1 |
Benigna
volontade in che si liqua
sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua, |
|
1 |
La volontà di fare il bene nella quale si risolve sempre
l’amore che deriva direttamente da Dio, come la
cupidigia si risolve nella volontà di fare il male, |
4 |
silenzio
puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira. |
|
4 |
fece cessare quel dolce
coro e fece fermare il moto dei beati, i quali sono come
le corde di una lira che la mano di Dio allenta o tende. |
7 |
Come saranno
a' giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
ch'io le pregassi, a tacer fur concorde? |
|
7 |
Come potranno essere sorde
alle preghiere dei giusti quelle anime beate che, per
invogliarmi a interrogarle, furono concordi a cessare il
loro canto? |
10 |
Bene è che
sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
etternalmente, quello amor si spoglia. |
|
10 |
E’ giusto che soffra
eternamente colui che, per amore delle cose terrene che
sono caduche, si priva per sempre dell’amore di Dio. |
|
Un'improvvisa immobilità si sostituisce all'immagine del
cielo di Marte che si volge intorno a Dante come un
immensa, scintillante scudo crociato e a quella delle
anime che hanno formato la croce luminosa nella quale
"lampeggia" la figura di Cristo, mentre il canto del
l'inno di vittoria e di risurrezione si interrompe
improvvisamente: scompaiono, insomma, tutti quegli
elementi che avevano animato la grandiosa, e pur
liricamente vibrante, rappresentazione del canto
precedente. Con questa pausa narrativa ( una di quelle a
cui il Poeta affida spesso, nel Paradiso, il compito di
preparare una particolare effusione poetica) viene
approfondito il tema della caritatevole benevolenza dei
beati, la quale anticipa l'intima disposizione
affettuosa di Cacciaguida, di Beatrice, di Dante stesso
durante il loro colloquio. pervaso da un senso di
caritas che lo lega fortemente all'atmosfera
paradisiaca. La presenza di questo, come di altri motivi
paradisiaci ( la luce, l'intensificarsi del sorriso di
Beatrice, il mistico eloquio di Cacciaguida ),
concorrono a costituire " la base altissima ed intensa
su cui si attua la poesia dell'ultima parte, a elaborare
gli elementi di nobilitazione e santificazione della
voce di Cacciaguida, il tono epico-religioso e
storicamente testimoniale in cui la rappresentazione
della Firenze antica può superare le condizioni di un
semplice e isolato idillio nostalgico...". (Binni). In
queste quattro terzine viene impostato ed energicamente
evidenziato il tema fondamentale non solo di questo
canto, ma di tutta la trilogia di Cacciaguida: contrasto
fra cielo e terra, fra benigna volontade e cupidità, fra
mondo fallace e pace celeste, contrasto che troverà la
sua esemplificazione concreta, storica in quello fra la
Firenze sobria e pudica di un tempo e la Firenze
corrotta del presente. La storia della sua città diventa
così per il Poeta l'esempio di una verità universale e
centrale del Paradiso, conferendo un ulteriore rilievo "
al mito della Firenze antica, la cui pace nasceva per
Dante non solo e non tanto da una situazione sociale,
economica, politica... quanto e più dall'adesione dei
suoi cittadini all'amore dei beni sostanziali, alla
cristiana e civile carità". (Binni) |
13 |
Quale per li
seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri, |
|
13 |
Come attraverso gli spazi sereni del cielo tranquillo e
limpido di tanto in tanto sfreccia improvvisa una stella
cadente attirando lo sguardo di chi se ne stava ozioso, |
16 |
e pare
stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond' e' s'accende
nulla sen perde, ed esso dura poco: |
|
16 |
e sembra una stella che
muti posto in cielo, se non che dalla parte dove si è
accesa non scompare nessun astro, e quella presto si
spegne, |
19 |
tale dal
corno che 'n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende; |
|
19 |
così dal
braccio della croce che si protendeva verso destra fino
ai piedi di essa corse una delle luci della
costellazione (di spiriti) che risplende nell’interno
della croce: |
22 |
né si partì
la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro. |
|
22 |
né quella gemma si distaccò dal nastro luminoso (della
croce), ma corse via lungo la lista formata dai due
raggi, sì che sembrò una fiamma che risplende dietro ad
un alabastro (trasparente). |
25 |
Sì pïa
l'ombra d'Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s'accorse. |
|
25 |
Con la stessa manifestazione d’affetto corse incontro
(ad Enea, per abbracciarlo) l’ombra di Anchise, quando
nell’oltretomba riconobbe il figlio, se merita fede il
racconto di Virgilio, il nostro maggior poeta. |
|
Recuperato il senso dello spazio infinito con la visione
di un sereno cielo notturno - che diffonde su tutto il
canto una pace superiore, un'arcana immobilità, quasi ad
aiutare l'evocazione di un mitico passato e la speranza
di un lontano futuro - ritorna l'immagine della croce
luminosa, delineata attraverso preziosi accostamenti (
la gemma, il nastro, il foco che traspare dietro la
diafana luminosità dell'alabastro) che ripropongono le
suggestioni lirico-visive delle metafore del canto
precedente. Infatti anche qui l'immagine non è fine a se
stessa, edonistico godimento dell'occhio che segue
attento il bagliore della gemma o le variazioni di luce
prodotte dal foco dietro ad alabastro. ma serve a
determinare la situazione intima di Cacciaguida, che,
pur partecipando della beatitudine delle altre anime
(non si distacca, infatti, dalla croce, ma la percorre
per la lista radiai), nella sua sollecitudine affettuosa
e paterna ''corre" verso il suo discendente, si illumina
per un accrescimento improvviso di caritas, "si porge",
si protende verso Dante con un gesto intenso di pietà,
da padre a figlio. Sorge così, con la naturalezza di un
ricordo che affiora improvviso alla memoria, il richiamo
all'incontro nei Campi Elisi di Enea con il padre
Anchise (Virgilio, Eneide VI, 684-686), che gli
profetizza i travagli attraverso i quali dovrà passare
prima di porre le fondamenta di quella che diventerà
Roma; anzi l'economia della Commedia l'incontro di Dante
con Cacciaguida assume la stessa funzione - rivelazione
di missione - che nel poema virgiliano rivestiva
quell'episodio. E' il momento centrale del poema sacro,
è il momento nel quale Dante riceve la sanzione del
destino che Dio gli ha assegnato. Nel canto secondo
dell'Inferno il Poeta aveva obiettato a Virgilio, che lo
esortava al viaggio, di non essere né San Paolo né Enea,
coloro che ebbero il privilegio di vedere il mondo
ultraterreno, il primo per ricevere forza nella sua
opera di diffusione della fede, il secondo per
contemplare la Roma futura. Ora egli è veramente come
San Paolo, come Enea: attraverso la visione del mondo
sovrannaturale attinge la promessa e la certezza delle
cose future, la promessa e la certezza di un
rinnovamento del mondo, e Cacciaguida, il martire della
fede, conferma solennemente la sua missione. Ma per
rinnovare il mondo occorre un esempio da indicare agli
uomini, un modello che si possa realizzare
concretamente: è il passato della sua Firenze dentro
dalla cerchia antica, quando si stava in pace, sobria e
pudica. Il discorso di Cacciaguida nel canto XV "non è
soltanto l'espressione di un rimpianto del tempo
passato, una fuga nella memoria di cose antiche
abbellite dall'animo, un moto di laudator temporis acti
[lodatore del tempo passato], la voce di un
conservatorismo incapace di comprendere la presente
realtà" (Montano), perché, evocata dall'avo nell'animo
del Poeta "come un'immagine mitica, è la città della
purezza e della fede che muove la sua ansia e che egli
vorrebbe restaurare". Osserva ancora il Montano, che ha
dato una fine interpretazione di tutto l'episodio di
Cacciaguida: "L'ansia profetica della restaurazione e
della riforma non può non rifarsi a un passato da far
ritornare, a una purezza originaria da riattingere". E
questo è il puro mondo fiorentino, anteriore ai guadagni
e alla corruzione portata dalla gente nova. In questo
senso l'ideale ritorno a Firenze non è certo una
interruzione del moto di ascesa verso Dio, un indugio
autobiografico nel processo di elevazione spirituale, ma
è un ritrovare, da parte del Poeta, le ragioni della sua
speranza, del suo sogno di un futuro migliore, della sua
stessa missione. |
28 |
«O sanguis
meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa?». |
|
28 |
“O sangue mio, o grazia di Dio (in te)
infusa in maniera singolare, a chi mai fu dischiusa due
volte la porta del cielo come a te?”. |
|
L'esordio in latino, nel quale l'espressione sanguis
meus ripete quella rivolta da Anchise a Cesare
(Virgilio, Eneide VI, 835), concorre a quella
nobilitazione epico-sacra che, a partire da questo
momento, diventa la tonalità caratteristica del canto. |
31 |
Così quel
lume: ond' io m'attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui; |
|
31 |
Cosi parlò quello spirito:
perciò io mi rivolsi con attenzione verso di lui; poi
guardai la mia donna, e restai stupito da una parte e
dall’altra; |
34 |
ché dentro a
li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso. |
|
34 |
perché nei suoi occhi
risplendeva un un sorriso tale, che io credetti di
toccare con i miei il limite estremo della grazia
concessami da Dio e della mia beatitudine. |
37 |
Indi, a
udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch'io non lo 'ntesi, sì parlò profondo; |
|
37 |
Poi quello spirito, che
ispirava gioia a udirlo e vederlo, aggiunse alle sue
prime parole cose che io non compresi, tanto era
profondo il loro significato; |
40 |
né per
elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché 'l suo concetto
al segno d'i mortal si soprapuose. |
|
40 |
né si sottrasse alla mia
comprensione di proposito, ma per necessità, perché il
suo pensiero andò oltre il limite a cui arriva
l’intelligenza di un mortale. |
43 |
E quando
l'arco de l'ardente affetto
fu sì sfogato, che 'l parlar discese
inver' lo segno del nostro intelletto, |
|
43 |
E allorché la tensione
dell’ardente carità fu sfogata, tanto che il suo
linguaggio si rese comprensibile alla nostra mente, |
46 |
la prima
cosa che per me s'intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
che nel mio seme se' tanto cortese!». |
|
46 |
la prima cosa intesa da me
fu: “Sii benedetto, o Dio trino e uno, che sei tanto
munifico verso la mia discendenza del mio seme)!” |
49 |
E seguì:
«Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du' non si muta mai bianco né bruno, |
|
49 |
E continuò: “ Un caro e
antico desiderio, sorto in me dall’aver letto (la tua
futura venuta) nel grande libro della mente di Dio dove
non si aggiunge e non si toglie mai nulla a ciò che è
scritto, |
52 |
solvuto hai,
figlio, dentro a questo lume
in ch'io ti parlo, mercé di colei
ch'a l'alto volo ti vestì le piume. |
|
52 |
hai saziato, o figlio, in
me che ti parlo avvolto in questa luce, grazie a
Beatrice, colei che ti diede le ali per il grande volo. |
55 |
Tu credi che
a me tuo pensier mei
da quel ch'è primo, così come raia
da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei; |
|
55 |
Tu sei convinto che il tuo
pensiero discenda in me direttamente da Dio, che è
l’Ente primo, così come dall’unità, quando è conosciuta,
derivano il cinque e il sei (e gli altri numeri ); |
58 |
e però ch'io
mi sia e perch' io paia
più gaudïoso a te, non mi domandi,
che alcun altro in questa turba gaia. |
|
58 |
e perciò non mi domandi
chi sono e perché mi mostro a te più festoso di
qualunque altro spirito di questa moltitudine beata. |
61 |
Tu credi 'l
vero; ché i minori e ' grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi; |
|
61 |
Quello che credi è vero,
perché in questa vita tutti gli spiriti, siano essi
dotati di un grado minore o maggiore di beatitudine,
vedono in Dio come in uno specchio nel quale manifesti
il tuo pensiero, prima ancora che tu lo abbia concepito; |
64 |
ma perché 'l
sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m'asseta
di dolce disïar, s'adempia meglio, |
|
64 |
ma affinché l’amore divino
nella contemplazione del quale io veglio godendone
perpetuamente la visione e che fa nascere in me la sete
del dolce desiderio (di appagarti), |
67 |
la voce tua
sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni 'l disio,
a che la mia risposta è già decreta!». |
|
67 |
s’adempia meglio, la tua
voce esprima senza timore, franca e lieta la tua
volontà, esprima il tuo desideri, per il quale è già
pronta la mia risposta!” |
70 |
Io mi volsi
a Beatrice, e quella udio
pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno
che fece crescer l'ali al voler mio. |
|
70 |
Io mi rivolsi a Beatrice, ed ella
comprese prima che parlassi, e sorridendo mi fece un
cenno che accrebbe il mio desiderio. |
73 |
Poi
cominciai così: «L'affetto e 'l senno,
come la prima equalità v'apparse,
d'un peso per ciascun di voi si fenno, |
|
73 |
Poi incominciai così: “
Non appena aveste la visione di Dio, che è perfetta
uguaglianza (perché tutti i suoi infiniti attributi sono
mente uguali e commisurati fra di loro), in ciascuno di
voi sentimento e intelligenza si corrisposero
perfettamente , |
76 |
però che 'l
sol che v'allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse. |
|
76 |
poiché Dio, il sole che vi
illumina con la luce (della sua sapienza) e vi infiamma
con il fuoco (del suo amore), è così uguale (nei suoi
attributi), che ogni somiglianza risulta inadeguata ad
esprimerLo. |
79 |
Ma voglia e
argomento ne' mortali,
per la cagion ch'a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali; |
|
79 |
Invece nei mortali la
volontà e lo strumento per esprimerla adeguatamente, per
il motivo che voi conoscete ( la limitatezza e
l’imperfezione umana), sono provveduti di ali di diversa
potenza (cioè: la parola non sempre può realizzare ciò
che la volontà desidera); |
82 |
ond' io, che
son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa. |
|
82 |
per cui io, che sono
ancora mortale, sento di essere in questa disuguaglianza
(tra volontà e parola), e perciò non ringrazio che col
cuore per l’accoglienza festosa e paterna. |
85 |
Ben supplico
io a te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio». |
|
85 |
Io ti supplico però, o
spirito splendente come vivo topazio che adorni questo
prezioso gioiello della croce, di appagare il mio
desiderio di conoscere il tuo nome”. |
88 |
«O fronda
mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
cotal principio, rispondendo, femmi. |
|
88 |
Allorché mi rispose,
questo fu l’inizio del suo discorso: “O figlio mio, nel
quale mi compiacqui anche solo aspettandoti, io fui tuo
capostipite”. |
91 |
Poscia mi
disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent' anni e piùe
girato ha 'l monte in la prima cornice, |
|
91 |
Poi mi disse: “Alighiero,
colui dal quale prende nome il tuo casato e che gira da
più di cento anni nella prima cornice del monte del
purgatorio, |
94 |
mio figlio
fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
tu li raccorci con l'opere tue. |
|
94 |
fu mio figlio e fu tuo
bisavolo: è proprio opportuno che tu gli abbrevi la
lunga pena con i tuoi suffragi. |
|
Cacciaguida ricorda il figlio Alighiero (o Allaghiero),
dal quale derivò il nome di tutto il casato. Il nome di
Alghiero compare in un documento del 1189 e in uno del
1201, ma Dante dovette crederlo morto prima del 1200,
perché nel 1300 - data dell'immaginario viaggio
oltremondano - afferma che da cent'anni e più e si trova
nel primo girone del purgatorio, tra i superbi. Da
Alighiero nacque Bellincione e, da questo, Alighiero,
padre di Dante. |
97 |
Fiorenza
dentro da la cerchia antica,
ond' ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica. |
|
97 |
Firenze chiusa dentro la cerchia delle
antiche mura, donde la città sente ancora il suono delle
ore di terza e di nona, se ne stava in pace, sobria e
onesta. |
|
La cerchia antica delle mura fu costruita al tempo di
Carlomagno sovra 'l cener che d'Attila rimase (Inferno
XIII, 149). Presso queste mura sorgeva l'antica chiesa
della Badia dei Benedettini che suonava le ore del
giorno. Dopo la morte di Cacciaguida furono costruite
altre due cerchia, nel 1173 e nel 1284 (quest'ultima
terminata solo nel secolo XIV). |
100 |
Non avea
catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona. |
|
100 |
Le donne non usavano braccialetti, nè
corone preziose, né gonne ricamate, né cinture tanto
ricche da essere più vistose della persona che le
portava). |
|
Alla visione complessiva delle passate virtù segue ora
una descrizione dettagliata che, scandita dall'epica
energia di una serie di negazioni in crescendo, presenta
un quadro particolareggiato del contrasto fra la Firenze
antica e la Firenze attuale. Anche il Villani fu colpito
dalla suggestione di questi versi danteschi, che
riecheggia in un passo della sua Cronaca (VI, 70)
allorché descrive la Firenze del passato e i suoi
cittadini. |
103 |
Non faceva,
nascendo, ancor paura
la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura. |
|
103 |
La figlia, nascendo, non faceva ancora
paura al padre, perché l’età e la dote non uscivano da
una parte e dall’altra dalla giusta misura. |
|
Per le giovani il tempo delle nozze e l'entità della
dote erano fissate secondo una giusta misura: non troppo
presto il primo e non troppo ricca la seconda. Nella
Firenze attuale, invece, i padri maritano le figlie
quando sono ancora "nella culla" (Ottimo) e la dote è
tale che la figila esce di casa "con tutto quello che ha
il padre". |
106 |
Non avea
case di famiglia vòte;
non v'era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che 'n camera si puote. |
|
106 |
Non vi erano case vuote di prole; non
era ancora giunto Sardanapalo a insegnare quali vizi e
lussi si possono avere nel segreto della camera. |
|
Le case appaiono ora fastosamente sproporzionate al
bisogno (le più grandi famiglie nobili occupavano con le
loro " consorterie " interi quartieri della città) e
quasi disabitate. Questa interpretazione deve essere
unita ad un'altra che la completa: le case sono ora vote
di prole a causa della degenerazione morale della
famiglia. La depravazione e la mollezza dei costumi è
penetrata nell'intimo della vita familiare e merita di
venire rappresentata attraverso la figura di
Sardanapalo, il re assiro vissuto nel VII secolo a. C.,
famoso per lussuria ed effeminatezza. |
109 |
Non era
vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com' è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo. |
|
109 |
Monte Mario non era ancora vinto dal
vostro Uccellatoio, il quale Monte Mario, come fu
superato in magnificenza, così sarà superato nella
decadenza. |
|
Il fasto di Firenze, che si può ammirare dal monte
Uccellatoio, non aveva ancora vinto il fasto della città
di Roma, osservata dall'alto di Monte Mario. Ma come è
stata rapida l'ascesa, altrettanto lo sarà l'inevitabile
decadenza, che colpirà presto Firenze a causa della sua
corruzione. |
112 |
Bellincion
Berti vid' io andar cinto
di cuoio e d'osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza 'l viso dipinto; |
|
112 |
Io vidi Bellincione Berti portare una
cintura di cuoio con fibbie d’osso, e vidi sua moglie
tornare dallo specchio senza il viso dipinto; |
|
Chiusa la prima parte del discorso di Cacciaguida con
l'immagine di una parabola di grandezza e di
decadimento, che lascia dietro di se una desolata
immagine di rovine (versi 109-111 ), la visione della
Firenze antica si fa più diretta, più nitida: appaiono i
suoi cittadini più illustri, rappresentativi
dell'alterezza cavalleresca e delle virtù romane. Sono
uomini austeri, donne pudiche, e su di loro si ferma.
assorto, l'occhio di Cacciaguida (vid'io... vidi), che
quel mondo ben conobbe e rappresento. Dante non
prospetta una vita ascetica o un rifiuto dei mondo (anzi
e da quella Firenze che Cacciaguida è partito per la sua
impresa più grande, la difesa della fede), bensì una
società retta dalle virtù più sante: la casa, la
famiglia, il lavoro, il culto del passato, le virtù,
cioè, che per Dante coincidevano con gli ideali della
Cavalleria: ed el mi cinse della sua milizia... per bene
ovrar, dirà Cacciaguida alla fine del canto (versi
140-141). Bellincione Berti, padre della buona Gualdrada
(Inferno XVI. 37) e nobile cavaliere fiorentino, fu
capostipite della famiglia dei Ravignani. |
115 |
e vidi quel
d'i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio. |
|
115 |
e quelli della famiglia dei Vecchietti
accontentarsi di indossare una semplice pelle non
ricoperta di panno, e le loro donne intende agli umili
lavori del fuso e della rocca. |
|
Le famiglie guelfe dei Nerli e dei Vecchietti furono fra
le più ragguardevoli di Firenze, secondo la notizia del
Villani (Cronaca IV, 12-13). |
118 |
Oh
fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta. |
|
118 |
Oh donne fortunate! ciascuna sapeva con
certezza il luogo dove sarebbe stata sepolta, e ancora
nessuna era lasciata sola nel letto nuziale dal marito
andato in Francia (per mercanteggiare). |
|
Le lotte di partito non costringevano intere famiglie
all'esilio e alla sepoltura fuori della patria, né la
brama smodata di guadagno spingeva gli uomini a portare
i loro commerci fuori di Firenze e fuori d'Italia. |
121 |
L'una
vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l'idïoma
che prima i padri e le madri trastulla; |
|
121 |
Una vegliava amorosamente
il bimbo in culla e, per consolarlo (quando piangeva),
si serviva di quel linguaggio infantile che per primi i
genitori stessi si divertono ad usare; |
124 |
l'altra,
traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d'i Troiani, di Fiesole e di Roma. |
|
124 |
un’altra, filando,
raccontava, stando seduta in mezzo alla sua servitù, le
antiche storie dei Troiani, di Fiesole e di Roma. |
|
Accanto alla dolcezza degli affetti familiari il Poeta
ricorda il retaggio delle antiche glorie e degli antichi
racconti, coltivato nell'intimità delle case. Nella
gioia e nella pace della famiglia venivano rievocati
l'arrivo dei Troiani in Italia, l'origine di Fiesole, la
fondazione di Firenze da parte dei Romani dopo la
distruzione di Fiesole: i tre cicli che costituivano il
fulcro dei racconti tradizionali molto diffusi in
Toscana (cfr. Villani, Cronaca 1, 6 sgg.). In queste tre
terzine la rappresentazione dell'antica Firenze culmina
in una poesia intima e delicata, celebrante gli aspetti
della vita familiare, quelli, cioè, su cui si fonda la
vita di ogni uomo. E Dante, l'exul immeritus, li avverte
con la tenerezza disperante della nostalgia, che si fa
sempre più acuta man mano che la speranza di un ritorno
si allontana nel tempo. E' questa una pagina
autobiografica che per il fatto di essere rivissuta
nell'atmosfera paradisiaca, dove tutto acquista un
valore superiore e una dimensione eterna, si trasferisce
su un piano universale, per cui la Firenze antica
diventa il modello di ogni città perfetta, i dolori
dell'esule rappresentano i dolori di chi ama la
giustizia e ricerca la verità, e la memoria degli
affetti goduti nella pace della propria casa e dellà
propria città si trasforma nella celebrazione del culto
della famiglia. |
127 |
Saria tenuta
allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia. |
|
127 |
In quel tempo una donna dissoluta come
Cianghella della Tosa, un barattiere come Lapo
Saltarello sarebbero stati considerati una cosa
straordinaria come, ora, un uomo probo come Cincinnato o
una donna virtuosa come Cornelia. |
|
Cianghelia, figlia di Arrigo della Tosa, fu celebre al
tempo di Dante per lusso, arroganza e dissolutezza. Capo
Saltarello, giurista e rimatore, partecipò attivamente
alla vita politica di Firenze, conquistandosi fama di
uomo fazioso e corrotto. Venne bandito dalla città nel
1302 sotto l'accusa di brogli e di baratteria. |
130 |
A così
riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello, |
|
130 |
A una vita cittadina così
tranquilla e bella, tra una cittadinanza cosi affiatata,
in una così dolce dimora, mi fece nascere la Vergine
Maria, |
133 |
Maria mi diè,
chiamata in alte grida;
e ne l'antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida. |
|
133 |
che era stata invocata con
alte grida da mia madre durante il parto (cfr.
Purgatorio XX, 19-21); e nel vostro antico Battistero
divenni cristiano e insieme ricevetti il nome di
Cacciaguida. |
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Di Cacciaguida, trisavolo di Dante, nato intorno al 1091
e morto verso il 1147, non abbiamo altre notizie (ad
eccezione di un documento del 1189 dal quale risulta che
era già morto) se non quelle che il Poeta ci presenta in
questi ultimi versi del canto. |
136 |
Moronto fu
mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo. |
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136 |
Miei fratelli furono Moronto ed Eliseo:
la mia sposa fu originaria della valle del Po; e da lei
ebbe origine il tuo cognome. |
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Non abbiamo notizie neppure dei due fratelli di
Cacciaguida. Poiché un'antica tradizione ricorda che la
famiglia fu legata da vincoli di parentela con quella
degli Elisei, che vantava un'origine romana, il Ricci
diede questa spiegazione: Moronto fu anche Eliseo, cioè
mantenne il cognome degli Elisei, mentre Cacciaguida,
che sposò un'appartenente alla famiglia Ferrarese (di
dal di Pado) degli Aldighieri, diede origine al ramo
degli Alighieri. |
139 |
Poi seguitai
lo 'mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado. |
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139 |
Poi seguii l’imperatore Corrado; ed
egli mi fece suo cavaliere, tanto ero entrato nelle sue
grazie per il mio valore. |
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Corrado III di Svevia (a. 1093-1152) partecipò con Luigi
VII di Franciá alla seconda crociata, iniziatasi nel
1147. Nel passato molti interpreti ritennero che qui
Dante confondesse Corrado III con Corrado II, imperatore
dal 1024 al 1039, poiché il primo non sarebbe mai venuto
in Italia, mentre il secondo scese per combattere contro
i Saraceni in Calabria, e a Firenze creò cavalieri molti
cittadini ( Villani - Cronaca IV, 9 ) . Invece studi più
recenti hanno stabilito che anche Corrado III venne in
Italia e si fermò in Toscana: in questa occasione poté
conoscere Cacciaguida, il quale, diventato cavaliere, lo
segui alcuni anni dopo nella crociata in Terrasanta. |
142 |
Dietro li
andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
per colpa d'i pastor, vostra giustizia. |
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142 |
Lo seguii andando a
combattere contro l’iniquità di quella religione il cui
popolo, per colpa dei papi (che si disinteressano di
questo problema), usurpa i diritti della cristianità
(sulla Terrasanta). |
145 |
Quivi fu' io
da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt' anime deturpa; |
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145 |
Qui ad opera di quella
gente turpe fui sciolto dai legami del mondo fallace,
l’amore del quale abbrutisce molte anime; |
148 |
e venni dal
martiro a questa pace». |
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148 |
e dal martirio (della
morte per la fede) venni alla pace del paradiso”. |