IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

PURGATORIO

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 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI PURGATORIO CANTO XXXIII°

1 'Deus, venerunt gentes', alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando;
  1

Le sette donne (le virtù cardinali e quelle teologali), piangendo, cominciarono dolcemente a cantare, alternandosi ora il gruppo delle tre ora quello delle quattro, i versetti del salmo "O Dio, invaso hanno le genti (il tuo possesso)":

  Nel Salmo LXXIX, che le sette virtù iniziano a cantare, si piange la distruzione del tempio e della città di Gerusalemme ad opera dei Caldei e si invoca la vendetta di Dio e il suo intervento liberatore. Perciò il canto di questo Salmo è il più adatto per commentare le tristi vicende della Chiesa, che il Poeta ha presentato nel canto precedente, e per preannunciare il vaticinio di Beatrice (versi 34-51) , nel quale appare prossimo l'intervento di un vendicatore e di un liberatore dei mali della Chiesa e dell'Impero.
4 e Bëatrice, sospirosa e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria.
  4 e Beatrice, sospirando piena di pietà, le ascoltava con aspetto tale, che Maria ai piedi della croce si sbiancò in volto poco più di lei.
7 Ma poi che l'altre vergini dier loco
a lei di dir, levata dritta in pè,
rispuose, colorata come foco:
  7 Ma quando le altre giovani donne (finito il canto) le diedero la possibilità di parlare, levatasi in piedi, divenuta in volto del colore del fuoco, rispose:
10 'Modicum, et non videbitis me;
et iterum, sorelle mie dilette,
modicum, et vos videbitis me'.
  10 "Ancora un poco, e più non mi vedrete: e un altro poco poi mi vedrete di nuovo, o mie dilette sorelle".
  Con queste parole Gesù, nel Vangelo di Giovanni (XVI, 16), annuncia ai discepoli la sua morte e la sua risurrezione. Il fatto che sia Beatrice a pronunciarle è stato dalla maggior parte dei critici spiegato come un accenno al trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone (1305) e come un presagio del suo ritorno nella città di Pietro, ritorno che coinciderà con un rinnovamento morale della Chiesa.
13 Poi le si mise innanzi tutte e sette,
e dopo sé, solo accennando, mosse
me e la donna e 'l savio che ristette.
  13 Poi le dispose davanti a sé tutte e sette, e dietro di sé, solo con un cenno, fece muovere me e Matelda e il savio (Stazio) che (alla partenza di Virgilio) era rimasto con noi.
16 Così sen giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;
  16 Così procedeva; ma non credo avesse fatto dieci passi (che fosse lo decimo suo passo in terra posto), quando ferì i miei occhi con il fulgore dei suoi;
  L'allusione ai passi di Beatrice potrebbe rivestire, in questo momento, un valore allegorico in rapporto con le parole da lei pronunciate nei versi 10-12. Essi potrebbero indicare i comandamenti violati dai responsabili del decadimento morale della Chiesa, oppure, secondo il Parodi, potrebbero significare che "non passeranno dieci anni dalla data della traslazione della sede pontificia, che si compirà la riforma della Chiesa e il ritorno dei papi a Roma".
19 e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
mi disse, «tanto che, s'io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto».
  19 e con aspetto sereno mi disse: «Vieni più in fretta (più tosto), in modo che, se io ti parlo, tu (stando al mio fianco) abbia la possibilità di udirmi bene».
22 Sì com' io fui, com' io dovëa, seco,
dissemi: «Frate, perché non t'attenti
a domandarmi omai venendo meco?».
  22 Non appena io le fui accanto, com'era mio dovere (dopo l'invito), mi disse: «Fratello, perché ora che vieni con me non osi pormi alcuna domanda?»
25 Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,
  25 Come avviene a coloro i quali parlando davanti ai loro superiori sono dominati da un eccessivo senso di soggezione, per cui non riescono ad emettere chiaramente la voce,
28 avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: «Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch'ad essa è buono».
  28 cosi accadde a me, che incominciai ( a parlare), ma senza articolare distintamente i suoni «Madonna, voi conoscete la mia necessità, e quello che mi serve per soddisfarla».
31 Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com' om che sogna.
  31 Ed ella mi rispose: «Io voglio che ormai ti liberi dal timore e dalla vergogna, in modo che non parli più (in modo confuso) come uno che sta sognando.
34 Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.
  34 Sappi che il carro colpito dal drago è stato (un tempo) come doveva essere, ma ora non è più tale; però coloro i quali sono colpevoli di questo stato di cose (il gigante e la meretrice), siano certi che la vendetta di Dio non teme prescrizioni.
  Rifacendosi ad una espressione dell'Apocalisse (XVII, 8: "La bestia che hai veduta, era, ma già non è più"), Dante, attraverso le dure parole di Beatrice, afferma che la Chiesa, un tempo fu salda nella sua libertà e pura nelle sue virtù morali, ora quasi non esiste più (non è), dopo essersi corrotta e asservita alla corona di Francia. Chi n'ha colpa potrebbe essere un pontefice (in questo caso Bonifacio VIII o Clemente V), oppure, come annota il Mattalia, molto attento nei rilievi di carattere storico-allegorico, l'espressione potrebbe alludere a una responsabilità duplice (del pontefice e di Filippo il Bello), per cui introdurrebbe "il pensiero più audace: una « renovatio imperii » [rinnovamento dell'Impero] esser necessaria alla libertà e alla rigenerazione della Chiesa, nonché alla sua liberazione da eventuali asservimenti politici o temporalistici". Il termine suppe è riferito dagli antichi commentatori ad una usanza caratteristica di Firenze, in base alla quale l'omicida che entro nove giorni dal suo reato fosse riuscito a mangiare una zuppa sulla tomba dell'ucciso, si sarebbe sottratto alla vendetta dei parenti della vittima e alla condanna del comune. Per il Torraca, invece, «suppa» (o « subba », « zubba », « iuppa ») è un termine del linguaggio statutario del '200, indicante la corazza. Quindi il verso 36 significherebbe: la vendetta di Dio non teme nessun ostacolo che le si possa opporre.
37 Non sarà tutto tempo sanza reda
l'aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
  37

L'aquila che lasciò le sue penne nel carro, per cui quello si trasformò in mostro e poi (divenne) preda del gigante, non rimarrà per sempre senza erede;

  È ormai prossimo il tempo nel quale l'aquila - cioè l'Impero - avrà il suo legittimo erede. Infatti l'Impero, secondo Dante, è rimasto vacante dalla morte di Federico II, "ultimo imperadore de li Romani" (Convivio IV, III, 6), fino alla incoronazione di Arrigo VII (1312), perché dopo il 1250 nessun imperatore scese in Italia per cingere la corona imperiale e per occuparsi della sorte del giardin dello 'mperio (Purgatorio VI, verso 105: un accenno al trono imperiale vacante è nello stesso canto, verso 89).
40 ch'io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d'ogn' intoppo e d'ogne sbarro,
  40 poiché vedo con certezza, e perciò lo rivelo, che sono già prossime a sorgere quelle stelle le quali, libere da ogni contrasto e impedimento, ci recheranno (con i loro influssi) un tempo,
43 nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.
  43 nel quale un inviato da Dio, il cui nome sarà formato dai numeri cinquecento dieci e cinque, ucciderà la meretrice ladra insieme al gigante che pecca con lei.
  La missione profetica di Beatrice acquista in queste due terzine una potenza di sintesi assoluta. La sua onniveggenza non ammette perplessità (veggio certamente), e il futuro si dispiega ai suoi occhi con la forza del presente, per cui i fatti non sono visti in un confuso e lontano svolgimento, ma nel loro attualizzarsi immediato (e però il narro). L'influsso dei cieli, ai quali nessun ostacolo si può opporre, perché essi sono esecutori della volontà divina, sta preparando il messo di Dio.
Quest'ultimo è sicuramente un imperatore (l'erede dell'aquila, come è detto nei versi 37-38), il cui compito consisterà nel distruggere il potere temporale della Chiesa, potere che questa ha sottratto (fuia) all'Impero, e nell'impedire che l'autorità dell'imperatore (quel gigante che con lei delinque) esca dai limiti ad essa assegnati, per asservire a sé la Curia romana. È facile identificare nel messo la figura di Arrigo VII, perché (cfr. Epistola VII) Dante in lui riponeva tutte le sue speranze per una rinascita dell'Impero, la quale sarebbe potuta avvenire solo se Arrigo avesse distrutto la monarchia francese e restituito al Papato la sua libertà, secondo le affermazioni contenute nella lettera sopra citata.
Alcuni interpreti, invece, hanno preferito sostituire ad Arrigo VII la figura di Cangrande della Scala, riportandosi alla famosa profezia del Paradiso (canto XVII, 76-93), riguardante il signore di Verona.
Appare evidente, inoltre, nel messo un accenno al Veltro preannunziato da Virgilio nel canto I dell'Inferno (versi 101-105).
II verso 43 ha messo alla prova l'ingegnosità degli interpreti antichi e moderni, perché esso è costruito secondo lo stile oscuro delle profezie e degli enimmi, che il mondo medievale ha prodotto in gran numero (basti pensare, ad esempio, alla diffusione degli scritti profetici di Gioacchino da Fiore). L'indicazione numerica, tuttavia, deriva dall'Apocalisse (XIII, 18), dove il personaggio simboleggiato dal mostro è così presentato: "il suo numero è seicentosessantasei". I commentatori antichi hanno tradotto la serie del verso 43 in numeri romani: DXV, e hanno ricavato, con lo spostamento di una lettera, la parola DVX ("duce ", "capitano"). Questa interpretazione si presenta come la più probabile. Esistono però altre proposte di lettura della parola DXV: le tre lettere sarebbero le iniziali di Domini Xristi Vertagus (Veltro di Cristo), oppure di Domini Xrisfi Vicarius (Vicario di Cristo, con riferimento al papa), oppure di Dante Xristi Vertagus (Dante Veltro di Cristo).
46 E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch' a lor modo lo 'ntelletto attuia;
  46

E forse la mia predizione oscura, come gli oracoli di Temi e gli enigmi della Sfinge, ha poca forza di persuasione, perché alla loro maniera chiude il tuo intelletto (non lasciandovi trapelare il significato di ciò che dico);

  Temi, figlia di Urano e della Terra, era dotata di spirito profetico, che si manifesta in responsi dal significato oscuro; Ovidio ricorda la misteriosa risposta data da Temi a Deucalione e Pirra dopo il diluvio, e spiegata da Prometeo (Metamorfosi I, 367-415).
La Sfinge, mitico mostro nato da Tifone e da Chimera, uccideva tutti i viandanti diretti a Tebe se si mostravano incapaci di spiegare un enimma da lei proposto. Edipo infine ne trovò la soluzione (Ovidio - Metamorfosi VII, 759 sgg.; Stazio - Tebaide I, 66-67).
49 ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.
  49

ma presto i fatti saranno le Naiadi che scioglieranno questo difficile enigma senza arrecare danno al bestiame e alle coltivazioni.

  Dopo la soluzione del suo enigma la Sfinge si uccise e Temi, per vendicarne la morte, mandò contro i Tebani una famelica fiera che devastò i loro campi e fece strage delle loro greggi. Nel verso 49 Dante intende riportarsi alle parole di Ovidio "carmina Laiades non intellecta priorum solverat ingeniis" (Metamorfosi VII, 759) : "il figlio di Laio aveva sciolto con la forza del suo ingegno l'enigma che fino allora non era stato compreso", dove il figlio di Laio è Edipo. Tuttavia in molti codici medievali la forma Laiades si era corrotta in Naiades, e Dante, accogliendo quest'ultima lezione, crede che siano state le Naiadi (ninfe delle acque terrestri, dotate di spirito profetico) a risolvere l'oscurissimo indovinello della Sfinge.
52 Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a' vivi
del viver ch'è un correre a la morte.
  52 Prendi nota (di questo nella tua memoria); e nel modo in cui sono state dette da me, scrivi queste parole per gli uomini, la cui vita è una corsa verso la morte.
55 E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch'è or due volte dirubata quivi.
  55 E ricordati, quando le scriverai, di non nascondere in quali condizioni hai visto questa pianta che qui ora è derubata per la seconda volta.
  Il verso 57 ha dato origine a una grande incertezza interpretativa, perché secondo alcuni la duplice spogliazione della pianta fu opera di Adamo con il suo peccato, e del gigante che staccò il carro dall'albero e lo trascinò nella selva (XXXII, versi 157-158) : secondo altri di Adamo e dell'aquila nella sua prima, violenta discesa (XXXII, versi 112-117). Tuttavia la maggior parte degli interpreti moderni accetta la spiegazione fornita dal Buti: "l'una volta quando l'aquila si calò rompendo le foglie e li fiori e la scorza, e l'altra volta quando lo gigante disciolse il carro e menosselo via.".
58 Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l'uso suo la creò santa.
  58 Chiunque deruba questa pianta o la schianta, con un sacrilegio offende Dio, che la creò inviolabile perché servisse solo ai suoi fini.
61 Per morder quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l'anima prima
bramò colui che 'l morso in sé punio.
  61 Per aver morso il frutto di quella pianta, l'anima del primo uomo, penando in vita e rimanendo esule nel limbo, per cinquemila e più anni bramò Cristo, colui che punì in se stesso (con il suo sacrificio) la colpa di quel morso.
  La venuta di Cristo, che con il suo sacrificio riscattò il peccato di origine, fu attesa più di cinquemila anni da Adamo: 930 anni durò la sua vita in terra (Genesi V, 5) e 4302 la sua permanenza nel limbo (cfr. anche Paradiso XXVI, 119-120). La cronologia seguita da Dante è quella tracciata da Eusebio, il famoso storiografo cristiano vissuto fra la seconda metà del III secolo e la prima del IV.
64 Dorme lo 'ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
  64 Il tuo ingegno dimostrerebbe poca acutezza, se non capisse che questa pianta è stata creata tanto alta e con la chioma così capovolta (travolta, perché si dilata verso l'alto, invece di restringersi) per una ragione eccezionale.
67 E se stati non fossero acqua d'Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa,
  67 E se i pensieri mondani non avessero circondato la tua mente di incrostazioni come fa l'acqua del fiume Elsa, e se il diletto offerto da questi pensieri non avesse macchiato (il tuo intelletto) come il sangue di Piramo macchiò i frutti del gelso,
70 per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l'interdetto,
conosceresti a l'arbor moralmente.
  70 anche solo per queste singolari circostanze (per l'altezza e la forma della pianta) riconosceresti dall'albero, considerandolo nel suo significato morale, la giustizia di Dio, che si esprime nel divieto (di toccarlo).
  L'acqua del fiume Elsa, affluente dell'Arno, era famosa in quel tempo perché, ricca di carbonato di calcio, provocava fenomeni di deposito e di incrostazione.
Nel verso 69 Dante ricorda che Piramo, allorché si uccise, macchiò con il suo sangue i frutti del gelso, cambiando il loro colore da bianco in vermiglio (cfr. Purgatorio XXVII, 37-39).
73 Ma perch' io veggio te ne lo 'ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t'abbaglia il lume del mio detto,
  73 Ma poiché vedo che la tua mente si è pietrificata, e, oltre che pietrificata, anche ottenebrata, a tal punto che la luce di verità delle mie parole ti abbaglia,
76 voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che 'l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto».
  76 voglio, ciò nonostante, che porti dentro di te il mio discorso, se non scolpito nitidamente, almeno adombrato nelle immagini, per lo stesso motivo per il quale chi ritorna (dalla Terrasanta) porta (come ricordo) il bastone da pellegrino cinto di foglie di palma».
79 E io: «Sì come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.
  79 Ed io a lei: «Ora il mio intelletto è segnato dalle vostre parole, come è segnata dal sigillo la cera, la quale non altera la figura impressa.
82 Ma perché tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s'aiuta?».
  82 Ma perché la vostra desiderata parola si innalza tanto al di sopra delle mie capacità intellettive, che quanto più queste si sforzano di comprenderla tanto più essa sfugge loro?»
85 «Perché conoschi», disse, «quella scuola
c'hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;
  85 Rispose: «(Questo avviene) perché tu conosca bene la dottrina da te finora seguita, e possa costatare come i suoi insegnamenti male riescano a penetrare la mia parola,
88 e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina».
  88 e veda come la vostra via (la scienza umana) dista tanto da quella di Dio, quanto è distante dalla terra il cielo che più è veloce nel suo giro».
  Il Barbi limita il rimprovero di Beatrice all'eccessivo amore da Dante nutrito verso i beni terreni, verso "la povera sapienza del mondo", ma questa posizione non tiene conto che Beatrice è anche simbolo della verità rivelata e che, quindi, le sue parole non possono non ribadire i limiti del sapere filosofico, quando questo vuole risolvere da solo i problemi che urgono allo spirito umano. Siamo - osserva il Mattalia - "di fronte al grosso problema dei rapporti fra Teologia e Filosofia e Scienze (nel senso moderno dei termini), problema che la diffusione dell'averroismo o più largamente, dell'aristotelismo nella cultura cristiana, aveva reso urgente e dibattuto".
Il ciel che più alto festina è il Primo Mobile, l'ultimo e il più alto dei nove cieli fisici, il quale ruota più velocemente per il fatto che è il più vicino a Dio e quindi avverte una maggiore.
91 Ond' io rispuosi lei: «Non mi ricorda
ch'i' stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda».
  91 Per cui io le risposi: «Non ricordo di essermi allontanato mai da voi, né di tale colpa la coscienza mi rimorde».
94 «E se tu ricordar non te ne puoi»,
sorridendo rispuose, «or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;
  94 Soggiunse sorridendo: «E se non te ne puoi ricordare, ora rammentati come proprio oggi hai bevuto l'acqua del Letè (che elimina ogni memoria del peccato)
97 e se dal fummo foco s'argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.
  97 e se dalla presenza del fumo si deduce la presenza del fuoco, questo tuo oblio dimostra chiaramente l'esistenza della colpa nella tua volontà che (nel passato) si è rivolta altrove (anziché a me).
100 Veramente oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude».
  100 Ma d'ora in poi le mie parole saranno semplici, nella misura in cui sarà necessario renderle accessibili alla tua intelligenza ancora inesperta (nel penetrare il significato di ciò che dico)».
103 E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
  103 E il sole diventato più fulgido e più lento percorreva il meridiano del mezzogiorno, che si sposta qua e là, a seconda della posizione di chi osserva,
  Il sole, giunto sul meridiano, appare più luminoso (corusco) perché i suoi raggi battono quasi perpendicolarmente, e più lento nel suo corso per una illusione ottica (cfr. Paradiso XXIII, versi 11-12).
106 quando s'affisser, sì come s'affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
  106 quando si fermarono così come si ferma chi precede come guida un gruppo di persone se scorge qualche novità o qualche traccia di novità,
109 le sette donne al fin d'un'ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l'alpe porta.
  109 le sette donne ai margini di una zona d'ombra attenuata (smorta, rispetto a quella cupa della selva), simile a quella che l'alta montagna stende sotto il verde fogliame e gli scuri rami sui freddi ruscelli.
112 Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d'una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.
  112 Davanti ad esse mi parve di vedere l'Eufrate e il Tigri uscire da un'unica sorgente, e, quasi amici (dolenti di separarsi), scorrere lentamente in direzioni opposte.
  Dante giunge di fronte alla sorgente dei due fiumi del paradiso terrestre, il Letè e l'Eunoè, sulle cui caratteristiche ha già ricevuto spiegazioni da parte di Matelda (canto XXVIII, 121-133). I due corsi d'acqua sono ora paragonati al Tigri e all'Eufrate, che scaturiscono da un'unica fonte, secondo il racconto biblico (Genesi Il, 10 e 14) .
A partire dalla terzina 103 il canto assume uno svolgimento che sembra riportarci alle prime descrizioni della divina foresta. Dopo l'esordio, che prospettava il commento doloroso e drammatico alle vicende del carro della Chiesa, e il vaticinio di Beatrice (versi 34-51) , svolto nelle forme solenni, oscure e minacciose con le quali il Poeta aveva precedentemente rappresentato la storia della Chiesa, nonché l'ulteriore investitura profetica di Dante (versi 52-54), il saggio di dialettica serrata e di aspra eloquenza di Beatrice aveva messo a dura prova, per la sua inevitabile aridità, la trama poetica, anche se sul dramma storico si era innestato di nuovo il colloquio personale tra il Poeta e la donna amata. Ora invece l'atmosfera si rasserena, ricomincia a circolare nelle terzine l'aria della gran foresta, si .riprende contatto con la radiosa natura esterna (versi 103-105) e "il Poeta, con una di quelle sue miracolose pennellate pittoresche delle quali aveva il segreto, ci fa sentire e, quasi direi, vedere, insieme col contrasto di colori (foglie verdi, rami nigri ) il brivido della frescura alpina resa più sensibile da quei freddi rivi, che ci ricordano i canali freddi e molli dei ruscelletti del Casentino (Interno XXX, verso 66)" (Cian). Anche l'immagine dei due fiumi che si staccano e si allontanano pigramente l'uno dall'altro, come due amici che, scambiatosi l'ultimo addio, si incamminano, lasciandosi a malincuore, per strade diverse, è un "altro lampo... di quella originale poesia che Dante sapeva trarre dal profondo della sua umanità attenta e pensosa" (Cian).
115 «O luce, o gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?».
  115 «O luce, o gloria del genere umano, quale acqua è questa che qui sgorga da un'unica fonte e si allontana da se stessa (dividendosi in due corsi)?»
118 Per cotal priego detto mi fu: «Priega
Matelda che 'l ti dica». E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,
  118 Per questa preghiera mi fu risposto da Beatrice: «Prega Matelda che te lo dica». E allora (prontamente), come fa chi si discolpa, rispose
121 la bella donna: «Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l'acqua di Letè non gliel nascose».
  121 la bella donna: «Queste e altre cose gli sono già state dette da me; e sono certa che l'acqua del Letè non gliene cancellò il ricordo».
124 E Bëatrice: «Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt' ha la mente sua ne li occhi oscura.
  124 E Beatrice: «Forse un pensiero più urgente, che spesso priva la memoria della facoltà di ricordare, ha oscurato la vista della sua mente.
127 Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se' usa,
la tramortita sua virtù ravviva».
  127 Ma vedi l'Eunoè che si allontana là dalla sorgente: conducilo ad esso, e come sei solita fare, ravviva l'indebolita forza della sua memoria».
  Matelda deve compiere per Dante l'ultima cerimonia liturgica del paradiso terrestre: dopo l'oblio dei peccati donato dalle acque del Letè, occorre ravvivare - con quelle dell'Eunoè - la memoria del bene compiuto. La gioia che il pellegrino avverte dopo questo ultimo rito meriterebbe di essere meglio spiegata, ma il Poeta teme di dare all'ultimo canto uno sviluppo eccessivo rispetto a quelli che lo precedono, venendo meno all'armonico rapporto e alla perfetta simmetria che egli ha voluto « ordire » nell'architettura del suo poema (versi 139-141).
Questa legge di euritmia esteriore è applicata anche nell'ultimo verso della seconda cantica - puro e disposto a salire alle stelle - il quale richiama, nel momento in cui lo sguardo del Poeta sembra affissarsi nel volto di Dio, le ultime parole dell'Inferno: e quindi uscimmo a riveder le stelle.
130 Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
  130 Come l'anima nobile, che non adduce scuse, ma fa propria la volontà altrui non appena quest'ultima si è manifestata esteriormente con qualche segno,
133 così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui».
  133 così, dopo avermi preso per mano, la bella donna si mosse, e a Stazio con grazia tutta femminile disse: «Vieni con lui».
136 S'io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i' pur cantere' in parte
lo dolce ber che mai non m'avria sazio;
  136 Se avessi, o lettore, maggiore spazio per scrivere, io continuerei a cantare, per quel tanto che è possibile, la dolcezza di quell'acqua che non mi avrebbe mai saziato;
139 ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l'arte.
  139 ma poiché le carte destinate a questa seconda cantica sono tutte complete, la disciplina dell'arte non mi permette di procedere oltre.
142 Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
  142 Dalle santissime acque dell'Eunoè ritornai rinnovato come (in primavera) le piante giovani rinverdite di fronde recenti,
145 puro e disposto a salire a le stelle.   145 purificato e pronto a salire al cielo.

 

© 2009 - Luigi De Bellis