nella parte bassa dell’inferno: se
scenderai fin laggiù, potrai vederli. |
88 |
Ma quando tu
sarai nel dolce mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo». |
|
88 |
Ma quando
sarai tornato tra i vivi, ti prego di richiamare il mio
nome alla loro memoria: più non parlerò né ti
risponderò". |
|
Il ricordo
accorato della vita serena, con cui già si era iniziato
il discorso di Ciacco, colora di mestizia anche il
commiato di quest'ombra da Dante "e s'accompagna a un
disperato bisogno, così vivo nei dannati: quello di
essere ancora avvinti a questo mondo delle loro passioni
e del loro peccato che vivrà sempre in essi; e ciò
mediante l'unica illusoria forma di sopravvivenza che
salvi di loro qualche cosa: la fama presso le creature
della terra" (Grabher). |
91 |
Li diritti
occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi. |
|
91 |
Allora
stravolse gli occhi che fino allora avevano guardato
diritti davanti a se; per un attimo ancora mi guardò, e
poi abbassò la testa: piombò giù con essa allo stesso
livello degli altri dannati (ciechi: in quanto privi
della luce dell’intelletto). |
|
Cadde con
essa a par delli altri ciechi:
il termine "ciechi" ha qui un significato morale, e in
questa accezione ricorre nel linguaggio dei mistici.
Il Del Lungo cita, a questo proposito, il passo di un
dottore della Chiesa: ""il non vedere" è, in questa vita
mondana, la pena inavvertita dei peccatori; il "non
poter vedere", cioè la cecità, è, nell'altro mondo, la
pena sentita dai dannati". Tuttavia l'espressione
ciechi, in questo quadro che - come ha notato il
Momigliano - "ha del macabro, quasi come una scena di
decapitazione, si colora, per suggestione della rima,
anche di "un sinistro riflesso pittorico singolarmente
armonizzato con li diritti occhi torse allora in
biechi".
Sempre del Momigliano è l'osservazione che questa
terzina suggerisce "il primo esempio di uno dei motivi
poetici più frequenti del poema: la rappresentazione
della figura e della fisionomia dei dannati, stravolta
dal tormento e oscurata dalla depravazione: la pittura
di un'umanità imbestiata in cui la bestialità rende più
miserando quel tanto di umano che ciascuno dei dannati
conserva, e l'umanità fa sembrare più ripugnante quel
tanto di bestiale che ciascuno dei dannati ha portato
con sé dalla mala vita della terra e acquistato nella
proterva o disperata sopportazione della pena". |
94 |
E 'l duca
disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta: |
|
94 |
E Virgilio
mi disse: "Più non si alzerà prima del suono delle
trombe degli angeli, quando verrà il giudice nemico del
reprobi (Cristo): |
97 |
ciascun
rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch'in etterno rimbomba». |
|
97 |
ogni dannato rivedrà (
allora ) il suo triste sepolcro, assumerà nuovamente il
corpo e l’aspetto che aveva da vivo, ascolterà la
sentenza che deciderà la sua sorte per l’eternità". |
|
Più non si
desta:
nota il Del Lungo che questo presente storico "dice un
futuro che si distende per secoli". La solennità di
questa rappresentazione del Giudizio Universale non
trova riscontro che in alcuni dei più grandi capolavori
delle arti figurative. |
100 |
Sì
trapassammo per sozza mistura
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura; |
|
100 |
Cosi, razionando un poco intorno alla
vita d’oltretomba, camminammo lentamente attraverso
l’immondo miscuglio fatto di ombre di peccatori e di
acqua; |
103 |
per ch'io
dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann' ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?». |
|
103 |
e pertanto
mi rivolsi a Virgilio: "Maestro, queste pene
aumenteranno o diminuiranno d’intensità dopo Il Giudizio
Universale, o saranno dolorose come adesso?" |
106 |
Ed elli a
me: «Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza. |
|
106 |
E
Virgilio: "Ripensa alla tua dottrina, secondo la quale,
quanto più una cosa è perfetta, tanto più intensamente
sente il piacere non meno del dolore. |
109 |
Tutto che
questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta». |
|
109 |
Benché i
dannati non possano mai conseguire la vera perfezione
(che si ha solo quando l’uomo e vicino a Dio), attendono
di essere perfetti dopo il Giudizio più che non prima". |
|
Il
pensiero aristotelico-tomista, accettato da Dante,
afferma che nella misura in cui una realtà è perfetta
essa avverte con maggiore intensità la gioia o il
dolore. Ora la vera perfezion dell'uomo, secondo la
definizione della Scolastica, è nell'unione dell'anima e
del corpo, che, scissa con la morte, si ricostituirà
solo nel giorno del Giudizio Universale. |
112 |
Noi
aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch'i' non ridico;
venimmo al punto dove si digrada: |
|
112 |
Percorremmo il cerchio secondo la sua circonferenza,
discorrendo assai di più di quanto io non abbia qui
riferito; giungemmo nel punto ove da questo cerchio si
scende nel successivo: |
115 |
quivi
trovammo Pluto, il gran nemico. |
|
115 |
ivi ci
imbattemmo in Pluto, l’orribile diavolo. |
|
Pluto:
è il diavolo posto a guardia del cerchio degli avari e
dei prodighi. Nella mitologia greca Pluto, figlio di
Iasone e di Demetra, era considerato dio della
ricchezza. |