IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

PURGATORIO

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 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI PURGATORIO CANTO XIX°

1 Ne l'ora che non può 'l calor dïurno
intepidar più 'l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno
  1

Nell'ora (l'ultima della notte) in cui il calore solare non può più mitigare il gelo dei raggi lunari, perché ormai è vinto dal freddo naturale della terra, e talvolta da quello del pianeta Saturno.

  Secondo la scienza del tempo si attribuiva il progressivo raffreddamento notturno della terra ai raggi freddi del pianeta Saturno (cfr. Convivio II, XIII, 25), quand'era all'orizzonte, e della luna, la quale "non è fredda in sé; ma è effettiva di freddo" (Buti).
4 - quando i geomanti lor Maggior Fortuna
veggiono in orïente, innanzi a l'alba,
surger per via che poco le sta bruna -,
  4

nell'ora in cui gli indovini vedono sorgere ad oriente, poco prima dell'alba, una figura somigliante a quella che essi chiamano Fortuna Maggiore, in una parte dell'orizzonte che per poco tempo rimane ancora oscura,

  I geomanti erano indovini che traevano le loro predizioni dallo studio di figure geometriche ottenute segnando sulla sabbia o sulla terra (geomanti: indovini per mezzo della terra) dei punti senz'ordine e congiungendo questi punti con linee. Tra le figure di particolare valore per i geomanti vi era quella chiamata Fortuna maior (Maggior Fortuna), formata da sei punti in forma di quadrilatero munito di una coda, e simile alla figura formata dalle ultime stelle dell'Acquario e dalle prime della costellazione dei Pesci, che precedono la costellazione dell'Ariete, in congiunzione con la quale, durante l'equinozio di primavera, sorge il sole (per via che poco le sta bruna).
7 mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
  7

mi apparve in sogno una donna balbuziente, con gli occhi guerci, e sciancata, con le mani rattrappite, e pallida in volto.

  La femmina balba e deforme ,è simbolo, come chiarirà più avanti Virgilio (versi 58-60), dei tre vizi nei quali l'uomo. cade per eccessivo amore (per troppo... di vigore) dei beni terreni, vizi che si puniscono nei tre ultimi gironi del purgatorio: avarizia, gola, lussuria (cfr. canto XVII, versi 133-137).
La mostruosa apparizione femminile emblema - nella laidezza dell'aspetto esteriore - di una somma di incapacità:
1) incapacità di parlare, di formulare quindi un pensiero, di comunicare una verità; la "distorsione" che ne definisce l'aspetto fisico é già anticipata (verso 7) nel balbettamento che manifesta il vaneggiare della mente nei meandri di un errore senza riscatto; poiché la parola è l'equivalente - la forma sensibile - del pensiero, il balbettamento della femmina (una connotazione negativa è già nella scelta di questo termine) indica il suo ambiguo proporsi come menzogna, involuzione dolorosamente ostacolata dal male che porta in sé, negazione di ogni luce di evidenza;
2) incapacità quindi di scorgere il vero, del quale pur riesce ad avere un qualche presentimento, ma distorto, incompleto, adulterato. Il Poeta non la definisce cieca, ma soltanto guercia: la cecità assoluta - appunto perché esprimente una condizione definitiva, priva di ambiguità, ne avrebbe in certo modo nobilitato, sul piano dell'immaginazione del sogno, la figura, avrebbe potuto far supporre nella cecità dei suoi occhi di carne un dono di Dio, il segno tangibile di una luminosità interiore e serena, di un possesso del vero svincolato dalle remore dell'apparato sensorio;
3) incapacità non soltanto di scorgere il vero - il quale coincide, nella visione cristiana, con una accresciuta pienezza di vita - ma anche di procedere sulla via che al vero conduce (sovra i piè distorta).
La figura della femmina balba risulta ripugnante proprio in virtù di questo dimezzamento di ogni caratteristica umana che in lei si rende manifesto: non è priva del dono della parola, ma balbetta; possiede ancora la capacità di vedere, ma si tratta di un vedere parziale, e quindi, di necessità, falsificante (nelli occhi guercia); è in gíado di camminare, ma grottescamente, spaventosa marionetta, per la deformazione che ne deturpa e rende, se non inservibili, certo incapaci di seguire un percorso rettilineo (la via che conduce al vero), gli organi del movimento (saura i piè distorta). Questa apparizione antelucana contrasta violentemente - pur inquadrandosi in esso - con il glorioso esordio, profilante, sullo sfondo di spiagge infinite, in una luce già densa del presagio solare (per via che poco le sta bruna), la visione, sia pure ottenuta al di fuori della preghiera e della Grazia, di quella enimmatica beneaugurante Maggior Fortuna, della quale solo i geomanti hanno il potere di costruire i profili e decifrare il messaggio.
10 Io la mirava; e come 'l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
  10 Io la osservavo fissamente; e come il sole rinfranca le membra intirizzite che il freddo della notte intorpidisce, così il mio sguardo le rendeva sciolta
13 la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d'ora, e lo smarrito volto,
com' amor vuol, così le colorava.
  13 la lingua, quindi in breve tempo le raddrizzava tutta la persona, e donava al volto sbiancato quel colore roseo che è suscitato dall'amore.
  Dante è preda di un sogno ingannatore. Il suo sguardo trasforma la mostruosa apparizione iniziale in essere di suprema seduzione. La femmina balba assume nel tempo che scandisce una illimitata ipnosi - le fattezze che il desiderio conferisce al proprio oggetto (è un dato dell'esperienza comune che la realtà si atteggia diversamente a seconda del modo in cui la consideriamo: troviamo in essa ciò che in essa abbiamo posto). Il Poeta esprime questa attrazione fatale, sottratta ai freni della volontà cosciente, dicendo: com'amor vuol, così le colorava (verso 15). Nel vuol è tutta la ineluttabilità di amor, naturalisticamente concepito, secondo teorie che erano state del dolce stil novo, in quanto negazione radicale non solo dell'amore cristiano (la carità, virtù sovrannaturale), ma anche di quel freno infuso in noi per vie naturali, che - secondo quanto è stato detto nel canto precedente - deve custodire la soglia dei nostri istinti. Così le colorava: nel colore si compendia ciò che di più leggiadro - e leggiero - è data riscontrare nel mondo del visibile: ogni forma, ogni struttura lineare propongono sempre un pensiero, introducono alle asperità ed ineluttabilità della logica, laddove le pure qualità cromatiche si porgono a noi come oggetto di incontaminata sensazione, di fluido sogno, indeciso tra l'essere e il parere.
16 Poi ch'ell' avea 'l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
  16 Dopo che ebbe così sciolta la lingua, la donna cominciava a cantare con tanta dolcezza che a fatica avrei potuto distogliere da lei la mia attenzione.
19 «Io son», cantava, «io son dolce serena,
che ' marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
  19 «Io sono» cantava, «io sono la dolce sirena, che distolgo dalla loro via i marinai in mezzo al mare, a tal punto sono piena di piacere per chi mi ascolta!
  Le sirene, secondo il mito, erano mostri marini dall'aspetto di bellissima donna nella parte superiore del corpo, e di mostruoso pesce in quella inferiore, ed ammaliavano i marinai con il loro dolce canto, attirando le navi a sfracellarsi contro gli scogli. Già presso gli antichi esse rappresentavano il rovinoso allettamento del piacere sensuale.
22 Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s'ausa,
rado sen parte; sì tutto l'appago!».
  22

Io attrassi col mio canto anche Ulisse, sebbene desideroso di proseguire il suo cammino; e chiunque si abitua alla mia compagnia, raramente se ne allontana, a tal punto riesco ad appagarlo totalmente)!»

  Ulisse, secondo il racconto di Omero, sfuggì al fascino delle sirene, ma non a quello di Circe - che fu una maga e non una sirena - la quale trattenne l'eroe greco per più di un anno (cfr. Inferno XXVI, 91-92). Dante, che non aveva letto l'Odissea, probabilmente fu ingannato dall'ambiguità di un passo del De finibus (V, XVIII, 48-49), in cui Cicerone traduce le parole delle sirene, ma non dice affatto che Ulisse sfuggì al loro canto; oppure ha usato il vocabolo « sirena » in senso metaforico, per indicare genericamente gli allettamenti dei falsi piaceri.
Interessante appare soffermarsi sulla caratterizzazione che la fantomatica apparizione notturna, il binomio per adesso ancora enigmattco, insolubile. femmina-serena, fornisce del peregrinare di Ulisse. Nell'epico, asciutto resoconto del canto XXVI dell'Inferno questo peregrinare aveva un movente (l'ardore... a divenir del mondo esperto) e una meta (l'esperienza), scaturiva dalla incondizionata dedizione a quelli che, nei convincimenti dell'eroe greco - portavoce diretto dell'eroico sentire di Dante, dell'ardore di sapere che contraddistinse tutta la sua opera di poeta e di trattatista - apparivano i caratteri distintivi e nobilitanti dell'uomo, inteso nella sua universalità: seguir virtute e canoscenza, mai appagandosi del risultato raggiunto, mai cercando pace o liberazione nella limitatezza invitante di un singolo oggetto, separato dalla totalità (il mondo) della quale fa parte. La serena sostiene una tesi a questa interpretazione affatto contraria; il peregrinare di Ulisse sarebbe stato, secondo lei, destituito di un qualsiasi fine o significato; soltanto nelle lusinghe del suo canto il superstite eroe della decennale carneficina sotto le mura di Troia avrebbe trovato - rinnegando in tal modo il senso stesso del suo esistere più profondo e del suo conseguente tragico destino, quali appaiono nell'episodio dell'Inferno - pace, beneficio, stasi, quell'inerzia che è tipica degli oggetti e appare indegna dell'uomo.
25 Ancor non era sua bocca richiusa,
quand' una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
  25

La sua bocca non si era ancora chiusa, quando accanto, a me apparve una donna santa e sollecita per svergognarla.

  Il significato allegorico di questa donna... santa e presta, che, volutamente si contrappone alla femmina del verso 7, è variamente interpretato dai commentatori. Forse non raffigura la temperanza (Zingarelli), né la filosofia (Sapegno), ma Lucia-Grazia illuminante (Mattalia) e sarebbe il simbolo di un aiuto sovrannaturale a Virgilio-Ragione, che riesce così a svelare il non-valore (il puzzo del ventre del verso 33) dei beni mondani. Il Marti sintetizza felicemente la fisionomia generale di questa visione antelucana, sospesa nell'irrealtà della ipnosi. Dopo aver attentamente analizzato il proporsi dei singoli valori simbolici ed: il senso complessivo del loro drammatico contrapporsi in questo incubo paralizzante, il Marti scrive: "Dante ha avuto la mano felice nel creare la sospesa e quasi allucinata atmosfera di sogno, in una rappresentazione nitida e nettamente disegnata, ma anche priva d 'ogni realistica corposità; vera ed inverosimile insieme; concreta di colori e d'immagini, e tuttavia lieve di un'aerea inafferrabile levità; ricca di drammatico movimento, eppure quasi fissa ed immobile in una sua connaturata astrattezza".
28 «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
  28 «O Virgilio, Virgilio, chi è costei?» diceva con accento sdegnato; e Virgilio s'accostava tenendo gli occhi sempre fissi su quella donna onesta.
31 L'altra prendea, e dinanzi l'apria
fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n'uscia.
  31 Quindi afferrava l'altra, e la scopriva davanti squarciandole le vesti, e me ne faceva vedere il ventre: questo mi svegliò col fetore che emanava.
  Il risveglio dal sogno si concreta in un urto di estrema brutalità, in una presa di contatto violenta e ripugnante con il reale. Nel verso 33 riaffiora, in cadenze evidenziate all'estremo, il cupo realismo, lievitato di sdegno incontenibile - espressione di un furore polemico che nessun limite riesce a contenere, di una intransigenza pesante e spigolosa - che è tipico di certe atmosfere infernali particolarmente soffocate ed opprimenti. Le lusinghe del sogno hanno palesato il loro aspetto repellente. La femmina balba, che l'anima - preda della propria non raggiunta chiarezza - ha metamorfosato in serena, in lusinga di canto alla quale lo stesso Ulisse aveva dovuto sottomettersi, è costretta a svelare intera la propria realtà negativa, la propria oscena laidezza. Il verso 32, nel quale il termine drappi - il fastoso, illusorio, rivestimento esteriore di tale aborrita menzogna - duramente, contrasta col ventre immondo (il solo atto di esibirlo sembra denunciarne una innominabile, mostruosa deforniità, fonte di malefizio e sciagure da tenersi celata, occultata in quelle tenebre, da cui, sul far del giorno, era emersa), anticipa il realismo greve del verso, successivo, il quale con tanto vigore suggella, specchiandolo nella sua vera essenza, il sogno ingannatore (quel mi svegliò col puzzo che n'uscìa).
34 Io mossi li occhi, e 'l buon maestro: «Almen tre
voci t'ho messe!», dicea, «Surgi e vieni;
troviam l'aperta per la qual tu entre».
  34 Io mossi gli occhi, mentre il mio valente maestro nei diceva: «Almeno tre volte ti ho chiamato! Alzati e vieni: vediamo di trovare l'apertura nella roccia attraverso la quale tu possa entrare».
37 Sù mi levai, e tutti eran già pieni
de l'alto dì i giron del sacro monte,
e andavam col sol novo a le reni.
  37 Mi alzai in piedi, e già tutti i gironi del sacro monte erano pieni della luce mattutina ormai alta suIl'orizzonte, e camminavamo avendo alle spalle il sole del nuovo giorno.
40 Seguendo lui, portava la mia fronte
come colui che l'ha di pensier carca,
che fa di sé un mezzo arco di ponte;
  40 Seguendo Virgilio, tenevo bassa la fronte come chi l'ha oppressa da gravi pensieri, e procede curvo facendo con la persona un mezzo arco di ponte,
43 quand' io udi' «Venite; qui si varca»
parlare in modo soave e benigno,
qual non si sente in questa mortal marca.
  43 quando udii dire: «Venite, si passa di qui» con un tono così soave e benigno, come non si sente mai nel nostro mondo terreno.
46 Con l'ali aperte, che parean di cigno,
volseci in sù colui che sì parlonne
tra due pareti del duro macigno.
  46 Colui che così ci parlò, con le ali aperte, candide come quelle d'un cigno, ci avviò verso l'alto (alla scala incavata) tra due pareti di duro sasso.
49 Mosse le penne poi e ventilonne,
'Qui lugent' affermando esser beati,
ch'avran di consolar l'anime donne.
  49 Poi mosse le ali e ci ventilò, affermando esser beati « Quelli che piangono » (è la seconda beatitudine evangelica: cfr. Matteo V, 4; Luca VI, 21), perché avranno le loro anime piene di consolazione.
52 «Che hai che pur inver' la terra guati?»,
la guida mia incominciò a dirmi,
poco amendue da l'angel sormontati.
  52 Noi due, ci eravamo di poco portati più in alto dell'angelo, quando la mia guida cominciò a dirmi: «Che cos'hai che continui a guardare a terra?»
55 E io: «Con tanta sospeccion fa irmi
novella visïon ch'a sé mi piega,
sì ch'io non posso dal pensar partirmi».
  55 Ed io gli risposi: «Mi fa camminare con tanto dubbio una recente visione che attira a sé la mia mente, tanto che non riesco a fare a meno di pensarci».
58 «Vedesti», disse, «quell'antica strega
che sola sovr' a noi omai si piagne;
vedesti come l'uom da lei si slega.
  58 Mi rispose: «Hai visto quella vecchia strega ammaliatrice, la quale rappresenta solo i vizi che ormai restano da espiare nei gironi superiori; hai visto come l'uomo riesce a. liberarsi da lei.
61 Bastiti, e batti a terra le calcagne;
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege etterno con le rote magne».
  61 Ti basti quanto hai sentito, e affretta il passo (batti a terra le calcagne) : volgi gli occhi in alto al richiamo che il re eterno fa ruotare con le sfere celesti».
  Il logoro era lo strumento con cui il falconiere richiamava il falcone in caccia (cfr. Interno XVII, 127-128) e la metafora introduce il successivo paragone tratto da scene e momenti della caccia col falcone, arte assai praticata nelle corti medievali. Percuotano la terra le calcagne - esorta, impone (bastiti) Virgilio - quasi con furore, con ira, nell'impazienza di non potersene ancora staccare: il cammino del pentimento è ancora lungo ed aspro. A questa immagine si contrappone quella liberatrice, del moto sereno delle sfere celesti (le rote magne), sottratte al peso della gravità, spontaneamente obbedienti al richiamo dell'altezza, là dove è la sede, fuori di ogni spazio, di ogni tempo (nell'empireo) del loro rege.
64 Quale 'l falcon, che prima a' pié si mira,
indi si volge al grido e si protende
per lo disio del pasto che là il tira,
  64 Come fa il falcone, che prima sta con gli occhi fissi ai piedi, poi si volge al richiamo del falconiere e tutto si protende per il desiderio del pasto, che lo attira in quella direzione,
67 tal mi fec' io; e tal, quanto si fende
la roccia per dar via a chi va suso,
n'andai infin dove 'l cerchiar si prende.
  67 così feci io; e così, per tutta la fenditura della roccia che si apre per dare passaggio a chi sale (quanto si fende la roccia per dar via a chi va suso), procedetti fin dove si riprende a camminare in cerchio (cerchiar: seguendo la curva del girone);
  L'immagine del logoro deve essere rapportata a quella del falcone. Il Tonelli trova che il trinomio logoro - rote magne - falcon, pur non destituito di un suo innegabile vigore, costituisce una immagine "forse un tantino barocca (o piuttosto, medievale, nella sua enormità)" ed aggiunge: "Forse le due immagini [quella del logoro che gira lo rege etterno con le rote magne e quella del felcon] sono troppo vicine, e, quasi sovrapponendosi fra loro, si oscurano (il che spiega il modo diverso d'interpretare la seconda immagine, da parte dei commentatori); ma a me sembra che, considerando, in entrambi i casi, Dio come il falconiere, Dante come falcone, tutto si chiarifichi sufficientemente: ché, nel primo, Dio richiama Dante col logoro delle rote magne: nel secondo lo sollecita con l'offerta del pasto spirituale". Tuttavia questo nodo metaforico - di una densità e compattezza tali da poter lasciare perplesso chi non abbia consuetudine con il modo di concepire medievale, e identifichi la poesia in talune costanti di armonia e trasparenza, rese canoniche dalle poetiche rinascimentali e post-rinascimentali - non ha bisogno di uno svolgimento esplicativo nel senso didascalico e prudentemente razionalizzatore che caratterizza l'interpretazione del Tonelli, imponendosi al contrario da sé - ad una lettura non prevenuta come un blocco architettonico dai profili sicuri, indelebile.
70 Com' io nel quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.
  70 Appena fui uscito all'aperto sul quinto girone, vidi anime sparse in esso che piangevano, giacendo bocconi a terra.
73 'Adhaesit pavimento anima mea'
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s'intendea.
  73 «L'anima mia si è attaccata alla terra (è il versetto 25 del Salmo CXIX)» le udivo dire con sospiri di dolore casi profondi, che appena si percepivano le loro parole.
76 «O eletti di Dio, li cui soffriri
e giustizia e speranza fa men duri,
drizzate noi verso li alti saliri».
  76 «O eletti di Dio, le cui sofferenze sono alleviate dalla giustizia e dalla speranza, indirizzateci verso i gradini dell'altra scala (che porta al girone superiore).»
79 «Se voi venite dal giacer sicuri,
e volete trovar la via più tosto,
le vostre destre sien sempre di fori».
  79 «Se voi venite esenti dalla pena che ci fa qui giacere, e volete trovare più presto la via, tenete le vostre destre sempre dalla parte esterna della parete del monte.»
82 Così pregò 'l poeta, e sì risposto
poco dinanzi a noi ne fu; per ch'io
nel parlare avvisai l'altro nascosto,
  82 Così pregò il poeta e così ci fu risposto poco più avanti di noi, per cui io per mezzo della voce riuscii a indivìduare l'interlocutore invisibile nel volto (perché giacente bocconi a terra);
85 e volsi li occhi a li occhi al segnor mio:
ond' elli m'assentì con lieto cenno
ciò che chiedea la vista del disio.
  85 e volsi il mio sguardo verso gli occhi della mia guida, per cui egli acconsentì con un cenno compiacente a quello che chiedeva il mio sguardo che manifestava il desiderio di parlare con quello spirito.
88 Poi ch'io potei di me fare a mio senno,
trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno,
  88 Non appena fui libero di disporre di me a mio piacimento, mi accostai a quella creatura le cui parole prima avevano richiamato la mia attenzione,
91 dicendo: «Spirto in cui pianger matura
quel sanza 'l quale a Dio tornar non pòssi,
sosta un poco per me tua maggior cura.
  91 dicendo: «O spirito in cui il pianto matura quella purificazione senza la quale non si può tornare a Dio, sospendi un poco per me la tua penitenza.
94 Chi fosti e perché vòlti avete i dossi
al sù, mi dì, e se vuo' ch'io t'impetri
cosa di là ond' io vivendo mossi».
  94 Dimmi chi fosti e perché avete le schiene rivolte al cielo, e dimmi anche se vuoi che ti ottenga qualcosa nel mondo da dove io, essendo ancora in vita, sono venuto».
97 Ed elli a me: «Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
scias quod ego fui successor Petri.
  97 Ed egli a me: «Conoscerai poi il peccato per cui il cielo ci ha condannati a stare con le schiene in alto, ma prima sappi che io fui papa (successor Petri).
  L'anima che parla è quella del genovese Ottobuono, dei conti Fieschi di Lavagna, il quale fu papa per trentotto giorni, col nome di Adriano V, dall'11 luglio al 18 agosto 1276. Il suo pontificato fu troppo breve per lasciare fama particolare e la sua avarizia storicamente non risulta. Forse Dante confonde Adriano V con Adriano IV, del quale Giovanni di Salisbury (Policraticus VIII, 23) riporta parole assai simili a quelle che il Poeta attribuisce a Ottobuono dei Fieschi riguardo al peso del pontificato e alla vanità degli onori (versi 103-105; 108-110). Certamente però il recente e brevissimo papato di Adriano V si prestava assai bene ai fini che il Poeta si era proposto: mostrare come in quei tempi di sfrenata cupidigia, quando al governo della Chiesa saliva un papa non più avido di beni terreni, la fortuna durava meno di una stagione.
La presentazione, improntata a "solennità sacerdotale" (Marti), che l'anima fa di se stessa nel verso 99 determina un contrasto fortissimo con la preghiera dei penitenti in questa cornice (« adhaesit pavimento anima mea »), contrasto accentuato dal fatto che le due espressioni sono nobilitate, rese definitive e come scolpite in epigrafe, dall'uso del latino. Questo pontefice, prima di evocare liricamente la sua vita privata, il travagliato emergere in lui della coscienza della vanità dei beni mondani, vuole mettere in risalto la dignità suprema (successor Petri) di cui in terra fu rivestito. La forza dell'imperativo scias - cui la posizione in principio di verso conferisce un tono di comando non trasgredibile - fa grandeggiare, fin dalle sue prime parole, la figura di Adriano V sulla massa mite ed anonima dei suoi compagni di espiazione.
Osserva in proposito il Marti che i richiami alla letteratura sacra e l'uso di termini aulici, che sollevano il dire del pontefice a toni di meditata elezione "concorrono al ritratto dì un personaggio austero e solenne, sacerdotale, ed insieme umile ed affabile; poiché quella solennità (scias quod ego fui suceessor Petri) è anche mortificante confessione di colpa tanto più grave, quanto sovrana l'autorità é più alto il prestigio morale e spirituale del peccatore".
100 Intra Sïestri e Chiaveri s'adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.
  100 Tra Sestri Levante e Chiavari scende in basso un bel torrente, il Lavagna, e dal suo nome il nome della mia famiglia trae il suo maggiore vanto.
103 Un mese e poco più prova' io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l'altre some.
  103 Per poco più di un mese io provai quanto pesa il gran manto pontificale a chi lo vuole conservare puro dal fango, tanto che tutti gli altri pesi al confronto sembrano leggieri come piume.
106 La mia conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.
  106 La mia conversione, ahimè!, fu tardiva; ma appena fui eletto romano pastore, in questo modo scopersi come sono menzogneri i beni mondani (la vita bugiarda).
109 Vidi che lì non s'acquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me s'accese amore.
  109 Vidi che neppure lì (sul seggio papale) il cuore si quietava, né in quella vita terrena si poteva salire più in alto, per cui in me si accese l'amore per la vita eterna.
112 Fino a quel punto misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita.
  112 Fino al momento della mia elezione (a quel punto) ero stato un'anima miserabile e divisa da Dio, completamente dominata dall'avidità: ora qui, come vedi, ne sono punito.
115 Quel ch'avarizia fa, qui si dichiara
in purgazion de l'anime converse;
e nulla pena il monte ha più amara.
  115 Quali siano gli effetti dell'avarizia, qui si dimostrano chiaramente nell'espiazione delle anime convertitesi; e il monte non ha alcuna pena più amara della nostra.
118 Sì come l'occhio nostro non s'aderse
in alto, fisso a le cose terrene,
così giustizia qui a terra il merse.
  118 Siccome il nostro occhio, sempre fisso alla realtà terrestre, non si sollevò al cielo, così qui la giustizia divina lo fa stare rivolto a terra.
121 Come avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdési,
così giustizia qui stretti ne tene,
  121 E come l'avarizia spense in noi l'amore di ogni vero bene, e per questo il nostro operare fu vano, così qui la giustizia divina ci tiene stretti,
124 ne' piedi e ne le man legati e presi;
e quanto fia piacer del giusto Sire,
tanto staremo immobili e distesi».
  124 legati e avvinti nelle mani e nei piedi (impedendoci di agire), e staremo qui immobili e distesi quanto piacerà al giusto re».
127 Io m'era inginocchiato e volea dire;
ma com' io cominciai ed el s'accorse,
solo ascoltando, del mio reverire,
  127 Io mi ero inginocchiato accanto a lui e volevo parlare; ma appena cominciai ed egli, solo dall'udire più vicina la mia voce, s'accorse del mio atto di riverenza,
130 «Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?».
E io a lui: «Per vostra dignitate
mia coscïenza dritto mi rimorse».
  130 «Quale motivo» disse «ti indusse a piegarti così in basso verso di me?» E io gli risposi: «Per la vostra dignità la mia coscienza mi fece venire il rimorso di stare diritto».
133 «Drizza le gambe, lèvati sù, frate!»,
rispuose; «non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.
  133 Rispose: «Fratello, drizza le gambe, alzati! Non cadere in errore (attribuendomi onori speciali): assieme a te e con gli altri sono anch'io un servo di fronte all'unica autorità di Dio.
  (L'espressione drizza le gambe riecheggia l'energica esortazione di Virgilio: bastiti, e batti a terra le calcagne, laddove il comando non errar ripropone il vigoroso scias del verso 99), suggellando cosi la meditata scansione che ha espresso sin qui - nel volgersi doloroso di uno sguardo quasi del tutto teso al proprio passato - il processo di interiore ripensamento iniziato in terra da quest'anima. Tuttavia, in questa medesima terzina, termini come frate e conservo ribadiscono il coesistere, nel dire di questo papa penitente, del terna dell'umiltà accanto a quello della somma dignità sacerdotale da lui rivestita.
136 Se mai quel santo evangelico suono
che dice 'Neque nubent' intendesti,
ben puoi veder perch' io così ragiono.
  136

Se hai capito quelle sante parole evangeliche che dicono: "Né sposeranno", ti apparirà chiaro perché io parlo (ragiono) in questo modo.

  Ai Sadducei che gli chiedevano di chi sarebbe stata moglie, dopo la resurrezione della carne, una donna che avesse sposato successivamente sette fratelli, Cristo rispose che "nella risurrezione, né gli uomini avranno moglie, né le donne marito" (Matteo XXII, 29-30), volendo significare che nell'al di là ogni rapporto o obbligo umano sarà annullato.
139 Vattene omai: non vo' che più t'arresti;
ché la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciò che tu dicesti.
  139 Prosegui ormai la tua strada: non voglio che ti trattenga ancora, perché la tua permanenza disturba il mio pianto, col quale completo ciò che tu dicesti.
142 Nepote ho io di là c'ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
  142 Nel mondo ho una nipote che si chiama Alagia, buona per indole, purché la nostra famiglia non la renda malvagia col suo esempio;
145 e questa sola di là m'è rimasa».   145 e di là mi è rimasta lei sola (che possa pregare per me)».
  Alagia, figlia di Niccolò, fratello di Adriano, andò sposa a Moroello Malaspìna. Dante la conobbe in Lunigiana quando fu ospite di lei e del marito nel 1306.

 

© 2009 - Luigi De Bellis