1 |
Mentre che sì per l'orlo,
uno innanzi altro,
ce n'andavamo, e spesso il buon maestro
diceami: «Guarda: giovi ch'io ti scaltro»; |
|
1 |
Mentre procedevamo con cautela (cfr. canto XXV, versi
115-117) lungo il margine esterno della cornice, uno
davanti all'altro, e spesso il valente maestro mi
diceva: «Fa' attenzione: ti sia utile il fatto che ti
rendo accorto del pericolo», |
4 |
feriami il sole in su
l'omero destro,
che già, raggiando, tutto l'occidente
mutava in bianco aspetto di cilestro; |
|
4 |
il sole che, diffondendo i
suoi raggi, già cambiava in bianco l'aspetto azzurrino
della zona occidentale del cielo (avviandosi ormai al
tramonto), mi colpiva la parte destra del corpo; |
7 |
e io facea con l'ombra più
rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt' ombre, andando, poner mente. |
|
7 |
ed io con l'ombra
(proiettata dal mio corpo) facevo apparire la fiamma più
rosseggiante; e vidi che molte ombre, pur continuando a
camminare, prestavano attenzione anche solo a un così
piccolo indizio. |
|
Il canto si apre con un forte gioco di contrasti: la
luce del sole che tramonta trasforma, per trapassi
insensibili, il colore del cielo ad occidente, laddove
ogni forma di attenuazione scompare nella notazione che
definisce in termini recisi, con un'animazione che
richiama un conflitto armato e il sangue sparso (ferìami),
il punto esatto in cui questa luce tocca Dante (in su
l'omero destro) proiettandone l'ombra sul muro compatto
di fiamme. Da questo emana altra luce, con effetti
diversi e diversa risonanza simbolica, e in esso ombre
si stupiscono per l'improvvisa intensità che tale luce
acquista dove l'ombra del corpo del pellegrino la
protegge dai raggi solari. Osserva il Gallardo:
"L'inizio di questo canto sembra richiamare quello del
canto XXIII del Purgatorio; ma in realtà, anche se
simile è il legame che lo unisce al canto precedente,
assai diverso è il quadro, e nuovo. Qui è tutto
movimento e senso del pericolo, mentre là era curiosità
e desiderio di conoscere; e qui è vivo contrasto di luci
e d'ombra che ben si addice al peccato di lussuria". Il
Momigliano, d'altro canto, ha fatto acuti rilievi, a
proposito di queste terzine iniziali, sulla capacità che
ha Dante di "sostanziare di realtà una situazione
irreale" ed ha additato in questo esordio "una concreta
variante del motivo abituale all'Inferno e al
Purgatorio: il modo come gli spiriti si accorgono che
Dante è vivo". Partendo da queste osservazioni di
carattere generale del Momigliano, il Roncaglia ha
sottolineato come "il concreto realismo" si traduca "qui
in effetti suggestivi di stupore...", rilevando, a
proposito dei versi 10-12, l' "insistenza, che
altrimenti potrebbe sembrare sovrabbondante, sullo
aspetto incoativo dell'azione", onde in questo inizio di
canto tutto "è trattenuto, rallentato, sospeso. E quando
uno degli spiriti si rivolge infine a Dante [versi
16-18], parlando per tutti, anche la sua allocuzione
allarga i tempi in una riguardosa e dubitativa
perifrasi". |
10 |
Questa fu la cagion che
diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: «Colui non par corpo fittizio»; |
|
10 |
Questo fu il motivo che
offri loro l'occasione di rivolgermi la parola; e
cominciarono tra loro a dire: «Questo non sembra un
corpo apparente (fittizio: come quello dei penitenti)». |
13 |
poi verso me, quanto potëan
farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi. |
|
13 |
Poi alcuni si spostarono verso di me, quanto fu loro
possibile, sempre facendo attenzione a non uscire dalla
fiamma. |
16 |
«O tu che vai, non per
esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo. |
|
16 |
«O tu che cammini dietro
agli altri, non per il fatto di essere più pigro, ma
forse per manifestare rispetto, rispondi a me che ardo
nella sete (di sapere) e nel fuoco (purificatore). |
19 |
Né solo a me la tua
risposta è uopo;
ché tutti questi n'hanno maggior sete
che d'acqua fredda Indo o Etïopo. |
|
19 |
Né la tua
risposta è necessaria solo a me; perché tutte queste
anime ne hanno maggior sete che non gli Indi o gli
Etiopi (i popoli delle due regioni considerate le più
calde della terra) di acqua fresca. |
22 |
Dinne com' è che fai di te
parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete». |
|
22 |
Spiegaci per quale ragione con la tua persona fai
ostacolo ai raggi del sole, proprio come se tu non fossi
ancora morto.» |
|
La preghiera di quest'anima a Dante, appassionata ma
contenuta nei modi di una nobile scelta stilistica (di
cui sono indici tra l'altro il riferimento geografico
del verso 21, nonché le due immagini che suggeriscono in
termini intensi il fenomeno dell'ombra e l'atto del
morire nei versi 22-24), introduce a quella che sarà la
tonalità « alta » del canto nel suo complesso. In
particolare, per quanto riguarda i versi 16-18, assai
penetrante appare la seguente osservazione del Mattalia:
"Il modo d'interpellare Dante è della più fine
delicatezza: le anime, non conoscendo il Poeta, non
trovano altro modo per rivolgersi a lui che indicandolo
come terzo e ultimo della fila..., ma temono che
l'aggettivo « ultimo » o « terzo » possa suonar male
agli orecchi dell'interpellato: di qui la delicata
precisazione [non per esser più tardo, ma forse
reverente], che vuol esser una richiesta di scusa". Per
il Roncaglia nei versi 18-21 "l'insistita metafora della
sete, la comparazione con popoli di paesi torridi -
immagini d'arsura dietro le quali è, se pur meno pronta,
un'intuizione analoga a quella che ha dettato il sospiro
di pena affocata di Guido da Montefeltro... - sembrano
scaturite dallo stesso riardere della fiamma, e ne
prolungano l'impressione". |
25 |
Sì mi parlava un d'essi; e
io mi fora
già manifesto, s'io non fossi atteso
ad altra novità ch'apparve allora; |
|
25 |
Così mi parlava uno di loro: ed io mi sarei già
manifestato, se la mia attenzione non si fosse volta ad
uno spettacolo nuovo che apparve in quel momento, |
28 |
ché per lo mezzo del
cammino acceso
venne gente col viso incontro a questa,
la qual mi fece a rimirar sospeso. |
|
28 |
poiché attraverso lo
spazio occupato dalle fiamme (per lo mezzo del cammino
acceso) avanzava una schiera in direzione opposta a
quella della prima (alla quale appartiene l'anima che ha
ora parlato), la quale concentrò la mia attenzione
nell'osservare. |
31 |
Lì veggio d'ogne parte
farsi presta
ciascun' ombra e basciarsi una con una
sanza restar, contente a brieve festa; |
|
31 |
Li vedo (veggio) da ognuna
delle due schiere farsi avanti sollecita ciascuna ombra
e baciarsi una con l'altra senza fermarsi, contente di
questa breve gioia; |
34 |
così per entro loro schiera
bruna
s'ammusa l'una con l'altra formica,
forse a spïar lor via e lor fortuna. |
|
34 |
allo stesso modo dentro la
loro fila scura le formiche si toccano l'un l'altra con
il muso, forse per cercare di sapere la via da
percorrere e il cibo che potranno trovare. |
37 |
Tosto che parton
l'accoglienza amica,
prima che 'l primo passo lì trascorra,
sopragridar ciascuna s'affatica: |
|
37 |
Non appena le due schiere
interrompono l'abbraccio, prima di aver compiuto il
primo passo per procedere oltre quel punto, ciascuna si
sforza di gridare con voce che superi (quella dell'altro
gruppo): |
40 |
la nova gente: «Soddoma e
Gomorra»;
e l'altra: «Ne la vacca entra Pasife,
perché 'l torello a sua lussuria corra». |
|
40 |
la seconda schiera:
«Sodoma e Gomorra»; e la prima: «Pasifae si nasconde
nella vacca, affinché il toro possa soddisfare il suo
istinto». |
|
Nel settimo e ultimo girone del purgatorio sono puniti i
lussuriosi che, per il contrappasso, ora ardono tra le
fiamme come un tempo si lasciarono bruciare dal fuoco
del desiderio. Essi appaiono divisi in due schiere:
coloro che, pur peccando secondo natura, seguirono solo
l'istinto senza che mai intervenisse il freno della
ragione, e coloro che peccarono contro natura. Il primo
gruppo procede tra le fiamme da sinistra verso destra,
nella direzione abituale che si segue nel purgatorio, il
secondo da destra verso sinistra, per sottolineare la
innaturalità del vizio di sodomia. Quando le due schiere
si incontrano, le anime si baciano, in una effusione di
affetto nella quale il ricordo del peccato di un tempo
appare ora sublimato in un puro ardore di carità. Nel
momento in cui le ombre si separano, i sodomiti gridano
il nome delle due città bibliche di Sodoma e Gomorra,
simbolo di ogni corruzione (Genesi XVIII, 20: XIX,
24-25); i lussuriosi secondo natura ricordano un
infamante esempio di lussuria: Pasifae, moglie di
Minosse, re di Creta, si unì ad un toro, di cui si era
innamorata, dopo essersi introdotta in una vacca di
legno costruita per lei da Dedalo; da questa unione
nacque il mostruoso Minotauro (cfr. Ovidio Metamorfosi
VIII, 132; Virgilio - Eneide VI, 24-26; Inferno XII, 12
sgg.). |
43 |
Poi, come grue ch'a le
montagne Rife
volasser parte, e parte inver' l'arene,
queste del gel, quelle del sole schife, |
|
43 |
Poi simili a gru che (disponendosi in
due gruppi) volino in parte verso le montagne del
settentrione e in parte verso i deserti africani, queste
desiderose di fuggire il freddo, quelle il caldo. |
|
Dante presenta una similitudine ipotetica (volasser), in
quanto le gru volano in massa per svernare al sud nella
stagione fredda o per ritornare, nella stagione calda,
alle loro sedi nordiche, qui indicate, secondo la
geografia antica e medievale, col nome dei monti Rifei o
Iperborei, posti all'estremo limite settentrionale
dell'Europa. Al Poeta, che presenta per la terza volta
una similitudine ispirata alle gru (cfr. Interno V,
46-47; Purgatorio XXIV, 64.. 66), interessa rilevare il
separarsi delle due schiere di penitenti dopo l'incontro
e il loro ordinato disporsi su due file. |
46 |
l'una gente sen va, l'altra
sen vene;
e tornan, lagrimando, a' primi canti
e al gridar che più lor si convene; |
|
46 |
un gruppo si allontana
(verso sinistra), l'altro procede (verso destra, nella
stessa direzione dei poeti); e ricominciano, piangendo,
l'inno «Summae Deus clementiae» (primi canti: cfr. canto
XXV, 121) e gli esempi più adatti al loro tipo di
lussuria; |
49 |
e raccostansi a me, come
davanti,
essi medesmi che m'avean pregato,
attenti ad ascoltar ne' lor sembianti. |
|
49 |
e quegli stessi che mi
avevano pregato (di parlare) si riaccostano a me, come
prima (cfr. versi 13-15). mostrandosi nell'aspetto
attenti ad ascoltare. |
52 |
Io, che due volte avea
visto lor grato,
incominciai: «O anime sicure
d'aver, quando che sia, di pace stato, |
|
52 |
Io, che per due volte (ora
e prima dell'arrivo dei sodomiti) avevo visto ciò che
essi desideravano conoscere, incominciai: «O anime
sicure di conseguire, presto o tardi, una condizione di
felicità, |
55 |
non son rimase acerbe né
mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture. |
|
55 |
le mie membra non sono
rimaste in terra né giovani (acerbe: per morte precoce)
né vecchie (mature: per morte naturale nella vecchiaia),
ma esse sono qui con questo corpo che vedete con il loro
sangue e con i loro nervi. |
58 |
Quinci sù vo per non esser
più cieco;
donna è di sopra che m'acquista grazia,
per che 'l mortal per vostro mondo reco. |
|
58 |
Da questo monte salgo
verso il cielo per non essere più ottenebrato (dal
peccato e dall'errore): c'è una donna (Beatrice per
molti, la Vergine per alcuni) nel paradiso che mi ha
impetrato grazia da Dio, per la quale grazia io porto il
mio corpo ('l mortal) nel mondo del purgatorio (per
vostro mondo). |
61 |
Ma se la vostra maggior
voglia sazia
tosto divegna, sì che 'l ciel v'alberghi
ch'è pien d'amore e più ampio si spazia, |
|
61 |
Ma possa essere presto
appagato il vostro maggior desiderio, cosicché vi
accolga l'Empireo, il cielo che è pieno di amore e che
racchiude tutti gli altri cieli, |
64 |
ditemi, acciò ch'ancor
carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a' vostri terghi». |
|
64 |
ditemi (in nome di questo
augurio), affinché anche di questo io possa scrivere,
chi siete voi, e chi è quella schiera che procede in
direzione opposta alle vostre spalle». |
67 |
Non altrimenti stupido si
turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico s'inurba, |
|
67 |
Come (non altrimenti) si
confonde stupefatto il montanaro, e meravigliandosi
ammutolisce, quando rozzo e selvatico entra in città, |
70 |
che ciascun' ombra fece in
sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor tosto s'attuta, |
|
70 |
allo stesso modo fece
ciascuna anima nel suo aspetto; ma dopo che si furono
liberate dallo stupore, il quale negli animi elevati
presto si attutisce (s'attuta: perché subentra la
riflessione), |
73 |
«Beato te, che de le nostre
marche»,
ricominciò colei che pria m'inchiese,
«per morir meglio, esperïenza imbarche! |
|
73 |
«Beato te» ricominciò
l'anima che prima mi aveva interrogato, «che per morire
in grazia di Dio (per morir meglio), fai esperienza del
nostro mondo! |
76 |
La gente che non vien con
noi, offese
di ciò per che già Cesar, trïunfando,
"Regina" contra sé chiamar s'intese: |
|
76 |
Le anime che camminano in
direzione opposta alla nostra, hanno offeso (Dio) con il
peccato per il quale Cesare una volta, mentre celebrava
il trionfo, si sentì ironicamente chiamare regina: |
|
Guido Guinizelli presenta il secondo gruppo dei
lussuriosi, coloro che si macchiarono del peccato di
sodomia, peccato che alcune fonti storiche (Svetonio -
Vitae Caesarum 49; e, come fonte diretta di Dante,
Uguccione da Pisa nelle Magnae Derivationes)
attribuiscono anche a Caio Giulio Cesare. Questo fu
accusato di aver avuto rapporti contro natura con
Nicomede, re di Bitinia (da ciò deriva l'espressione del
verso 78: regina), e mentre celebrava il trionfo
militare dopo la spedizione vittoriosa in Gallia fu
schernito dai suoi stessi soldati. |
79 |
però si parton "Soddoma"
gridando,
rimproverando a sé com' hai udito,
e aiutan l'arsura vergognando. |
|
79 |
per tale peccato si
allontanano da noi gridando "Sodoma", rimproverando se
stessi, come hai udito, e con la vergogna completano
l'opera purificatrice della fiamma. |
82 |
Nostro peccato fu
ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l'appetito, |
|
82 |
Il nostro peccato invece
avvenne tra persone di sesso diverso; ma poiché (pur non
peccando contro natura) non osservammo la legge della
ragione (umana legge: la norma alla quale deve attenersi
l'uomo in quanto essere razionale e perciò obbligato a
frenare gli istinti), abbandonandoci all'istinto come le
bestie, |
85 |
in obbrobrio di noi, per
noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge. |
|
85 |
a nostro obbrobrio,
gridiamo, quando ci allontaniamo dall'altra schiera, il
nome di Pasifae, colei che si fece bestia nel legno
fatto in forma di bestia. |
|
Dante nel verso 82 ha trasformato in aggettivo il nome
di Ermafrodito, figlio di Mercurio e di Venere, il
quale, innamoratosi della ninfa Salmace, si unì a lei
formando un solo corpo con i caratteri dei due sessi (cfr.
Ovidio Metamorfosi IV, versi 288 sgg.). |
88 |
Or sai nostri atti e di che
fummo rei:
se forse a nome vuo' saper chi semo,
tempo non è di dire, e non saprei. |
|
88 |
Ora puoi capire il nostro
comportamento qui e il peccato di cui ci macchiammo: se
vuoi forse sapere chi siamo con l'indicazione del nostro
nome, non è il momento opportuno per farlo, né saprei
indicarti i miei compagni. |
91 |
Farotti ben di me volere
scemo:
son Guido Guinizzelli, e già mi purgo
per ben dolermi prima ch'a lo stremo». |
|
91 |
Placherò ben volentieri il
tuo desiderio (farotti ben... volere scemo) riguardo a
me: sono Guido Guinizelli; e (benché sia morto non molti
anni fa) mi trovo già a purificarmi nel purgatorio vero
e proprio, per essermi pentito prima di giungere al
momento estremo della vita. |
|
Guido Guinizelli nacque dalla nobile famiglia bolognese
dei Principi fra il 1230 e il 1240 e morì nel 1276. Può
essere considerato l'iniziatore del dolce stil novo, del
quale fu il massimo esponente prima di Guido Cavalcanti.
La sua composizione più famosa, "Al cor gentil repara
sempre Amore", apre una nuova strada e nell'uso della
lingua volgare e nella concezione dell'amore che
presuppone la nobiltà dell'animo. Dante lo considerò
come il suo maestro nella poesia amorosa, definendolo
"saggio" nel sonetto "Amor e 'l cor gentil" della Vita
Nova (XX), "nobile" nel Convivio (IV, XX, 7) ,
"grandissimo" nel De Vulgari Eloquentia (I, XV, 6). Lo
pone, tuttavia, nella cornice dei lussuriosi per
sottolineare la presenza nella sua poesia amorosa di
elementi sensualistici, presenza "ch'è pur nella poesia
d'amore dantesca anteriore alla Commedia, e di cui
Dante, patendo fisicamente lo stesso fuoco del
Guinizelli e del provenzale Arnaldo, fa qui la «purga»:
letteraria e dottrinale" (Mattalia). |
94 |
Quali ne la tristizia di
Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec' io, ma non a tanto insurgo, |
|
94 |
Nello stesso stato d'animo
in cui si trovarono nell'episodio di dolore e di ira di
Licurgo i due figli quando videro la madre, mi trovai
io, ma non osai buttarmi tra le fiamme, |
97 |
quand' io odo nomar sé
stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d'amore usar dolci e leggiadre; |
|
97 |
allorché udii
pronunciare il suo nome da Guido, padre (nel campo
poetico) mio e degli altri rimatori migliori di me che
scrissero versi d'amore dolci ed eleganti; |
|
Stazio nella Tebaide racconta che Isifile, diventata
schiava di Licurgo, re di Nemea, e incaricata di
custodirne il figlioletto, abbandonò quest'ultimo
sull'erba per mostrare ai Greci assetati la fonte Langia
(cfr. Purgatorio XXII, 112); ma un serpente morse il
bambino uccidendolo. Isifile venne condannata a morte:
mentre era già nelle mani dei carnefici, venne
riconosciuta dai figli Toante ed Euneo, che si
slanciarono tra i soldati, raggiungendo la madre e
portandola in salvo. Dante paragona l'intensità del
desiderio che lo spinge ad entrare nel fuoco per
abbracciare Guido all'impeto di affetto con il quale i
giovani corsero verso la madre. |
100 |
e sanza udire e dir pensoso
andai
lunga fïata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più m'appressai. |
|
100 |
e senza udire
e parlare procedetti pensoso osservando a lungo Guido,
e, a causa del fuoco, non mi avvicinai di più a lui. |
103 |
Poi che di riguardar
pasciuto fui,
tutto m'offersi pronto al suo servigio
con l'affermar che fa credere altrui. |
|
103 |
Quando fui pago di
guardarlo, mi dichiarai tutto pronto a soddisfare le sue
richieste con l'affermazione alla quale tutti credono
(cioè mediante il giuramento). |
106 |
Ed elli a me: «Tu lasci tal
vestigio,
per quel ch'i' odo, in me, e tanto chiaro,
che Letè nol può tòrre né far bigio. |
|
106 |
Ed egli a me: «Tu lasci
dentro di me, per quello che ho udito (cfr. versi
55-60), una impronta così profonda e così luminosa, che
il Letè (il fiume dell'oblio: cfr. canto XXVIII,
127-128) non la potrà cancellare né oscurare. |
109 |
Ma se le tue parole or ver
giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d'avermi caro». |
|
109 |
Ma se le tue parole poco
fa mi hanno giurato il vero, dimmi quale è il motivo per
il quale tu dimostri nelle parole e nello sguardo di
avermi caro». |
112 |
E io a lui: «Li dolci detti
vostri,
che, quanto durerà l'uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri». |
|
112 |
Ed io a lui: «Le vostre
dolci rime, che, finché durerà l'uso di poetare in
volgare (quanto durerà l'uso moderno), renderanno
preziosi anche i loro inchiostri». |
|
L'affermazione contenuta nel verso 113 è chiarita da un
passo della Vita Nova (XXV, 4), dove Dante osserva che
"non è molto numero d'anni passati, che appariro prima
questi poete volgari", i quali sostituirono ali uso
della lingua latina quello del volgare, conferendo
dignità letteraria all'idioma adoperato nella vita
quotidiana, al parlar materno (verso 117) , che si
impara dalla bocca della madre, di contro ai latino
imparato sui testi. |
115 |
«O frate», disse, «questi
ch'io ti cerno
col dito», e additò un spirto innanzi,
«fu miglior fabbro del parlar materno. |
|
115 |
«O fratello», disse, «questo che ti
indico con il dito», e additò uno spirito davanti, «fu
migliore artefice nell'uso della sua lingua materna. |
|
Colui che, secondo il Guinizelli, fu miglior poeta nella
sua lingua - il provenzale - di quanto il Guinizelli
stesso lo fosse nella sua - l'italiano - è Arnaldo
Daniello (Arnaut Daniel), uno dei più grandi trovatori
provenzali, vissuto nella seconda metà del secolo XII.
Dante dimostrò per lui una grande ammirazione, tanto da
imitarlo nelle Rime petrose e da lodarlo in diversi
passi del De Vulgari Eloquentia (II, II, 9; VI, 6; X, 2;
XIII, 2) per l'impegno dell'argomento amoroso e la
raffinatezza stilistica. Nei versi 115-117 Dante ammette
esplicitamente, attraverso le parole stesse del
Guinizelli, che il poeta bolognese "rinnovò la poesia
italiana mettendosi sulla strada aperta dal Daniello,
tanto nel campo della tecnica propriamente detta, quanto
dell'affinamento linguistico e stilistico" (Mattalia). |
118 |
Versi d'amore e prose di
romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch'avanzi. |
|
118 |
Fu superiore a tutti coloro che
scrissero poesie, prose in volgare non badare agli
sciocchi i quali affermano che è superiore il poeta del
Limosino. |
|
I versi d'amore sono le liriche amorose in lingua
provenzale e italiano le prose di romanzi sono le
narrazioni di amori e di avventure che caratterizzarono
la letteratura in lingua d'oil, in modo particolare il
ciclo brettone. Quel di Lemosì è Girardo (Giraud di
Bornelh, poeta provenzale nato a Limosino nella seconda
metà del secolo XII e definito da Dante il canto della
rettitudine in un passo del De Vulgari Eloquenyia (II,
II, 9). Il suo stile, in confronto a quello prezioso
elaborato e complesso del Daniello, appare più semplice
e viene giudica negativamente da Dante, di contro ad una
diffusa opinione del tempo, che esaltava Girardo come il
più grande dei trovatori. |
121 |
A voce più ch'al ver
drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti. |
|
121 |
(Questi stolti) prestano
attenzione a quello che si sente dire più che a quello
che è realmente, e così formano la loro opinione prima
di ascoltare gli argomenti dell'arte o della ragione. |
124 |
Così fer molti antichi di
Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l'ha vinto il ver con più persone. |
|
124 |
Così fecero molti della
passata generazione letteraria a proposito di Guittone,
dando onore soltanto a lui col ripetere di bocca in
bocca lo stesso giudizio, finché ha annullato il suo
nome il retto giudizio di molti letterati (con più
persone che hanno ascoltato la voce dell'arte o della
ragion). |
|
Per la figura di Guittone del Viva di Arezzo cfr. la
nota al canto XXIV, versi 56-57. Dante, che ha riaperto
nei versi 119-120 la vecchia polemica tra Arnaut Daniel
e Giraut de Bornelh, risolvendola in favore del primo
per la raffinatezza del linguaggio, ripropone ora, nei
versi 124-126, il duro giudizio formulato nel De Vulgari
Eloquentia (II, VI, 8) e nella Commedia (cfr. Purgatorio
XXIV, 55-62) contro Guittone e i suoi imitatori in nome
della superiorità del dolce stil novo. Egli rimprovera
il poeta aretino e i suoi seguaci di essere rimasti
legati al rozzo linguaggio plebeo, respingendo l'uso del
volgare nelle sue forme più eleganti, quale veniva
praticato nella nuova poesia.
Contrapponendosi ad una opinione espressa dal Momigliano
- secondo il quale in questa parte dell'episodio, che ha
per protagonista l'iniziatore della corrente letteraria
del dolce stil novo "l'interesse di Dante non è poetico
ma letterario, polemico: press'a poco come nell'episodio
di Bonaggiunta" , il Roncaglia rileva che ivi "piuttosto
che dal lato dell'« interesse letterario », il rischio
per la poesia si profila, semmai, proprio dal lato
dell'autobiografismo", e ricorda in proposito i pareri
formulati dal Torraca ("io sento qui ribollire i
rimasugli dei vecchi rancori") e dal Crescini ("Dante
perde la pazienza, si abbandona, senza ritegno, alle
focose sue predilezioni"). "Ma - aggiunge il critico -
la passionalità autobiografica, rilevata da questi
giudizi, è mediata dalla fede nella validità assoluta
della propria esperienza, onde si trasforma nella
contemplazione d'una verità già sofferta, ora posseduta
fuori d'ogni contingenza... Il ricordo delle emozioni
estetiche provate, e delle certezze intellettuali che ne
scaturirono è troppo appassionato per essere « critica»;
ma nello stesso tempo è sollevato, attraverso la
mediazione d'una matura coscienza critica, su un piano
troppo assoluto per essere autobiografia»." |
127 |
Or se tu hai sì ampio
privilegio,
che licito ti sia l'andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio, |
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127 |
Ora se tu godi di un così
ampio privilegio, che ti è permesso entrare nel paradiso
(chiostro che racchiude i beati, come in terra il
chiostro racchiude coloro che si dedicano alla vita
religiosa) nel quale Cristo è il capo della comunità
(abate del collegio), |
130 |
falli per me un dir d'un
paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro». |
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130 |
recita davanti a Lui per
me un Pater noster, quel tanto che occorre a noi anime
del purgatorio, dove non siamo più soggette alla
possibilità di peccare (e perciò bisogna sopprimere
l'espressione finale "e non ci indurre in tentazione").» |
133 |
Poi, forse per dar luogo
altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l'acqua il pesce andando al fondo. |
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133 |
Poi, forse per dare luogo
a un altro dopo di lui che gli stava vicino, scomparve
nel fuoco, come scompare nell'acqua il pesce che si
dirige verso il fondo. |
136 |
Io mi fei al mostrato
innanzi un poco,
e dissi ch'al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco. |
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136 |
Io mi avanzai un poco
verso lo spirito che mi era stato indicato (al mostrato:
cfr. versi 115-116) , e dissi che il desiderio di
conoscerlo preparava (nella mia anima) una grata
accoglienza al suo nome. |
139 |
El cominciò liberamente a
dire:
«Tan m'abellis vostre cortes deman,
qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. |
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139 |
Egli cominciò a dire senza
farsi pregare (liberamente): «Tanto mi è cara la vostra
cortese domanda, che io non mi posso né voglio
nascondermi a voi. |
142 |
Ieu sui Arnaut, que plor e
vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu'esper, denan. |
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142 |
Io sono Arnaldo, che
piango e vado cantando; pensoso contemplo la passata
follia e vedo gioendo, davanti a me, il giorno che
spero. |
145 |
Ara vos prec, per aquella
valor
que vos guida al som de l'escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!». |
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145 |
Ora vi prego, per quella
virtù (cioè Dio) che vi conduce al sommo della scala
(del purgatorio), vi sovvenga a tempo del mio dolore!» |
148 |
Poi s'ascose nel foco che
li affina. |
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148 |
Poi si nascose nel fuoco
che li purifica. |
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Arnaldo Daniello ha parlato in provenzale, dandoci
l'unico brano in lingua straniera, ad eccezione di brevi
espressioni in latino, contenuto nelle tre cantiche;
esso è anche "un documento di familiare consuetudine [da
parte di Dante] col provenzale" (Mattalia).
L'energia delle immagini penitenziali le quali, a
partire dalla conclusione del canto precedente, hanno
suggerito il paesaggio di fiamme della cornice dei
lussuriosi, e hanno portato agli effetti di potente
drammaticità caratterizzanti il sopragridar degli esempi
di lussuria punita (versi 37-42), si attenua
gradatamente, attraverso il filtro di care memorie, nel
dialogo con Guido Guinizelli, onde la sparizione di
questo spirito nelle fiamme purificatrici (versi
134-135) è resa attraverso un'espressione la quale
"allontana l'immagine del muro di fuoco e vi sostituisce
il velo muto e tranquillo dell'acqua" (Momigliano) . A
sua volta il discorso di Arnaldo Daniello, nel quale
"non è da vedere un tratto di verismo linguistico; ma
piuttosto un gusto di suggestione musicale simile a
quello d'un compositore moderno che inserisca nella
propria musica modi arcaici, ad esempio, di gregoriano"
(Roncaglia), smorza ulteriormente lo spettacolare ed
apocalittico tono derivante alla prima parte del canto
dal divampare del fuoco - simbolo al tempo stesso della
violenza della passione amorosa e di una rigenerazione
totale - nell'ultimo girone del purgatorio. Ogni
asperità di dramma è come riassorbita nell'accettazione
serena ed appassionata del proprio martirio da parte
dell'anima del trovatore provenzale. |