1 |
'Deus,
venerunt gentes', alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando; |
|
1 |
Le sette donne (le virtù cardinali e
quelle teologali), piangendo, cominciarono dolcemente a
cantare, alternandosi ora il gruppo delle tre ora quello
delle quattro, i versetti del salmo "O Dio, invaso hanno
le genti (il tuo possesso)": |
|
Nel Salmo LXXIX, che le sette virtù iniziano a cantare,
si piange la distruzione del tempio e della città di
Gerusalemme ad opera dei Caldei e si invoca la vendetta
di Dio e il suo intervento liberatore. Perciò il canto
di questo Salmo è il più adatto per commentare le tristi
vicende della Chiesa, che il Poeta ha presentato nel
canto precedente, e per preannunciare il vaticinio di
Beatrice (versi 34-51) , nel quale appare prossimo
l'intervento di un vendicatore e di un liberatore dei
mali della Chiesa e dell'Impero. |
4 |
e Bëatrice,
sospirosa e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria. |
|
4 |
e Beatrice, sospirando
piena di pietà, le ascoltava con aspetto tale, che Maria
ai piedi della croce si sbiancò in volto poco più di
lei. |
7 |
Ma poi che
l'altre vergini dier loco
a lei di dir, levata dritta in pè,
rispuose, colorata come foco: |
|
7 |
Ma quando le altre giovani
donne (finito il canto) le diedero la possibilità di
parlare, levatasi in piedi, divenuta in volto del colore
del fuoco, rispose: |
10 |
'Modicum, et
non videbitis me;
et iterum, sorelle mie dilette,
modicum, et vos videbitis me'. |
|
10 |
"Ancora un poco, e più non
mi vedrete: e un altro poco poi mi vedrete di nuovo, o
mie dilette sorelle". |
|
Con queste parole Gesù, nel Vangelo di Giovanni (XVI,
16), annuncia ai discepoli la sua morte e la sua
risurrezione. Il fatto che sia Beatrice a pronunciarle è
stato dalla maggior parte dei critici spiegato come un
accenno al trasferimento della sede papale da Roma ad
Avignone (1305) e come un presagio del suo ritorno nella
città di Pietro, ritorno che coinciderà con un
rinnovamento morale della Chiesa. |
13 |
Poi le si
mise innanzi tutte e sette,
e dopo sé, solo accennando, mosse
me e la donna e 'l savio che ristette. |
|
13 |
Poi le dispose davanti a sé tutte e sette, e dietro di
sé, solo con un cenno, fece muovere me e Matelda e il
savio (Stazio) che (alla partenza di Virgilio) era
rimasto con noi. |
16 |
Così sen
giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse; |
|
16 |
Così procedeva; ma non
credo avesse fatto dieci passi (che fosse lo decimo suo
passo in terra posto), quando ferì i miei occhi con il
fulgore dei suoi; |
|
L'allusione ai passi di Beatrice potrebbe rivestire, in
questo momento, un valore allegorico in rapporto con le
parole da lei pronunciate nei versi 10-12. Essi
potrebbero indicare i comandamenti violati dai
responsabili del decadimento morale della Chiesa,
oppure, secondo il Parodi, potrebbero significare che
"non passeranno dieci anni dalla data della traslazione
della sede pontificia, che si compirà la riforma della
Chiesa e il ritorno dei papi a Roma". |
19 |
e con
tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
mi disse, «tanto che, s'io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto». |
|
19 |
e con aspetto
sereno mi disse: «Vieni più in fretta (più tosto), in
modo che, se io ti parlo, tu (stando al mio fianco)
abbia la possibilità di udirmi bene». |
22 |
Sì com' io
fui, com' io dovëa, seco,
dissemi: «Frate, perché non t'attenti
a domandarmi omai venendo meco?». |
|
22 |
Non appena io le fui accanto, com'era mio dovere (dopo
l'invito), mi disse: «Fratello, perché ora che vieni con
me non osi pormi alcuna domanda?» |
25 |
Come a color
che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti, |
|
25 |
Come avviene a coloro i quali parlando davanti ai loro
superiori sono dominati da un eccessivo senso di
soggezione, per cui non riescono ad emettere chiaramente
la voce, |
28 |
avvenne a
me, che sanza intero suono
incominciai: «Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch'ad essa è buono». |
|
28 |
cosi accadde a me, che
incominciai ( a parlare), ma senza articolare
distintamente i suoni «Madonna, voi conoscete la mia
necessità, e quello che mi serve per soddisfarla». |
31 |
Ed ella a
me: «Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com' om che sogna. |
|
31 |
Ed ella mi rispose: «Io
voglio che ormai ti liberi dal timore e dalla vergogna,
in modo che non parli più (in modo confuso) come uno che
sta sognando. |
34 |
Sappi che 'l
vaso che 'l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe. |
|
34 |
Sappi che il carro colpito
dal drago è stato (un tempo) come doveva essere, ma ora
non è più tale; però coloro i quali sono colpevoli di
questo stato di cose (il gigante e la meretrice), siano
certi che la vendetta di Dio non teme prescrizioni. |
|
Rifacendosi ad una espressione dell'Apocalisse (XVII, 8:
"La bestia che hai veduta, era, ma già non è più"),
Dante, attraverso le dure parole di Beatrice, afferma
che la Chiesa, un tempo fu salda nella sua libertà e
pura nelle sue virtù morali, ora quasi non esiste più
(non è), dopo essersi corrotta e asservita alla corona
di Francia. Chi n'ha colpa potrebbe essere un pontefice
(in questo caso Bonifacio VIII o Clemente V), oppure,
come annota il Mattalia, molto attento nei rilievi di
carattere storico-allegorico, l'espressione potrebbe
alludere a una responsabilità duplice (del pontefice e
di Filippo il Bello), per cui introdurrebbe "il pensiero
più audace: una « renovatio imperii » [rinnovamento
dell'Impero] esser necessaria alla libertà e alla
rigenerazione della Chiesa, nonché alla sua liberazione
da eventuali asservimenti politici o temporalistici". Il
termine suppe è riferito dagli antichi commentatori ad
una usanza caratteristica di Firenze, in base alla quale
l'omicida che entro nove giorni dal suo reato fosse
riuscito a mangiare una zuppa sulla tomba dell'ucciso,
si sarebbe sottratto alla vendetta dei parenti della
vittima e alla condanna del comune. Per il Torraca,
invece, «suppa» (o « subba », « zubba », « iuppa ») è un
termine del linguaggio statutario del '200, indicante la
corazza. Quindi il verso 36 significherebbe: la vendetta
di Dio non teme nessun ostacolo che le si possa opporre. |
37 |
Non sarà
tutto tempo sanza reda
l'aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda; |
|
37 |
L'aquila che lasciò le sue penne nel
carro, per cui quello si trasformò in mostro e poi
(divenne) preda del gigante, non rimarrà per sempre
senza erede; |
|
È ormai prossimo il tempo nel quale l'aquila - cioè
l'Impero - avrà il suo legittimo erede. Infatti
l'Impero, secondo Dante, è rimasto vacante dalla morte
di Federico II, "ultimo imperadore de li Romani"
(Convivio IV, III, 6), fino alla incoronazione di Arrigo
VII (1312), perché dopo il 1250 nessun imperatore scese
in Italia per cingere la corona imperiale e per
occuparsi della sorte del giardin dello 'mperio
(Purgatorio VI, verso 105: un accenno al trono imperiale
vacante è nello stesso canto, verso 89). |
40 |
ch'io veggio
certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d'ogn' intoppo e d'ogne sbarro, |
|
40 |
poiché vedo con certezza,
e perciò lo rivelo, che sono già prossime a sorgere
quelle stelle le quali, libere da ogni contrasto e
impedimento, ci recheranno (con i loro influssi) un
tempo, |
43 |
nel quale un
cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque. |
|
43 |
nel quale un inviato da
Dio, il cui nome sarà formato dai numeri cinquecento
dieci e cinque, ucciderà la meretrice ladra insieme al
gigante che pecca con lei. |
|
La missione profetica di Beatrice acquista in queste due
terzine una potenza di sintesi assoluta. La sua
onniveggenza non ammette perplessità (veggio
certamente), e il futuro si dispiega ai suoi occhi con
la forza del presente, per cui i fatti non sono visti in
un confuso e lontano svolgimento, ma nel loro
attualizzarsi immediato (e però il narro). L'influsso
dei cieli, ai quali nessun ostacolo si può opporre,
perché essi sono esecutori della volontà divina, sta
preparando il messo di Dio.
Quest'ultimo è sicuramente un imperatore (l'erede
dell'aquila, come è detto nei versi 37-38), il cui
compito consisterà nel distruggere il potere temporale
della Chiesa, potere che questa ha sottratto (fuia)
all'Impero, e nell'impedire che l'autorità
dell'imperatore (quel gigante che con lei delinque) esca
dai limiti ad essa assegnati, per asservire a sé la
Curia romana. È facile identificare nel messo la figura
di Arrigo VII, perché (cfr. Epistola VII) Dante in lui
riponeva tutte le sue speranze per una rinascita
dell'Impero, la quale sarebbe potuta avvenire solo se
Arrigo avesse distrutto la monarchia francese e
restituito al Papato la sua libertà, secondo le
affermazioni contenute nella lettera sopra citata.
Alcuni interpreti, invece, hanno preferito sostituire ad
Arrigo VII la figura di Cangrande della Scala,
riportandosi alla famosa profezia del Paradiso (canto
XVII, 76-93), riguardante il signore di Verona.
Appare evidente, inoltre, nel messo un accenno al Veltro
preannunziato da Virgilio nel canto I dell'Inferno
(versi 101-105).
II verso 43 ha messo alla prova l'ingegnosità degli
interpreti antichi e moderni, perché esso è costruito
secondo lo stile oscuro delle profezie e degli enimmi,
che il mondo medievale ha prodotto in gran numero (basti
pensare, ad esempio, alla diffusione degli scritti
profetici di Gioacchino da Fiore). L'indicazione
numerica, tuttavia, deriva dall'Apocalisse (XIII, 18),
dove il personaggio simboleggiato dal mostro è così
presentato: "il suo numero è seicentosessantasei". I
commentatori antichi hanno tradotto la serie del verso
43 in numeri romani: DXV, e hanno ricavato, con lo
spostamento di una lettera, la parola DVX ("duce ",
"capitano"). Questa interpretazione si presenta come la
più probabile. Esistono però altre proposte di lettura
della parola DXV: le tre lettere sarebbero le iniziali
di Domini Xristi Vertagus (Veltro di Cristo), oppure di
Domini Xrisfi Vicarius (Vicario di Cristo, con
riferimento al papa), oppure di Dante Xristi Vertagus
(Dante Veltro di Cristo). |
46 |
E forse che
la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch' a lor modo lo 'ntelletto attuia; |
|
46 |
E forse la mia predizione oscura, come
gli oracoli di Temi e gli enigmi della Sfinge, ha poca
forza di persuasione, perché alla loro maniera chiude il
tuo intelletto (non lasciandovi trapelare il significato
di ciò che dico); |
|
Temi, figlia di Urano e della Terra, era dotata di
spirito profetico, che si manifesta in responsi dal
significato oscuro; Ovidio ricorda la misteriosa
risposta data da Temi a Deucalione e Pirra dopo il
diluvio, e spiegata da Prometeo (Metamorfosi I,
367-415).
La Sfinge, mitico mostro nato da Tifone e da Chimera,
uccideva tutti i viandanti diretti a Tebe se si
mostravano incapaci di spiegare un enimma da lei
proposto. Edipo infine ne trovò la soluzione (Ovidio -
Metamorfosi VII, 759 sgg.; Stazio - Tebaide I, 66-67). |
49 |
ma tosto
fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade. |
|
49 |
ma presto i fatti saranno le Naiadi che
scioglieranno questo difficile enigma senza arrecare
danno al bestiame e alle coltivazioni. |
|
Dopo la soluzione del suo enigma la Sfinge si uccise e
Temi, per vendicarne la morte, mandò contro i Tebani una
famelica fiera che devastò i loro campi e fece strage
delle loro greggi. Nel verso 49 Dante intende riportarsi
alle parole di Ovidio "carmina Laiades non intellecta
priorum solverat ingeniis" (Metamorfosi VII, 759) : "il
figlio di Laio aveva sciolto con la forza del suo
ingegno l'enigma che fino allora non era stato
compreso", dove il figlio di Laio è Edipo. Tuttavia in
molti codici medievali la forma Laiades si era corrotta
in Naiades, e Dante, accogliendo quest'ultima lezione,
crede che siano state le Naiadi (ninfe delle acque
terrestri, dotate di spirito profetico) a risolvere l'oscurissimo
indovinello della Sfinge. |
52 |
Tu nota; e
sì come da me son porte,
così queste parole segna a' vivi
del viver ch'è un correre a la morte. |
|
52 |
Prendi nota (di questo
nella tua memoria); e nel modo in cui sono state dette
da me, scrivi queste parole per gli uomini, la cui vita
è una corsa verso la morte. |
55 |
E aggi a
mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch'è or due volte dirubata quivi. |
|
55 |
E ricordati, quando le
scriverai, di non nascondere in quali condizioni hai
visto questa pianta che qui ora è derubata per la
seconda volta. |
|
Il verso 57 ha dato origine a una grande incertezza
interpretativa, perché secondo alcuni la duplice
spogliazione della pianta fu opera di Adamo con il suo
peccato, e del gigante che staccò il carro dall'albero e
lo trascinò nella selva (XXXII, versi 157-158) : secondo
altri di Adamo e dell'aquila nella sua prima, violenta
discesa (XXXII, versi 112-117). Tuttavia la maggior
parte degli interpreti moderni accetta la spiegazione
fornita dal Buti: "l'una volta quando l'aquila si calò
rompendo le foglie e li fiori e la scorza, e l'altra
volta quando lo gigante disciolse il carro e menosselo
via.". |
58 |
Qualunque
ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l'uso suo la creò santa. |
|
58 |
Chiunque deruba questa
pianta o la schianta, con un sacrilegio offende Dio, che
la creò inviolabile perché servisse solo ai suoi fini. |
61 |
Per morder
quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l'anima prima
bramò colui che 'l morso in sé punio. |
|
61 |
Per aver morso il frutto
di quella pianta, l'anima del primo uomo, penando in
vita e rimanendo esule nel limbo, per cinquemila e più
anni bramò Cristo, colui che punì in se stesso (con il
suo sacrificio) la colpa di quel morso. |
|
La venuta di Cristo, che con il suo sacrificio riscattò
il peccato di origine, fu attesa più di cinquemila anni
da Adamo: 930 anni durò la sua vita in terra (Genesi V,
5) e 4302 la sua permanenza nel limbo (cfr. anche
Paradiso XXVI, 119-120). La cronologia seguita da Dante
è quella tracciata da Eusebio, il famoso storiografo
cristiano vissuto fra la seconda metà del III secolo e
la prima del IV. |
64 |
Dorme lo 'ngegno
tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima. |
|
64 |
Il tuo ingegno
dimostrerebbe poca acutezza, se non capisse che questa
pianta è stata creata tanto alta e con la chioma così
capovolta (travolta, perché si dilata verso l'alto,
invece di restringersi) per una ragione eccezionale. |
67 |
E se stati
non fossero acqua d'Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa, |
|
67 |
E se i pensieri mondani
non avessero circondato la tua mente di incrostazioni
come fa l'acqua del fiume Elsa, e se il diletto offerto
da questi pensieri non avesse macchiato (il tuo
intelletto) come il sangue di Piramo macchiò i frutti
del gelso, |
70 |
per tante
circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l'interdetto,
conosceresti a l'arbor moralmente. |
|
70 |
anche solo per queste
singolari circostanze (per l'altezza e la forma della
pianta) riconosceresti dall'albero, considerandolo nel
suo significato morale, la giustizia di Dio, che si
esprime nel divieto (di toccarlo). |
|
L'acqua del fiume Elsa, affluente dell'Arno, era famosa
in quel tempo perché, ricca di carbonato di calcio,
provocava fenomeni di deposito e di incrostazione.
Nel verso 69 Dante ricorda che Piramo, allorché si
uccise, macchiò con il suo sangue i frutti del gelso,
cambiando il loro colore da bianco in vermiglio (cfr.
Purgatorio XXVII, 37-39). |
73 |
Ma perch' io
veggio te ne lo 'ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t'abbaglia il lume del mio detto, |
|
73 |
Ma poiché vedo che la tua
mente si è pietrificata, e, oltre che pietrificata,
anche ottenebrata, a tal punto che la luce di verità
delle mie parole ti abbaglia, |
76 |
voglio anco,
e se non scritto, almen dipinto,
che 'l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto». |
|
76 |
voglio, ciò nonostante,
che porti dentro di te il mio discorso, se non scolpito
nitidamente, almeno adombrato nelle immagini, per lo
stesso motivo per il quale chi ritorna (dalla Terrasanta)
porta (come ricordo) il bastone da pellegrino cinto di
foglie di palma». |
79 |
E io: «Sì
come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello. |
|
79 |
Ed io a lei: «Ora il mio
intelletto è segnato dalle vostre parole, come è segnata
dal sigillo la cera, la quale non altera la figura
impressa. |
82 |
Ma perché
tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s'aiuta?». |
|
82 |
Ma perché la vostra
desiderata parola si innalza tanto al di sopra delle mie
capacità intellettive, che quanto più queste si sforzano
di comprenderla tanto più essa sfugge loro?» |
85 |
«Perché
conoschi», disse, «quella scuola
c'hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola; |
|
85 |
Rispose: «(Questo avviene)
perché tu conosca bene la dottrina da te finora seguita,
e possa costatare come i suoi insegnamenti male riescano
a penetrare la mia parola, |
88 |
e veggi
vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina». |
|
88 |
e veda come la vostra via
(la scienza umana) dista tanto da quella di Dio, quanto
è distante dalla terra il cielo che più è veloce nel suo
giro». |
|
Il Barbi limita il rimprovero di Beatrice all'eccessivo
amore da Dante nutrito verso i beni terreni, verso "la
povera sapienza del mondo", ma questa posizione non
tiene conto che Beatrice è anche simbolo della verità
rivelata e che, quindi, le sue parole non possono non
ribadire i limiti del sapere filosofico, quando questo
vuole risolvere da solo i problemi che urgono allo
spirito umano. Siamo - osserva il Mattalia - "di fronte
al grosso problema dei rapporti fra Teologia e Filosofia
e Scienze (nel senso moderno dei termini), problema che
la diffusione dell'averroismo o più largamente,
dell'aristotelismo nella cultura cristiana, aveva reso
urgente e dibattuto".
Il ciel che più alto festina è il Primo Mobile, l'ultimo
e il più alto dei nove cieli fisici, il quale ruota più
velocemente per il fatto che è il più vicino a Dio e
quindi avverte una maggiore. |
91 |
Ond' io
rispuosi lei: «Non mi ricorda
ch'i' stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda». |
|
91 |
Per cui io
le risposi: «Non ricordo di essermi allontanato mai da
voi, né di tale colpa la coscienza mi rimorde». |
94 |
«E se tu
ricordar non te ne puoi»,
sorridendo rispuose, «or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi; |
|
94 |
Soggiunse sorridendo: «E
se non te ne puoi ricordare, ora rammentati come proprio
oggi hai bevuto l'acqua del Letè (che elimina ogni
memoria del peccato) |
97 |
e se dal
fummo foco s'argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta. |
|
97 |
e se dalla
presenza del fumo si deduce la presenza del fuoco,
questo tuo oblio dimostra chiaramente l'esistenza della
colpa nella tua volontà che (nel passato) si è rivolta
altrove (anziché a me). |
100 |
Veramente
oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude». |
|
100 |
Ma d'ora in
poi le mie parole saranno semplici, nella misura in cui
sarà necessario renderle accessibili alla tua
intelligenza ancora inesperta (nel penetrare il
significato di ciò che dico)». |
103 |
E più
corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi, |
|
103 |
E il sole diventato più
fulgido e più lento percorreva il meridiano del
mezzogiorno, che si sposta qua e là, a seconda della
posizione di chi osserva, |
|
Il sole, giunto sul meridiano, appare più luminoso (corusco)
perché i suoi raggi battono quasi perpendicolarmente, e
più lento nel suo corso per una illusione ottica (cfr.
Paradiso XXIII, versi 11-12). |
106 |
quando s'affisser,
sì come s'affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge, |
|
106 |
quando si fermarono così
come si ferma chi precede come guida un gruppo di
persone se scorge qualche novità o qualche traccia di
novità, |
109 |
le sette
donne al fin d'un'ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l'alpe porta. |
|
109 |
le sette donne ai margini
di una zona d'ombra attenuata (smorta, rispetto a quella
cupa della selva), simile a quella che l'alta montagna
stende sotto il verde fogliame e gli scuri rami sui
freddi ruscelli. |
112 |
Dinanzi ad
esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d'una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri. |
|
112 |
Davanti ad esse mi parve
di vedere l'Eufrate e il Tigri uscire da un'unica
sorgente, e, quasi amici (dolenti di separarsi),
scorrere lentamente in direzioni opposte. |
|
Dante giunge di fronte alla sorgente dei due fiumi del
paradiso terrestre, il Letè e l'Eunoè, sulle cui
caratteristiche ha già ricevuto spiegazioni da parte di
Matelda (canto XXVIII, 121-133). I due corsi d'acqua
sono ora paragonati al Tigri e all'Eufrate, che
scaturiscono da un'unica fonte, secondo il racconto
biblico (Genesi Il, 10 e 14) .
A partire dalla terzina 103 il canto assume uno
svolgimento che sembra riportarci alle prime descrizioni
della divina foresta. Dopo l'esordio, che prospettava il
commento doloroso e drammatico alle vicende del carro
della Chiesa, e il vaticinio di Beatrice (versi 34-51) ,
svolto nelle forme solenni, oscure e minacciose con le
quali il Poeta aveva precedentemente rappresentato la
storia della Chiesa, nonché l'ulteriore investitura
profetica di Dante (versi 52-54), il saggio di
dialettica serrata e di aspra eloquenza di Beatrice
aveva messo a dura prova, per la sua inevitabile
aridità, la trama poetica, anche se sul dramma storico
si era innestato di nuovo il colloquio personale tra il
Poeta e la donna amata. Ora invece l'atmosfera si
rasserena, ricomincia a circolare nelle terzine l'aria
della gran foresta, si .riprende contatto con la radiosa
natura esterna (versi 103-105) e "il Poeta, con una di
quelle sue miracolose pennellate pittoresche delle quali
aveva il segreto, ci fa sentire e, quasi direi, vedere,
insieme col contrasto di colori (foglie verdi, rami
nigri ) il brivido della frescura alpina resa più
sensibile da quei freddi rivi, che ci ricordano i canali
freddi e molli dei ruscelletti del Casentino (Interno
XXX, verso 66)" (Cian). Anche l'immagine dei due fiumi
che si staccano e si allontanano pigramente l'uno
dall'altro, come due amici che, scambiatosi l'ultimo
addio, si incamminano, lasciandosi a malincuore, per
strade diverse, è un "altro lampo... di quella originale
poesia che Dante sapeva trarre dal profondo della sua
umanità attenta e pensosa" (Cian). |
115 |
«O luce, o
gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?». |
|
115 |
«O luce, o gloria del
genere umano, quale acqua è questa che qui sgorga da
un'unica fonte e si allontana da se stessa (dividendosi
in due corsi)?» |
118 |
Per cotal
priego detto mi fu: «Priega
Matelda che 'l ti dica». E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega, |
|
118 |
Per questa preghiera mi fu
risposto da Beatrice: «Prega Matelda che te lo dica». E
allora (prontamente), come fa chi si discolpa, rispose |
121 |
la bella
donna: «Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l'acqua di Letè non gliel nascose». |
|
121 |
la bella donna: «Queste e
altre cose gli sono già state dette da me; e sono certa
che l'acqua del Letè non gliene cancellò il ricordo». |
124 |
E Bëatrice:
«Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt' ha la mente sua ne li occhi oscura. |
|
124 |
E Beatrice: «Forse un
pensiero più urgente, che spesso priva la memoria della
facoltà di ricordare, ha oscurato la vista della sua
mente. |
127 |
Ma vedi
Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se' usa,
la tramortita sua virtù ravviva». |
|
127 |
Ma vedi l'Eunoè che si
allontana là dalla sorgente: conducilo ad esso, e come
sei solita fare, ravviva l'indebolita forza della sua
memoria». |
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Matelda deve compiere per Dante l'ultima cerimonia
liturgica del paradiso terrestre: dopo l'oblio dei
peccati donato dalle acque del Letè, occorre ravvivare -
con quelle dell'Eunoè - la memoria del bene compiuto. La
gioia che il pellegrino avverte dopo questo ultimo rito
meriterebbe di essere meglio spiegata, ma il Poeta teme
di dare all'ultimo canto uno sviluppo eccessivo rispetto
a quelli che lo precedono, venendo meno all'armonico
rapporto e alla perfetta simmetria che egli ha voluto «
ordire » nell'architettura del suo poema (versi
139-141).
Questa legge di euritmia esteriore è applicata anche
nell'ultimo verso della seconda cantica - puro e
disposto a salire alle stelle - il quale richiama, nel
momento in cui lo sguardo del Poeta sembra affissarsi
nel volto di Dio, le ultime parole dell'Inferno: e
quindi uscimmo a riveder le stelle. |
130 |
Come anima
gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa; |
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130 |
Come l'anima nobile, che
non adduce scuse, ma fa propria la volontà altrui non
appena quest'ultima si è manifestata esteriormente con
qualche segno, |
133 |
così, poi
che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui». |
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133 |
così, dopo avermi preso
per mano, la bella donna si mosse, e a Stazio con grazia
tutta femminile disse: «Vieni con lui». |
136 |
S'io avessi,
lettor, più lungo spazio
da scrivere, i' pur cantere' in parte
lo dolce ber che mai non m'avria sazio; |
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136 |
Se avessi, o lettore,
maggiore spazio per scrivere, io continuerei a cantare,
per quel tanto che è possibile, la dolcezza di quell'acqua
che non mi avrebbe mai saziato; |
139 |
ma perché
piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l'arte. |
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139 |
ma poiché le carte
destinate a questa seconda cantica sono tutte complete,
la disciplina dell'arte non mi permette di procedere
oltre. |
142 |
Io ritornai
da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda, |
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142 |
Dalle santissime acque
dell'Eunoè ritornai rinnovato come (in primavera) le
piante giovani rinverdite di fronde recenti, |
145 |
puro e
disposto a salire a le stelle. |
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145 |
purificato e pronto a
salire al cielo. |