IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

 
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 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI INFERNO CANTO IX°

1 Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.
  1 Quel colore smorto che la paura aveva diffuso sul mio volto, quando avevo veduto Virgilio tornare indietro, fece sparire più presto il pallore che da poco era apparso sul suo.
4 Attento si fermò com' uom ch'ascolta;
ché l'occhio nol potea menare a lunga
per l'aere nero e per la nebbia folta.
  4 Si arrestò attento come chi cerca di percepire un suono; lo sguardo, infatti, non poteva portarlo a distinguere lontano attraverso l’aria buia e la densa caligine.
7 «Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse.
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!».
  7 "Eppure dovremo vincere questa battaglia" prese a dire, "a meno che... (ma no, non è possibile). Tanto potente è colei (Beatrice) che ci promise il suo aiuto: oh quanto mi preoccupa il ritardo di qualcuno".
  Virgilio, respinto dai difensori della città di Dite, è preso per un attimo dal dubbio, ma poi riacquista fiducia: ecco il senso generale, sul quale sono tutti d'accordo, del breve soliloquio contenuto in questa terzina, Quanto al significato più preciso adombrato nell'espressione se non, varie ipotesi sono state avanzate. Ad esempio Virgilio può aver pensato per un momento di non aver ben capito il discorso fattogli da Beatrice nel limbo, oppure addirittura che il procedere oltre fosse ormai del tutto impossibile. Ma per penetrare il valore poetico di questa apertura di canto, che, come rileva lo Zannoni, "prende l'avvio proprio dal giuoco psicologico dei due personaggi, Dante e Virgilio, dai loro silenzi e dalle loro parole, dalle ansie e dalle speranze loro, sullo sfondo di quella fantastica e fiammeggiante città infernale", non occorre andar oltre le intenzioni del Poeta e voler chiarire termini che traggono forza suggestiva proprio dall'essere circondati da un alone di mistero.
10 I' vidi ben sì com' ei ricoperse
lo cominciar con l'altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
  10 Mi accorsi facilmente come Virgilio cancellasse il senso delle prime parole con quelle aggiunte in seguito, diverse dalle prime;
13 ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch' io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
  13 ciò nonostante il suo discorso mi diede timore, poiché io attribuivo alla frase non conclusa un significato forse peggiore di quello che aveva.
  La peggior sentenzia che Dante attribuisce alle parole del suo maestro, completando nella sua mente la frase dubitativa da questi lasciata interrotta (se non...), é probabilmente questa: "a meno che l'opposizione dei diavoli non ci costringa a tornarcene indietro". La domanda che egli sta per rivolgere al suo maestro, esprime appunto questo stato d'animo angosciato del discepolo che vede ad un tratto la sua guida, il mar di tutto 'l senno, fin qui apparsa infallibile, umiliata e schernita dalle forze del male.
16 «In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».
  16 "Nel fondo della dolorosa voragine infernale avviene mai che discenda qualcuno del primo cerchio (il limbo), dove le anime hanno come sola punizione la speranza (di vedere Dio) destinata a non realizzarsi mai?"
19 Questa question fec' io; e quei «Di rado
incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.
  19 Feci questa domanda; e Virgilio mi rispose: "Raramente avviene che qualcuno di noi faccia la strada che io sto percorrendo.
22 Ver è ch'altra fïata qua giù fui,
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava l'ombre a' corpi sui.
  22 E’ bensì vero che già un’altra volta fui quaggiù, richiamato dagli scongiuri di quella crudele Eritone che faceva tornare le anime nei loro corpi,
 

Virgilio aveva nel Medioevo fama di mago. Nessuna tuttavia delle leggende che si erano formate intorno alla sua figura accenna a questa discesa agli Inferi. E' probabile quindi che Dante abbia tenuto presente, nell'immaginare questo primo viaggio di Virgilio fin dentro il cerchio più profondo della voragione infernale ( il nono, dove sono puniti i traditori), un passo della Farsaglia di Lucano, in cui è detto che la maga Eritone fece ritornare nel corpo l'anima di un soldato morto, per predire a Sesto Pompeo l'esito della battaglia di Farsalo (VI, 507 sgg.).

25 Di poco era di me la carne nuda,
ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
  25 Da poco tempo il mio corpo era privo dell’anima, allorché costei mi fece entrare nella città di Dite, per fare uscire un’anima del cerchio dove e dannato Giuda.
28 Quell' è 'l più basso loco e 'l più oscuro,
e 'l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so 'l cammin; però ti fa sicuro.
  28 Quello è il posto più basso e più buio, e più lontano dal cielo che imprime il movimento all’universo: conosco bene il cammino; perciò rassicurati.
  Nella cosmologia della Commedia, il ciel che tutto gira è, rispetto alla terra, l'ultimo dei nove cieli fisici. E' chiamato Primo Mobile, perché da esso si trasmette il movimento a tutto il creato.
31 Questa palude che 'l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u' non potemo intrare omai sanz' ira».
  31 L’acquitrino da cui emana il grande fetore circonda tutt’intorno la città dei dannati, nella quale non possiamo ormai entrare senza lotta.
  Le informazioni che Virgilio fornisce in questo discorso al suo discepolo, sono state considerate da molti come una digressione oziosa, la quale interromperebbe la tesa atmosfera drammatica che Dante aveva saputo creare, con un crescendo di effetti, sin dal canto precedente. Cosi, ad esempio, il Porena ha l'impressione che, soprattutto nella parte finale del suo discorso, Virgilio parli al discepolo solo per "occuparlo e distrarlo in qualche modo".

Assai difficile riesce, tuttavia, aderire a simili opinioni, che risolvono, in modo troppo semplicistico e ovvio, i non sempre facili problemi che pone l'interpretazione di questo e di altri passi della Commedia. In particolare, per quel che si riferisce all'episodio di Eritone, in esso, scrive lo Zannoni, "il mondo mitologico dona alla suggestiva vicenda del pellegrino medievale uno sfondo remoto di più solenne, di più oscuro, di più alto mistero" e, possiamo aggiungere, preannuncia l'apparizione delle figure mitologiche destinate a svolgere un ruolo così importante nel canto. Inoltre il tono pacato e didascalico con il quale il poeta latino fornisce a Dante ragguagli sulla palude che'l gran pazzo spira, serve a mettere maggiormente in rilievo la drammaticissima sostanza delle terzine successive.
34 E altro disse, ma non l'ho a mente;
però che l'occhio m'avea tutto tratto
ver' l'alta torre a la cima rovente,
  34 E disse altre cose, ma non le ricordo; poiché lo sguardo mi aveva tutto portato verso l’alta torre dalla cima arroventata,
37 dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
  37 dove all’improvviso si erano levate tutte nel medesimo istante tre furie infernali imbrattate di sangue, che avevano corpo e atteggiamentodi donna,
40 e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
  40 e portavano annodati intorno al corpo serpenti d’acqua d’intenso color verde; per capelli avevano serpentelli e serpenti muniti di corna, che ne cingevano le spaventose teste,
  Le Furie o Erinni, figlie di Acheronte e della Notte, erano, nella mitologia, le dee della vendetta e del rimorso. Esse perseguitavano il colpevole fino a fargli perdere il lume della ragione. La loro rappresentazione, in questi versi dell'Inferno, è di una potenza mai raggiunta dai poeti dell'antichità. Ciò è dovuto proprio al fatto che in queste, come nelle altre figure della mitologia, Dante sa infondere un significato morale nuovo, derivante dalla sua profonda fede. Qui, ad esempio, le Furie non sono vedute soltanto nel loro aspetto negativo, come emblemi cioè di un male dal quale non ci si riscatta, ma anche nel loro aspetto positivo: esse sono sì ostacoli a quell'itinerarium mentis in Deum, che il viaggio nell'al di là dei due poeti simboleggia, ma ostacoli concepiti anzitutto come strumenti di perfezionamento morale. Tale è il senso più profondo di questa allegoria del male, al di là di ogni interpretazione troppo particolare di essa. I critici hanno concordemente sottolineato la perfetta riuscita fantastica ed espressiva di questa creazione dell'arte di Dante, rilevando il carattere convulso e irreale di questa visione d'incubo.
43 E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l'etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
  43 E Virgilio, che non aveva tardato a riconoscere le ancelle della regina (Proserpina) dell’inferno, mi disse: "Ecco le implacabili Erinni.
46 Quest' è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
  46 Dalla parte sinistra è Megera; quella piangente, a destra, è Aletto: nel mezzo c’è Tesifone"; ciò detto, tacque.
49 Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.
  49 Ciascuna si lacerava il petto con le unghie; si percuotevano con le mani aperte e urlavano così forte, che per la paura mi strinsi a Virgilio.
52 «Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo l'assalto».
  52 "Venga Medusa: cosi lo faremo diventare di pietra" dicevano tutte quante guardando verso il basso: "fu male non punire nella persona di Teseo l’assalto (portato al regno dell’oltretomba)."
  Medusa, altra figura mitologica, era una delle tre Gorgoni, figlie del dio marino Forco; fu uccisa e decapitata da Perseo. La sua testa trasformava in pietra chi la guardava.
Un'antica leggenda greca narrava della discesa nel regno dei morti dell'eroe Teseo, il quale vi era penetrato per rapire Proserpina, regina del mondo sotterraneo. Fatto prigioniero dalle potenze delle tenebre, era stato in seguito liberato da Ercole (Virgilio- Eneide Vl, 392 sgg.).
55 «Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
  55 "Voltati e tieni gli occhi chiusi; poiché se Medusa appare e tu la vedessi, non ti sarebbe più possibile tornare sulla terra."
58 Così disse 'l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
  58 Così parlò Virgilio; ed egli stesso mi fece voltare, e non si accontentò che io mi coprissi gli occhi con le mie mani, ma volle coprirmeli anche con le sue.
61 O voi ch'avete li 'ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.
  61 O voi che avete le menti non ottenebrate, contemplate l’insegnamento che si nasconde sotto il velo dei versi misteriosi.
  L'insegnamento morale cui Dante esplicitamente allude in questa terzina ha dato luogo alle più disparate interpretazioni. Tra le opinioni degli antichi commentatori le più interessanti sono quelle del Lana, che vede simboleggiata in Medusa l'eresia, che "fa diventare 1'uomo pietra, perché lo eretico vuole più credere alle sensualitadi che alla Sacra Scrittura'' e di uno dei figli del Poeta, Pietro, per il quale Medusa è una raffigurazione allegorica del terrore.

Le Furie, simbolo dei rimorsi, invocando Medusa, cercano, secondo Pietro di Dante, di paralizzare col terrore l'animo e la mente del Poeta, per impedirgli l'accesso al basso inferno.

Fra i moderni lo Scartazzini ha visto nelle Erinni il simbolo della mala coscienza e in Medusa quello del dubbio, "che ha la virtù di rendere l'uomo insensibile come pietra". Una spiegazione assai convincente di tutta la scena delle Erinni ci è data dallo Steiner: "Le Furie, i rimorsi, condurrebbero Dante a guardare la testa della Medusa, cioè a impietrarsi nello stato della disperazione: Virgilio, la ragione corretta dalla fede, vuole che Dante guardi le Erinni, cioè che ascolti la voce del rimorso, ma non guardi la Gorgone, cioè non vuole che cada per questo nella indifferenza del disperato, che poi ricade nuovamente, secondo la sentenza di San Paolo, nella vita sensuale, senza riscattarsi mai più".
64 E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
  64 E già si stava avvicinando sulla superficie fangosa della palude un rumore fragoroso e terrificante, che faceva tremare sia l’una che l’altra riva dello Stige,
67 non altrimenti fatto che d'un vento
impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz' alcun rattento
  67 non diverso da quello di un vento reso violento dal calore delle masse d’aria (che trova sul suo cammino), il quale colpisce la foresta e senza che nulla possa trattenerlo
70 li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
  70 spezza i rami, li scaglia a terra e li trascina fuori (della selva); avanza imponente, in una nuvola di polvere, e causa la fuga dei greggi e dei pastori.
  Dante, con gli occhi ancora coperti dalle mani di Virgilio, ode approssimarsi come un uragano; in tal modo, con questa impressione di maestosa ed inarrestabile potenza, si preannuncia al pellegrino smarrito l'arrivo dell'angelo che aprirà le porte della città di Dite e che, sul piano dell'allegoria, simboleggia l'intervento della Grazia nel punto in cui la ragione (Virgilio) non riesce ad impedire che l'anima disperi. La similitudine del vento impetuoso è già negli autori dell'antichità (Virgilio, Stazio, Lucano) più cari al Poeta, ma egli la ricrea interamente, arricchendola di tratti realistici, che testimoniano un appassionato spirito di osservazione della natura.

Nota giustamente il Gallardo, a questo proposito, che in Dante, diversamente da quanto avveniva nella poesia classica, spesso "I'immagine poetica non si basa solo sull'osservazione del fenomeno e dei suoi effetti", ma anche su quella delle cause. Qui, ad esempio, Dante non si contenta di caratterizzare il vento attraverso quella che appare la sua qualità più rilevante (l'impeto), ma specifica anche il motivo del determinarsi di questa qualità (li avversi ardori).

Questo spirito di osservazione e l'insaziato interesse per tutti gli aspetti del mondo visibile, tipici di Dante, fanno sì che, anche ove lo spunto iniziale di una sua immagine è libresco, egli riesca sempre a dare a questa immagine la freschezza di una cosa viva e reale. Tra i critici che si sono più attentamente soffermati su questa similitudine, il Momigliano ha osservato come fin dall'inizio (e già...) essa sia colma di religiosa aspettazione, rilevando altresì nel verso dinanzi polveroso va superbo "una delle più stupefacenti sintesi poetiche di Dante".

Sempre a proposito di questo verso il Sapegno ha indicato in esso, e particolarmente nell'attributo superbo, il trasferirsi sul piano psicologico di un dato della realtà esteriore, con il quale "l'attenzione del lettore è riportata dal paragone alla cosa paragonata, dal vento al messaggero in cui s'incarna il volere dell'Onnipotente". Anche qui, come altrove nel poema, la natura è profondamente penetrata di ragioni umane, senza con ciò perdere nulla della sua concretezza; anche qui stato d'animo e mondo visibile sono così perfettamente fusi da apparire inscindibili.
73 Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».
  73 Virgilio mi liberò gli occhi (che erano coperti dalle sue mani) e disse: "Dirigi adesso la forza del tuo sguardo sulla superficie schiumosa dell’antica palude, verso quella parte dove la nebbia è più molesta".
76 Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,
  76 Come le rane all’apparire della biscia, loro nemica, si disperdono tutte nel l’acqua, fino ad appiattirsi ognuna contro terra,
79 vid' io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch'al passo
passava Stige con le piante asciutte.
  79 così vidi innumerevoli dannati darsi alla fuga all’avvicinarsi di qualcuno che attraversava camminando lo Stige senza bagnarsi neppure le piante dei piedi.
  Anche la similitudine con le rane, già presente in Ovidio (Metamorfosi VI, 370-381), rivive in Dante con tanta concretezza di determinazioni, da risultare cosa nuova e del tutto originale. La fuga delle rane all'avvicinarsi della biscia, oltre a costituire un quadro a se, serve, come ha osservato il Sapegno, "a portare ancor più sul piano della realtà" la figura sovrannaturale dell'inviato dal cielo, senza per questo privarla della sua grandezza.
82 Dal volto rimovea quell' aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell' angoscia parea lasso.
  82

Allontanava dal suo viso la fitta nebbia, muovendo spesso davanti a sé la mano sinistra; e sembrava infastidito soltanto da questa preoccupazione.

  Il gesto con cui l'angelo allontana da sé la densa caligine infernale esprime assai più il carattere del personaggio, un essere sceso dal mondo della perfezione e della luce in quello della irrimediabile disarmonia e del buio di quanto non farà l'aspro rimprovero che rivolgerà fra poco agli angeli ribelli, Pochi tratti bastano a Dante per dar vita ai suoi personaggi: la sua è soprattutto un'arte di concentrazione e di sintesi
85 Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.
  85 Compresi facilmente che era inviato dal cielo, e mi volsi a Virgilio; ed egli mi fece intendere con un cenno che dovevo restare tranquillo ed inchinarmi davanti a lui.
 
88 Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.
  88 Ahi come mi sembrava pieno di sdegno! Giunse alla porta (di Dite) e, toccandola con una piccola verga, la aprì senza incontrare alcun ostacolo.
  Con una verghetta: il diminutivo mette in risalto l'estrema facilità con cui l'angelo riesce ad avere ragione dell'impedimento opposto dalle forze del male al proseguimento del viaggio dei due poeti. Egli non tocca la porta della città di Dite con le proprie mani (anche questo particolare contribuisce a farcelo apparire distaccato da tutto l'orrore che lo circonda), ma con un piccolo scettro, quasi a riaffermare su di essa il potere assoluto di Colui che lo ha inviato.
91 «O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l'orribil soglia,
«ond' esta oltracotanza in voi s'alletta?
  91 "O espulsi dal cielo, stirpe disprezzata", prese a dire sullo spaventoso limitare, " da dove viene questa tracotanza che si raccoglie in voi?
94 Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v'ha cresciuta doglia?
  94 Perché vi opponete a quella volontà (la volontà di Dio) il cui compimento non può mai essere ostacolato, e che più di una volta ha accresciuto il vostro dolore?
97 Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo».
  97 A che serve opporsi ai decreti divini? Se ben ricordate, il vostro Cerbero, per questa ragione, ha tuttora privi di pelo la parte inferiore del muso e il collo."
  Secondo il racconto di Virgilio (Eneide VI, 395-396 ), Ercole, sceso nell'Ade, vinse e incatenò Cerbero. I critici sono concordi nel giudicare il rimprovero dell'angelo ai custodi della città di Dite assai meno efficace dei versi che solo indirettamente ne suggerivano la figura. Precisandosi, questa viene a perdere quell'aura di mistero con cui si era preannunciata da lontano alla fantasia del Poeta. Il ministro della volontà di Dio qui indulge forse ad una polemica troppo umana.
100 Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d'omo cui altra cura stringa e morda
  100 Poi tornò indietro ripercorrendo il sozzo cammino, e non ci rivolse neppure una parola, ma assunse l’aspetto di uno che è assillato e stimolato da una preoccupazione
103 che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver' la terra,
sicuri appresso le parole sante.
  103 diversa da quella di colui che gli sta davanti; e noi ci incamminammo verso la città, rassicurati dopo le sante parole da lui dette.
106 Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra;
e io, ch'avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
  106 Entrammo in essa senza incontrare opposizioni; e io, che desideravo osservare lo stato delle cose contenute dentro quelle mura fortificate,
109 com' io fui dentro, l'occhio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.
  109 non appena entrato, mi guardai d’attorno; e vidi da ogni parte una grande pianura colma di dolore e di supplizi crudeli.
  Il paesaggio sinistro delle mura della città di Dite, davanti alla quale si è svolto il dramma dell'anima tentata dalla disperazione, cede il posto, una volta che i due viandanti sono entrati in questa città, a una natura diversa, di uno squallore desolato, in cui predominano le linee orizzontali. "La grande campagna - osserva il Momigliano - è piena di lamenti: ma non si vede un'anima; di qui un'impressione sospesa, che è tanto più sensibile dopo la scena affollata e mossa di prima."
112 Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com' a Pola, presso del Carnaro
ch'Italia chiude e suoi termini bagna,
  112 Come ad Arles, dove la corrente del Rodano (sfociando nel mare) si arresta, e come a Pola, presso il golfo del Quarnaro che delimita l’Italia e ne bagna i confini,
115 fanno i sepulcri tutt' il loco varo,
così facevan quivi d'ogne parte,
salvo che 'l modo v'era più amaro;
  115 le tombe rendono tutto il terreno vario, così facevano qui in qualsiasi punto, solo che la forma della sepoltura era più angosciosa;
118 ché tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun' arte.
  118 poichè fra i sepolcri erano sparse fiamme, a causa delle quali erano tanto roventi, che nessun’arte (di fabbro) chiede che il ferro lo sia di più.
  Ad Arles, in Provenza, e a Pola, erano ben visibili nel Medioevo i ruderi di vaste necropoli romane. Si diceva che quella di Arles fosse sorta miracolosamente nel corso di una sola notte per consentire a Carlo Magno di seppellire i suoi soldati morti in uno scontro con gli infedeli.
Il richiamo a questi cimiteri abbandonati precisa da vicino la visione che si offre agli occhi di Dante e le conferisce al tempo stesso una sua mesta solennità.
121 Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n'uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e d'offesi.
  121 Le pietre tombali erano tutte sollevate, e uscivano dai sepolcri lamenti così disperati, che parevano davvero (lamenti) di infelici e di suppliziati.
124 E io: «Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell' arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?».
  124 E io: "Maestro, quali sono quelle turbe che sepolte dentro quelle tombe, si fanno udire attraverso i loro dolorosi gemiti?"
127 E quelli a me: «Qui son li eresïarche
con lor seguaci, d'ogne setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.
  127 E Virgilio: "Qui si trovano i capi di eresie con i loro seguaci, di ogni setta, e i sepolcri sono molto più pieni di quanto tu creda.
  Collocati fra i cerchi degli incontinenti e quelli del basso inferno, gli eresiarchi costituiscono una Categoria a sé.
Il fuoco che li tormenta negli avelli arroventati può forse essere messo in relazione con quello dei roghi a cui venivano condannati sulla terra, o meglio, in base ad un più sottile contrappasso, con le " fiammelle sotto la cui forma discese agli Apostoli lo Spirito Santo, infondendo in essi l'ardore della vera fede: di che tutti questi dannati furono privi" (Chimenz).

Un nesso profondo unisce, come osserva il Bozzetti, il significato del posto assegnato a queste anime con quello del grande dramma allegorico che si è concluso con l'entrata dei due poeti nella città di Dite: "Il controllo della ragione (Virgilio) non è stato sufficiente alla vittoria e ha dovuto intervenire la Grazia. Orbene, qui, negli eretici delle arche infuocate, sulla linea di confine fra i peccatori per incontinenza e i peccatori per malizia, sono puniti gli esseri che non offesero Dio altro che per essersi privati volontariamente della sua Grazia".
130 Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi».
E poi ch'a la man destra si fu vòlto,
  130 I seguaci di una stessa eresia sono sepolti insieme, e i monumenti sepolcrali sono ora più ora meno caldi". E dopo essersi volto a destra,
133 passammo tra i martìri e li alti spaldi.   133 ci incamminammo fra il luogo dei supplizi e le alte mura.
  Poiché i due pellegrini, nello scendere da un cerchio al successivo, girano sempre alla loro sinistra, si è voluto vedere anche in questo particolare un significato simbolico. Solo qui, e quando si dirigono verso il gruppo degli usurai (canto XVII, 31), Dante e Virgilio girano a destra.

Lo Scartazzini, a questo proposito, osserva che "l'andare a man destra si prende per segno o simbolo di dirittura, lealtà, sincerità, schiettezza".

 

© 2009 - Luigi De Bellis