1 |
Già si
godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l'acerbo; |
|
1 |
Cacciaguida, specchiando in se divina
luce beatificante, già godeva silenzioso del proprio
pensiero, ed io assaporavo il mio, cercando di
contemperare quello che mi era stato detto di doloroso
con quello che mi era stato detto di gradevole. |
|
Il verbo è inteso da Dante - secondo l'accezione
aristotelica ripresa poi dalla Scolastica - nella sua
precisa significazione di " pensiero ", di " concetto ",
ed è qui fulcro sostanziale attorno al quale ruotano le
figure di Dante e Cacciaguida, tutto calato, nella
dimensione divina questo, ancora partecipe di soffribili
sentimenti umani quello. Osserva il Momigliano: "...
questa improvvisa astrazione segna mirabilmente la
distanza fra Dante e il beato, tutto chiuso nel suo
pensiero (verbo), cioè tutto assorto in Dio che egli
rispecchia dentro di sé", e il Sapegno acutamente
puntualizza che verbo qui "adoperato nella sua accezione
meno comune e più strettamente tecnica, serve al Poeta
per legare in un solo nesso sintattico, e al tempo
stesso per distanziare e contrapporre, l'oggetto del
pensiero del beato e il proprio". |
4 |
e quella
donna ch'a Dio mi menava
disse: «Muta pensier; pensa ch'i' sono
presso a colui ch'ogne torto disgrava». |
|
4 |
E Beatrice, che mi guidava
a Dio, mi disse. “Lascia il pensiero dell’esilio:
considera che io sono vicino a Dio (colui) che allevia
ogni torto”. |
7 |
Io mi
rivolsi a l'amoroso suono
del mio conforto; e qual io allor vidi
ne li occhi santi amor, qui l'abbandono: |
|
7 |
Io mi volsi alle amorose
parole della mia consolatrice; e qui rinuncio a
descrivere la luce di carità che io allora vidi nei suoi
santi occhi; |
10 |
non perch'
io pur del mio parlar diffidi,
ma per la mente che non può redire
sovra sé tanto, s'altri non la guidi. |
|
10 |
non solo perché diffido
della capacità espressiva delle mie parole, ma anche
perché la mia memoria non può ritornare tanto sopra se
stessa (e ricordare), se Dio non la guida (con la sua
Grazia). |
|
Il contrasto con il significato della parola verbo, su
cui si accentrano le precedenti terzine, rende più
evidente il valore musicale di quell'amoroso sono con
cui Dante sublima la figura di Beatrice. "Al contrario
del verbo di Cacciaguida, quello di Beatrice " suona ",
si fa parola e discorso." (Mattalia) |
13 |
Tanto poss'
io di quel punto ridire,
che, rimirando lei, lo mio affetto
libero fu da ogne altro disire, |
|
13 |
Di quel momento posso ricordare solo che, fissandola, il
mio cuore fu libero da ogni altro desiderio, |
16 |
fin che 'l
piacere etterno, che diretto
raggiava in Bëatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto. |
|
16 |
mentre l’eterna bellezza
di Dio, che raggiava direttamente in Beatrice, mi
appagava col raggio riflesso dai begli occhi di lei. |
|
Sfolgorante di luce è la " mediazione " di Beatrice fra
Dante e la bellezza di Dio che ella riflette. Dove quel
mi contentava assume il valore di un'anticipazione
beatificante rispetto al supremo momento in cui il Poeta
(canto XXXIII, versi 140-141) potrà finalmente figgere
lo sguardo in Dio. Il motivo della luce paradisiaca che,
riflesso della bellezza di Dio, promana da Beatrice,
ritorna con insistenza a sottolineare lo stato di rapita
contemplazione in cui si trova la mente di Dante, in un
crescendo di abbagliante splendore che avrà il suo esito
in quel fiammeggiar del fulgor santo con cui Cacciaguida
manifesta il desiderio di continuare il dialogo. |
19 |
Vincendo me
col lume d'un sorriso,
ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
ché non pur ne' miei occhi è paradiso». |
|
19 |
Abbagliandomi con la luce di un suo;
sorriso, ella mi disse: “Volgiti (a Cacciaguida) e
ascolta, perché non solo nei miei occhi (ma anche in
quelli degli altri beati ) risplende la gioia del
paradiso”. |
|
Anziché accontentarsi, col Mattalia, di definire il
verso "una leggiadra battuta", il Momigliano coglie in
esso l'occasione per puntualizzare alcuni aspetti della
figura di Beatrice, distinguendo "una Beatrice teologa,
imposta dalla struttura; e una Beatrice creatura
poetica, nella quale la donna è più o meno trasfigurata,
ma non dimenticata". Dante sapientemente sempre
tratteggia la figura di lei con sfumature soavemente
umane, come in questa immagine "di incomparabile
leggerezza" in cui "conserva alla Beatrice beata,
insieme con la luminosità del paradiso, un'ombra, meno
di un'ombra, di compiacimento femminile. Beatrice
sorride... il sorriso riscuote Dante, ma aggiunge luce
al volto di Beatrice; è luce celeste, ma è anche
movimento umano: lo dicono le parole di Beatrice"
(Momigliano). Mentre il Montanari coglie in questi
colloqui una "interiorità di sorrisi e di espressioni
che dicono più delle parole", il Sapegno,
riallacciandosi ai commentatori antichi, riferisce
un'interpretazione allegorica delle parole di Beatrice:
"non pure nella teologica contemplazione si trova la
beatitudine, ma altresì nel mirare gli esempi degli eroi
della Fede". Il verso 21, nell'essenzialità
esemplarmente espressiva, è di quelli che giusta, mente
tengono avvinta l'attenzione al valore di ogni parola
del Poeta. Si guardi come quel pur del verso 10 (non
perch'io pur del mio parlar diffidi ), esprima il
riconoscimento di un'incapacità umana, la struggente
costatazione di un'impotenza terrena, mentre il pur di
Beatrice è delicato, sensibile accento d'umiltà in colei
che, consapevole della propria trasfigurazione
nell'estasi, vuole però, con una modestia che è tutta
soccorrevole partecipazione alla fragilità dell'uomo,
distogliere da se lo sguardo del Poeta per additargli
altre luminose presenze paradisiache. |
22 |
Come si vede
qui alcuna volta
l'affetto ne la vista, s'elli è tanto,
che da lui sia tutta l'anima tolta, |
|
22 |
Come talvolta quaggiù sulla terra il sentimento
interiore si manifesta negli occhi, allorché è tanto
grande da prendere tutta l’anima, |
25 |
così nel
fiammeggiar del folgór santo,
a ch'io mi volsi, conobbi la voglia
in lui di ragionarmi ancora alquanto. |
|
25 |
cosi nel ravvivato splendore della luce santa di
Cacciaguida, al quale mi volsi, riconobbi il suo
desiderio di parlarmi ancora un poco. |
28 |
El cominciò:
«In questa quinta soglia
de l'albero che vive de la cima
e frutta sempre e mai non perde foglia, |
|
28 |
Egli cominciò: “In questo
quinto cielo del paradiso, che è come un albero che trae
la vita da Dio, sua cima, e produce continuamente frutti
senza mai perdere nessuna foglia, |
|
L'albero di Dante è geniale immagine che, sorta
dall'inesausta fantasia del Poeta, grandiosamente
simboleggia in essa tutto il paradiso. Ed "è albero che
gode perennemente la gioia del raccolto, senza conoscere
mai la malinconia dell'inverno. Il ciclo terreno, che
alla gioia del raccolto avvicenda la mestizia della
caduta delle foglie, è vinto per sempre" (Montanari).
Questo albero, nel quale i rami indicano i diversi gradi
di beatitudine, tuttavia non partecipa della natura
dell'albero terreno, perché riceve la sua linfa vitale
dalla cima e non dalle radici, produce continuamente
nuovi frutti e non soggiace al variare delle stagioni e
all'invecchiamento: infatti da Dio dipende l'eterna
beatitudine delle anime, il cui numero aumenta ma non
può diminuire. |
31 |
spiriti son
beati, che giù, prima
che venissero al ciel, fuor di gran voce,
sì ch'ogne musa ne sarebbe opima. |
|
31 |
si trovano spiriti beati,
i quali sulla terra, prima di venire in cielo, furono
circondati da grande fama, così che qualsiasi poeta
potrebbe trovare ricca materia di canto (nelle loro
imprese). |
34 |
Però mira
ne' corni de la croce:
quello ch'io nomerò, lì farà l'atto
che fa in nube il suo foco veloce». |
|
34 |
Perciò fissa lo sguardo
sui quattro bracci della croce: ogni spirito che io
chiamerò per nome, trascorrerà da un braccio all’altro
con la velocità con la quale il lampo solca la nube che
lo ha generato”. |
37 |
Io vidi per
la croce un lume tratto
dal nomar Iosuè, com' el si feo;
né mi fu noto il dir prima che 'l fatto. |
|
37 |
Al nome di Giosuè, nel
momento stesso in cui veniva pronunciato, io vidi una
luce muoversi lungo la croce; né il suono del nome fu
percepito da me (mi fu noto) prima del muoversi della
luce. |
|
Giosuè, figlio di Nun, guidò il popolo d 'Israele nella
terra promessa dopo la morte di Mosè, il quale lo aveva
scelto come suo successore. |
40 |
E al nome de
l'alto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo. |
|
40 |
E al nome del glorioso Giuda Maccabeo
vidi un altro spirito muoversi girando su se stesso, e
la gioia era come la frusta che (colpendola) fa girare
la trottola. |
|
Giuda Maccabeo guidò, con i suoi quattro fratelli, la
rivolta del popolo ebraico contro il re di Siria,
Antioco IV Epifane, che aveva proibito l'osservanza del
sabato, della circoncisione, delle astinenze legali. La
lotta, durata dal 166 al 160 a. C., si concluse con la
vittoria di Israele. |
43 |
Così per
Carlo Magno e per Orlando
due ne seguì lo mio attento sguardo,
com' occhio segue suo falcon volando. |
|
43 |
Allo stesso modo al nome di Carlo Magno
e di Orlando il mio sguardo attento seguì il movimento
di altre due luci, come l’occhio del falconiere segue il
falcone in volo. |
|
La necessità - di per sé rischiosamente prosastica - di
introdurre ed enumerare personaggi, nulla toglie in
Dante all'immediatezza ed evidenza dell'immagine poetica
che "spazieggia improvvisamente la visione, misura
ariosamente la distanza tra Dante e le anime. Del resto,
tutti questi versi (35-45) sembrano librati beatamente
nell'aria" (Momigliano) .
Ai personaggi biblici Dante accosta gli eroi dell'epopea
medievale, scegliendo i due personaggi protagonisti del
ciclo carolingio, celebrati come campioni della lotta
della Cristianità contro i Saraceni. Carlo Magno (a.
742-814), fondatore del Sacro Romano Impero, non solo
difese l'Europa cristiana dagli attacchi saraceni, ma
operò anche in difesa della Chiesa minacciata dai
Longobardi ( cfr. Paradiso VI, 94-96).
Orlando fu il paladino più famoso di Carlo Magno e cadde
a Roncisvalle combattendo contro Agramante re dei Mori. |
46 |
Poscia
trasse Guiglielmo e Rinoardo
e 'l duca Gottifredi la mia vista
per quella croce, e Ruberto Guiscardo. |
|
46 |
Poi Guglielmo d’Orange, e Renoardo, il
duca Goffredo di Buglione, e Roberto il Guiscardo
attrassero il mio sguardo lungo quella croce. |
|
Guglielmo d'Orange, figlio, secondo la leggenda, di
Amerigo di Narbona, morì monaco nell'anno 812 a Gellone.
E' uno dei principali eroi dell'epoca carolingia,
protagonista di numerose canzoni epiche insieme con il
leggendario Rainouart, un saraceno che egli convertì
alla fede cristiana e che, dotato di forza eccezionale e
armato di una pesante clava, lo accompagnava nelle sue
imprese contro gli infedeli. Dante dovette ritenere
personaggio storico anche quest'ultimo, probabilmente
perché ai lati della porta centrale del duomo di Verona
compare insieme alla statua di Guglielmo anche quella di
Renoardo.
Goffredo di Buglione. (a. 1058-1100), duca di Lorena, fu
a capo della prima crociata, che portò alla liberazione
di Gerusalemme nel 1099. La figura di Goffredo divenne
poi il centro di tutte le composizioni epiche in lingua
d'oil relative alla prima crociata.
Roberto il Guiscardo (1015-1085), fu figlio di Tancredi
d'Altavilla e capo dei Normanni in Italia. Libero
l'Italia meridionale e la Sicilia dai Saraceni e stabilì
l'alleanza del regno normanno: con la Chiesa. |
49 |
Indi, tra
l'altre luci mota e mista,
mostrommi l'alma che m'avea parlato
qual era tra i cantor del cielo artista. |
|
49 |
Quindi, l’anima di Cacciaguida che mi
aveva parlato, muovendosi e mescolandosi agli altri
spiriti, mi fece sentire quale artista fosse tra i
cantori del cielo (di Marte). |
52 |
Io mi
rivolsi dal mio destro lato
per vedere in Beatrice il mio dovere,
o per parlare o per atto, segnato; |
|
52 |
Io mi volsi verso destra
per farmi indicare da Beatrice o con parole o con cenni
quello che dovevo fare; |
55 |
e vidi le
sue luci tanto mere,
tanto gioconde, che la sua sembianza
vinceva li altri e l'ultimo solere. |
|
55 |
e vidi i suoi occhi tanto
luminosi, tanto gioiosi, che il suo aspetto superava in
bellezza tutti gli altri precedenti, perfino l’ultimo. |
58 |
E come, per
sentir più dilettanza
bene operando, l'uom di giorno in giorno
s'accorge che la sua virtute avanza, |
|
58 |
E come l’uomo si accorge
che la sua virtù cresce di giorno in giorno, perché
prova una gioia sempre più profonda nel fare il bene, |
61 |
sì m'accors'
io che 'l mio girare intorno
col cielo insieme avea cresciuto l'arco,
veggendo quel miracol più addorno. |
|
61 |
così io, vedendo più bello
il miracoloso aspetto di Beatrice, m’accorsi che l’arco
del mio giro intorno alla terra insieme al cielo, aveva
una circonferenza più ampia (essendo salito in un cielo
superiore e quindi più ampio). |
64 |
E qual è 'l
trasmutare in picciol varco
di tempo in bianca donna, quando 'l volto
suo si discarchi di vergogna il carco, |
|
64 |
E come muta rapidamente il
colore in un bianco volto di donna, quando questo si
libera dal rossore della vergogna (ritornando al colore
naturale), |
67 |
tal fu ne li
occhi miei, quando fui vòlto,
per lo candor de la temprata stella
sesta, che dentro a sé m'avea ricolto. |
|
67 |
altrettanto rapido fu il
mutamento di colore che apparve ai miei occhi, quando mi
distolsi (dal guardare Beatrice), a causa del candore
temperato del sesto cielo (di contro al colore rosso del
cielo di Marte), che m’aveva accolto dentro di se. |
|
Dante ascende al cielo degli spiriti giusti, quello di
Giove, il quale "intra tutte le stelle bianca si mostra,
quasi argentata" (Convivio II, XIII, 25).
Temprata stella:
perché è "di temperata complessione, in mezzo de la
freddura di Saturno e de lo calore di Marte" (Convivio
II, XIII, 25). |
70 |
Io vidi in
quella giovïal facella
lo sfavillar de l'amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella. |
|
70 |
Nella luminosa stella di Giove io vidi
lo sfavillio degli spiriti, che lì risplendevano
d’amore, disegnare davanti ai miei occhi le lettere
dell’alfabeto. |
|
Giovial favella:
l'aggettivo significa " di Giove " e, in senso traslato
"lieto", "benivolo e bene temperato nelle sue qualitàdi;
onde gli antichi dissero che la cagione della felicitade
era nel circulo di Giove" (Ottimo). |
73 |
E come
augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera, |
|
73 |
E come gli uccelli
levatisi in volo dalle rive di un fiume come se si
rallegrassero tra loro per il cibo trovato, si
dispongono in schiera ora circolare ora d’altra forma, |
76 |
sì dentro ai
lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure. |
|
76 |
così avvolti nella loro
luce, i santi spiriti, volando qua e là, cantavano, e
assumevano la figura ora di una D, ora di una I, ora di
una L. |
|
Nella rappresentazione degli augelli surti di rivera, le
gru, Dante si è ispirato a Lucano (Farsaglia V,
711-716). Il paragone, felicissimo nella sua
immediatezza, introduce una visione che costituisce il
motivo centrale di tutto il canto: quella dell'aquila
che - come uccel di Giove, ovvero uccello divino
simboleggia il regno di Dio e perciò il regno della
giustizia. La similitudine dello stormo di uccelli che
nella serena cornice di una natura benigna si rallegrano
della propria pastura già suggerisce, prima ancora che
il Poeta giunga alla vera e propria descrizione della
scena, l'immagine delle anime beate che volitando e
cantando si dispongono a formare le lettere del biblico
insegnamento:Diligite iustitiam. Il Momigliano ha
sottolineato il senso di intima serenità che il paragone
dantesco suscita, definendolo "immagine di mansuetudine
e di pace, di quiete dell'anima, una di quelle che sono
disseminate per tutto il Paradiso e ne costituiscono
come lo sfondo sentimentale: sono ottenute con
significativa frequenza interpretando umanamente gli
atteggiamenti degli uccelli, mettendo in rilievo quel
senso di tranquillità che essi danno con le loro mosse e
con il loro canto". E nel ritmo musicale dei versi pare
direttamente trasfuso il coro beato e beatificante delle
anime. |
79 |
Prima,
cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l'un di questi segni,
un poco s'arrestavano e taciensi. |
|
79 |
Dapprima, cantando, si muovevano sul
ritmo del loro canto; poi, assumendo la forma di una di
queste lettere, si arrestavano un poco e tacevano. |
|
Il sospetto di "ingegnosa coreografia" (Montanari)
creato dall'improvviso situarsi delle anime nelle
immobili figurazioni della scritta, è riscattato dal
valore espressivo, quasi di pausa musicale, che assume,
nella chiusa della terzina, lo spegnersi insieme del
moto e del canto (un poco s'arrestavano e taciensi) in
un silenzio che chiude e raccoglie la scena. Ne nasce
come un attimo di smarrito stupore che subito il Poeta
rompe con l'aprirsi della nuova terzina sull'improvvisa
invocazione alle Muse. |
82 |
O diva
Pegasëa che li 'ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ' regni, |
|
82 |
O celeste musa che fai gloriosi e rendi
immortali i poeti, ed essi col tuo aiuto rendono
immortale la fama delle città e dei regni, |
|
L'invocazione è rivolta a tutte le Muse, come simbolo
della poesia creatrice d'immortalità. Esse sono qui
chiamate Pegasee, perché la loro sede è sull'Elicona
dove la fonte Ippocrene fu fatta scaturire da un calcio
di Pegaso, il mitico cavallo alato. Alcuni commentatori
propongono il nome di Calliope o di Urania o di Euterpe,
"alla quale gli antichi assegnavano la sfera di Giove".
(Torraca) |
85 |
illustrami
di te, sì ch'io rilevi
le lor figure com' io l'ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi! |
|
85 |
illuminami con la tua
luce, in modo che io possa rappresentare efficacemente
le figure disegnate da questi spiriti, così come si sono
impresse nella mia mente: appaia il tuo potere in questi
miei versi inadeguati (alla materia trattata)! |
88 |
Mostrarsi
dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette. |
|
88 |
Apparvero dunque
trentacinque vocali e consonanti; ed io fissai nella
memoria le lettere componenti ciascuna parola,
nell’ordine in cui mi si mostrarono espresse in figura. |
91 |
'DILIGITE
IUSTITIAM', primai
fur verbo e nome di tutto 'l dipinto;
'QUI IUDICATIS TERRAM', fur sezzai. |
|
91 |
“Amate la giustizia”
furono il primo verbo e il primo nome della frase
dipinta nel cielo: “voi che siete giudici in terra”
furono le ultime parole. |
|
Diligite iustitiam qui iudicatis terram sono le parole
con le quali inizia il libro della Sapienza. Come le
anime del cielo di Marte esprimevano quello che era
stato l'ideale della loro vita formando la figura della
croce nella quale lampeggiava Cristo, così le anime dei
giusti si dispongono in modo da "dipingere" in oro
sull'argento del cielo di Giove (versi 95-96), una
scritta che ammonisce coloro che sono alla guida
dell'umanità, a perseguire il fine supremo della
giustizia, in campo religioso come in quello civile.
Quest'idea della giustizia, luminosamente apparsa a
Dante dal cielo come monito e invito, è sorgente di
tutti gli ulteriori sviluppi del canto. E' dalla M con
cui termina la parola IUSTITIAM che si formerà la figura
dell'aquila, attraverso una metamorfosi che trasforma
dapprima la punta dell'asta mediana della M e poi tutta
la lettera in una palpitante, luminosa dimostrazione
dell'arcano rapporto esistente fra la giustizia terrena
e quella divina da cui essa procede."Diligite è un
imperativo categorico che colpisce. nel momento che
Dante scrive, l'imperatore e il pontefice, l'uno e
l'altro lontani dalla loro sede, dal giardino
dell'Impero: dall'Italia e da Roma. L'autore della
Monarchia stabilisce nel canto uno dei caratteri
fondamentali del poema, " ( Fallani ) Per quanto
riguarda l'idea figurativa di una simile
rappresentazione, il critico avanza un'ipotesi
suggestiva, ritenendo che Dante sia stato qui ispirato
"dal rilievo e dall'importanza solenne e rituale che
acquistano nei corali e negli antifonari miniati le
lettere in apertura". |
94 |
Poscia ne
l'emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d'oro distinto. |
|
94 |
Poi le anime rimasero
ferme e disposte nella figura della emme, ultima lettera
dell’ultima parola, così che in quel punto il pianeta
Giove appariva come argento ornato di rilievi d’oro. |
97 |
E vidi
scendere altre luci dove
era il colmo de l'emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch'a sé le move. |
|
97 |
E vidi altre
anime scendere (dall ‘Empireo) sul punto più alto della
emme, e li fermarsi cantando un inno, credo a Dio, il
Bene che le attrae a se. |
|
Il Caetani molto giustamente osserva che la scritta deve
essere immaginata in caratteri maiuscoli gotici per
comprendere la naturalezza delle successive
trasformazioni. Ora la emme maiuscola gotica m ( un'asta
verticale con ai lati due semicerchi rientranti alla
base) assume press'a poco la forma di un giglio araldico
(cfr. l'uso del verbo ingigliarsi al verso 1 13): "Dalla
scrittura che è già dipinto passiamo a un emblema che è
figura viva". (Marcovaldi) |
100 |
Poi, come
nel percuoter d'i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi, |
|
100 |
Poi come dai ceppi arsi dal fuoco,
quando vengono percossi, si sprigionano innumerevoli
faville, dalle quali gli stolti sogliono trarre
favorevoli auspici per se, |
|
Benvenuto da Imola ricorda, per spiegare il verso 102,
un'usanza allora diffusa in alcune regioni italiane:
nelle sere d'inverno i fanciulli stando attorno al fuoco
colpivano un ceppo di legno dicendo: "Tante città, tanti
villaggi, tanti agnelli, tanti porci... " |
103 |
resurger
parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come 'l sol che l'accende sortille; |
|
103 |
così si videro alzarsi dal
colmo dell’emme moltissime luci, e salire (verso l’alto)
qual più e qual meno, a seconda del grado di beatitudine
che Dio, il sole che le accende (d’amore), ha dato loro
in sorte; |
106 |
e quïetata
ciascuna in suo loco,
la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco. |
|
106 |
e allorché ognuna si fu
fermata al suo posto, vidi che esse avevano formato la
figura della testa e del collo di una aquila in quell’oro
che prendeva rilievo sullo sfondo argenteo del cielo di
Giove, |
|
Si è compiuto il secondo tempo della metamorfosi della
emme: la parte terminale dell'asta mediana prende la
forma della testa e del collo di una stilizzata aquila
araldica, finché i semicerchi laterali si disporranno in
forma di ali e il resto dell'asta costituirà il corpo e
le zampe (cfr. verso 114). E' evidente il valore
allegorico di questa figura: le anime di coloro che in
terra hanno esercitato la giustizia, sovrani e
magistrati, si sono riunite nella figura che è simbolo
dell'Impero, l'aquila, l'uccel di Giove (Purgatorio
XXXII, 112), 1'uccel di Dio (Paradiso VI, 4 sgg. ) .
Essa si è formata da una emme che è la lettera iniziale
di Monarchia e quindi simbolo di giustizia, essendo
compito dell'impero universale la realizzazione in terra
della giustizia divina (Monarchia I, XI,2). Il Parodi,
discutendo con la consueta chiarezza e dottrina le
diverse interpretazioni che sono state offerte in merito
alla figura del cielo di Giove, ritiene che nella
momentanea figura del giglio araldico (cfr. versi
97-98-113) sia rappresentato il regno di Francia, che
aspirava a sostituirsi all'impero (cfr. Purgatorio XX,
44; Paradiso VI, 100 e 111); ma la sua pretesa è vana e
anch'esso rientrerà presto nella giurisdizione della
monarchia universale. Così si può capire - conclude il
Parodi - perché nei versi seguenti "improvvisa scoppi
l'ira di Dante contro il papa di Avignone; e tutto il
passo infine si mostra animato dai medesimi sentimenti e
rivolto al medesimo fine cui mira la rappresentazione
famosa con cui si chiude la processione simbolica del
paradiso terrestre": colpire, cioè, la corruzione della
Chiesa, il suo intervento in campo temporale a danno
dell'autorità dell'imperatore, il trasferimento della
sede papale da Roma ad Avignone. |
109 |
Quei che
dipinge lì, non ha chi 'l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch'è forma per li nidi. |
|
109 |
Dio, che così dipinge nel cielo di
Giove, non ha maestri, ma Egli stesso è il maestro, e da
lui deriva la virtù generativa che dà vita agli esseri
nelle loro dimore terrene. |
|
Non è Dio che imita la natura, bensì la natura che segue
le orme dell'azione divina, cosicché - nota il Montanari
- non è Dio che deve adeguarsi all'idea della giustizia
che hanno gli uomini, ma sono gli uomini che devono
concepire l'idea di giustizia sulle tracce della
giustizia divina, la quale si manifesta in terra solo
nell'Impero (cfr. versi 115-117). |
112 |
L'altra
bëatitudo, che contenta
pareva prima d'ingigliarsi a l'emme,
con poco moto seguitò la 'mprenta. |
|
112 |
Le altre anime beate, che
prima apparivano paghe di assumere la forma del giglio
nella lettera emme, con piccoli spostamenti completarono
la figura. |
115 |
O dolce
stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme! |
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115 |
O dolce pianeta Giove,
quali e quante anime luminose mi mostrarono (prima col
loro canto e poi con la figura dell’aquila, simbolo
dell’Impero e della giustizia che esso solo può
realizzare) che la giustizia umana deriva dall’influsso
del cielo che tu adorni con il tuo splendore! |
118 |
Per ch'io
prego la mente in che s'inizia
tuo moto e tua virtute, che rimiri
ond' esce il fummo che 'l tuo raggio vizia; |
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118 |
Perciò prego Dio, dal
quale prende inizio il tuo movimento e il tuo potere di
influsso, affinché rivolga la sua attenzione al luogo da
cui esce il fumo che offusca la tua luce, |
121 |
sì
ch'un'altra fïata omai s'adiri
del comperare e vender dentro al templo
che si murò di segni e di martìri. |
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121 |
in modo che Egli si adiri
una seconda volta per i commerci che si fanno nel la
Chiesa che fu edificata con i miracoli e il martirio (di
Cristo e dei suoi santi). |
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Nei versi 118-120 e 121-123 è uno di quei bruschi
contrasti che spesso nel Paradiso dantesco. rompendo
all'improvviso l'atmosfera di luminosa quiete (o dolce
stella, quali e quante gemme...) riconducono, con
accenti fiammeggianti e dolorosi, alla ferita umanità
sempre presente alla mente del Poeta. Si noti il vigore
della potente sintesi espressiva con cui, nel verso 123,
Dante dipinge i meriti della Chiesa militante. Scopriamo
in quel - che si murò di segni e di martiri - il sacro
orgoglio e la amorosa commozione del figlio di fronte
alla Chiesa. madre assieme splendida nel fulgore dei
suoi miracoli e sanguinante nelle piaghe del suo
martirio. Un'altra fiata: passando dalla celebrazione
della giustizia all'invettiva contro la corruzione deità
Chiesa che ha il suo centro nella cupidigia della corte
papale, da dove esce il fumo che oscura la giustizia
sulla terra (cfr. verso 120), Dante invoca sui pontefici
che fanno mercato delle cose sacre l'ira divina, quella
stessa che, con Cristo, colpì i mercanti nel tempio
(Maffeo XXI, 12-13; Marco XI, 15-17; Luca XIX, 45-46;
Giovanni 11, 14,17). |
124 |
O milizia
del ciel cu' io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo! |
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124 |
O anime beate del cielo di
Giove, che io contemplo (nella mia memoria), pregate per
i mortali, che hanno deviato dalla giusta via per il
cattivo esempio (degli uomini di chiesa)! |
127 |
Già si solea
con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che 'l pïo Padre a nessun serra. |
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127 |
Un tempo si era soliti
fare la guerra con le armi, ma ora si fa sottraendo ai
fedeli, or qua or 1à, il pane spirituale che il
misericordioso Padre celeste non nega a nessuno. |
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Dante deplora il ricorso troppo frequente, da parte
della Chiesa, alle scomuniche e agli interdetti ( che
privano i fedeli dei sacramenti, lo pan spirituale) come
arma contro i suoi avversari politici. Si può vedere, in
questa terzina, una particolare allusione alla scomunica
lanciata da papa Giovanni XXII contro Cangrande della
Scala nel 1317. |
130 |
Ma tu che
sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi. |
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130 |
Ma tu che scrivi (i decreti di
scomunica) solo per annullarli poi (per denaro), pensa
che Pietro e Paolo, che morirono per la Chiesa che tu
ora vai distruggendo, sono ancora vivi (in cielo e
pronti a chiedere vendetta a Dio). |
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È probabile che l'apostrofe sia rivolta a Giovanni XXII,
pontefice dal 1316 al 1334, il quale con ogni mezzo "raunò
infinito tesoro" (Villani Cronaca XI, 20 ) . Alcuni
interpreti hanno proposto il nome di Bonifacio VIII e di
Clemente V, per altro già morti al tempo in cui Dante
scrive questi versi. |
133 |
Ben puoi tu
dire: «I' ho fermo 'l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro, |
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133 |
A buon diritto puoi dire:
“Il mio desiderio è volto con tanta forza a San Giovanni
Battista, colui che volle vivere solitario nel deserto e
che fu martirizzato per premiare una danza, |
136 |
ch'io non
conosco il pescator né Polo». |
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136 |
che io non mi curo né di
San Pietro né di San Paolo”. |
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Il canto si chiude sull'empietà delle parole che il
Poeta fa pronunciare al corrotto Giovanni XXII: il papa
non conosce Paolo, l'apostolo della carità, né Pietro,
quella "pietra" su cui Cristo ha fondato la sua Chiesa.
Soltanto un santo gli è caro: quel Battista che per
salti (c'e nell'espressione rapidissima tutto lo spregio
per la fatale danza di Salormè) fu tratto al martiro. E
quando si ricordi che appunto l'effigie di San Giovanni
Battista compariva sul maladetto fiore coniato in
Firenze (il fiorino era la moneta internazionale del
tempo), si comprenderà la feroce ironia di questo
accenno di Dante al fermo... disiro del papa per la
vittima di Erode.
Colui che volle viver solo...:
San Giovanni Battista si preparò alla predicazione nella
solitudine del deserto (Luca I, 80) e fu decapitato per
premiare la danza della figlia di Erodiade, Salomè, la
quale, su suggerimento della madre. aveva chiesto ad
Erode la testa del Battista (Maffeo XIV. 1-12). |