1 |
O voi che
siete in piccioletta barca,
desiderosi d'ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca, |
|
1 |
O lettori, che in una piccola barca (cioè dotati di una
intelligenza e di una cultura inadeguate all’altezza di
contenuto della terza cantica), desiderosi di ascoltare
(il mio canto), avete seguitola nave del mio ingegno che
cantando si apre un varco, |
4 |
tornate a
riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti. |
|
4 |
ritornate ai luoghi dai
quali siete partiti: non arrischiatevi ad entrare in
mare aperto, perché, forse, non avendo la forza
necessaria per seguirmi, vi trovereste smarriti. |
7 |
L'acqua
ch'io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l'Orse. |
|
7 |
L’acqua che mi accingo a
solcare non è mai stata percorsa da alcuno: Minerva (dea
della sapienza) col suo fiato gonfia le vele della mia
nave, e Apollo (dio della poesia) è il mio nocchiero e
le nove Muse (protettrici delle scienze e della tecnica
artistica) mi mostrano la direzione indicandomi l’Orsa
Maggiore e l’Orsa Minore. |
10 |
Voialtri
pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo, |
|
10 |
(Invece) voi pochi che fin
da giovani rivolgeste la mente alla scienza delle cose
divine, della quale sulla terra ci si può nutrire ma
senza potersi mai saziare (come, invece, avviene in
cielo), |
13 |
metter
potete ben per l'alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l'acqua che ritorna equale. |
|
13 |
voi sì potete spingere per il mare profondo il naviglio
(della vostra intelligenza), seguendo la scia (sollevata
dalla mia nave) prima che l’acqua torni ad appianarsi. |
16 |
Que'
glorïosi che passaro al Colco
non s'ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco. |
|
16 |
Gli Argonauti che
varcarono il mare per recarsi nella Colchide non si
meravigliarono, quando videro Giasone trasformarsi in
contadino, nella misura in cui vi meraviglierete voi (di
fronte alle mirabili cose che io vi esporrò). |
|
Dopo l'invocazione ad Apollo e alle Muse nel primo canto
(versi 13-18) nella quale l'orgoglio per la complessità
della materia trattata si accompagnava alla trepidazione
e alla umiltà per la coscienza delle proprie forze
limitate - l'ammonimento ai lettori, nell'esordio del
secondo canto, riporta con decisa fermezza l'accento sul
carattere trascendentale dell'argomento (un vasto
pelago) e dell'ispirazione (essa cantando varca un'acqua
che già mai non si corse), nonché sulla sublime
solitudine nella quale si trova il Poeta, che apre per
primo il solco in mare aperto (e il latinismo
dell'espressione alto sale ribadisce il carattere
aristocratico della poesia della terza cantica). A
questo "senza dubbio orgoglio dei proprio « ingegno » di
poeta, ma anche esaltazione di credente che ha la
messianica certezza di essere il vate designato da Dio a
illuminare i piccoli mortali. L'arduo cimento a cui egli
ora si accinge richiama l'immagine dei navigare che, già
apparsa all'inizio del Purgatorio (I, 1-3), qui attinge
la sua più alta forza espressiva, dando drammatica
consistenza all'ideale ardimento per cui il Poeta si
lancia con la fantasia là dove si sente vertiginosamente
solo tra gli uomini..." (Grabher). Questa rotta ideale
verso il cielo potrà essere seguita solo da un picco, lo
stuolo di accompagnatori, perché essa presuppone il
possesso della scienza teologica, del pan delli angeli
(l'espressione è biblica: cfr. Salmo LXXVIII, 25;
Sapienza XVI, 20), alla quale bisogna drizzare per tempo
la mente. Infatti "tutti li uomini naturalmente
desiderano di sapere... Veramente da questa nobilissima
perfezione molti sono privati per diverse cagioni... Oh
beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo
pane de li angeli si manuca [si mangia]! e miseri quelli
che con le pecore hanno comune cibo!" (Convivio I, I,
1-7). Per la seconda volta (cfr. anche canto I, versi
5-9), quindi, Dante richiama l'attenzione dei lettori
sul fatto che la poesia del Paradiso è una poesia per «
iniziati », per i pochi, cioè, che per dottrina e
spiritualità sapranno vedere in essa l'espressione
dell'ineffabile. A concludere questo nuovo proemio, che
non a torto il Sanesi definisce "trionfale", "si
presenta a Dante, spontaneo, non come fredda
reminiscenza erudita, ma come rinnovellamento quasi
necessario di un fatto eroico rivìssuto dal Poeta con
intimo fervore e con accesa passione" (Sanesi), il
famoso mito degli Argonauti. Essi, per conquistare il
favoloso vello d'oro, si diressero dalla Grecia verso la
Colchide. Qui giunti, videro il loro capo. Giasone,
trasformarsi, per portare a buon termine l'impresa, in
contadino, arando un campo con buoi spiranti fiamme e
seminandovi poi denti di serpente, dai quali nascevano
uomini armati (Ovidio - Metamorfosi VII, 100 sgg.). |
19 |
La concreata
e perpetüa sete
del deïforme regno cen portava
veloci quasi come 'l ciel vedete. |
|
19 |
Il desiderio
innato è incessante dell’Empireo, il cielo che riceve la
sua forma da Dio, ci portava (in alto) veloci quasi come
vedete (girare veloce) il cielo stellato (nel suo moto
intorno alla terra). |
22 |
Beatrice in
suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si dischiava, |
|
22 |
Beatrice fissava lo sguardo in alto, ed io fissavo il
mio in lei; e forse nel tempo in cui una freccia è posta
sulla corda dell’arco e vola dopo essersi staccata
dall’osso della balestra, |
25 |
giunto mi
vidi ove mirabil cosa
mi torse il viso a sé; e però quella
cui non potea mia cura essere ascosa, |
|
25 |
mi vidi giunto dove una cosa meravigliosa attrasse a se
i miei occhi; e perciò Beatrice, alla quale nessun mio
pensiero poteva rimanere nascosto, |
28 |
volta ver'
me, sì lieta come bella,
«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
«che n'ha congiunti con la prima stella». |
|
28 |
voltasi verso di me, con
espressione tanto lieta quanto bella, mi disse: “Innalza
con riconoscenza la tua mente a Dio, che ci ha fatto
giungere al cielo della Luna”. |
31 |
Parev' a me
che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse. |
|
31 |
Mi sembrava che fossimo
avvolti da una nube luminosa, densa, compatta e liscia,
simile a diamante colpito dalla luce del sole. |
34 |
Per entro sé
l'etterna margarita
ne ricevette, com' acqua recepe
raggio di luce permanendo unita. |
|
34 |
Quella gemma
incorruttibile ci accolse dentro di se, come l’acqua
riceve, senza che la sua superficie si rompa, un raggio
di luce. |
|
Dante e Beatrice giungono nel primo dei nove cieli
fisici che costituiscono con il decimo, l'Empireo, cielo
solo spirituale, la cosmologia paradisiaca. Ogni cielo,
formato da uno strato di materia diafana, . contiene un
pianeta o, come l'ottavo, stelle fisse, che si
presentano come materia lucida, spessa, solida e pulita
(cfr. verso 32). Allorché Dante afferma di passare da un
cielo all'altro, egli intende riferirsi al passaggio da
un pianeta all'altro, in un ritmo ascensionale continuo
che scandirà il suo progressivo avvicinarsi a Dio. Sarà
proprio la luminosità dei cieli, oltre che il sorriso e
la bellezza sempre più splendenti di Beatrice e delle
anime beate, a segnare questa spirituale progressione
che, di luce in luce, porterà Dante al lume in forma di
rívera fluvido di fulgore (Paradiso canto XXX, versi
61-62), il quale aprirà al Poeta la visione totale
dell'Empireo. |
37 |
S'io era
corpo, e qui non si concepe
com' una dimensione altra patio,
ch'esser convien se corpo in corpo repe, |
|
37 |
Poiché io ero un corpo, e
poiché sulla terra non è pensabile che una materia
estesa possa compenetrarsi con un’altra (senza spezzarne
la compattezza), il che avviene di necessità se un corpo
penetra in un altro, |
40 |
accender ne
dovria più il disio
di veder quella essenza in che si vede
come nostra natura e Dio s'unio. |
|
40 |
(questo prodigio) dovrebbe
maggiormente accendere in noi il desiderio di
contemplare (in cielo) l’essenza di Cristo, nella quale
si vede come la natura umana si sia compenetrata con la
natura divina. |
43 |
Lì si vedrà
ciò che tenem per fede,
non dimostrato, ma fia per sé noto
a guisa del ver primo che l'uom crede. |
|
43 |
In cielo vedremo quei
misteri che ora accettiamo per fede, ma saranno noti per
la loro evidenza immediata, non perché dimostrati
razionalmente, come i principi fondamentali che l’uomo
crede (per intuizione, senza poterli dimostrare). |
46 |
Io rispuosi:
«Madonna, sì devoto
com' esser posso più, ringrazio lui
lo qual dal mortal mondo m'ha remoto. |
|
46 |
Io risposi: “Madonna, con
la maggior devozione possibile, ringrazio Dio che mi ha
allontanato dal mondo mortale |
49 |
Ma ditemi:
che son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
fan di Cain favoleggiare altrui?». |
|
49 |
Ma ditemi: che cosa sono
le macchie scure della superficie lunare, le quali
laggiù sulla terra fanno credere agli uomini che si
tratti di Caino? |
|
Con un'arida formula di passaggio, che sembra
allontanare la prima parte del canto, sorretta da un
fortissimo slancio spirituale, dalla seconda, che si
offre, all'inizio, come momento di pausa
narrativo-didascalica (ma ditemi: che son...), è
introdotta una lunga disquisizione sulla causa delle
macchie lunari. Il Poeta presenta dapprima l'opinione
comunemente diffusa tra il popolo, che vede in quelle
macchie la figura di Caino, il quale, dopo l'uccisione
di Abele, sarebbe stato trascinato da un vento impetuoso
sulla Luna, e condannato a trasportare sulle spalle per
tutta l'eternità un fascio di spine (cfr. Inferno canto
XX, verso 126). Ma Beatrice neppure si preoccupa di
confutare questa posizione: le basta, pur sottolineando
la validità della conoscenza razionale quando esamina ed
elabora il dato fornito dall'esperienza, rilevare i
limiti dell'umana ragione, anche quando essa si mantiene
nell'ambito della scienza naturale. Respinta la credenza
popolare, Dante avanza la prima spiegazione scientifica,
ampliando contemporaneamente il problema: le zone di
diversa luminosità che appaiono nella materia lucida e
compatta dei corpi di qua su dipendono dalla diversa
rarità e densità delle sfere celesti (versi 59-60).
Questa teoria, dal Poeta accettata nel Convivio (II,
XIII, 9), era stata esposta da Averroè nel De substantia
orbis. |
52 |
Ella sorrise
alquanto, e poi «S'elli erra
l'oppinïon», mi disse, «d'i mortali
dove chiave di senso non diserra, |
|
52 |
Beatrice sorrise alquanto.
e poi mi disse: “Se la conoscenza dei mortali sbaglia là
dove i sensi non offrono la chiave capace di aprire (la
porta alle verità soprasensibili), |
55 |
certo non ti
dovrien punger li strali
d'ammirazione omai, poi dietro ai sensi
vedi che la ragione ha corte l'ali. |
|
55 |
ormai non dovrebbero
davvero più pungerti gli strali della meraviglia, dal
momento che vedi come la ragione seguendo i sensi può
compiere solo un breve cammino. |
58 |
Ma dimmi
quel che tu da te ne pensi».
E io: «Ciò che n'appar qua sù diverso
credo che fanno i corpi rari e densi». |
|
58 |
Ma dimmi quello che pensi
per conto tuo di queste macchie”. Ed io: “Ciò che a noi
(sulla terra) appare variamente luminoso nelle sfere
celesti, credo dipenda dalla diversa rarità o densità
della materia di questi corpi". |
61 |
Ed ella:
«Certo assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
l'argomentar ch'io li farò avverso. |
|
61 |
Ed ella: “Senza dubbio
riconoscerai che la tua opinione è profondamente
erronea, se ascolterai attentamente la dimostrazione che
farò contro di essa. |
64 |
La spera
ottava vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
notar si posson di diversi volti. |
|
64 |
L’ottavo cielo (quello
delle stelle fisse) vi presenta molti astri, che per la
qualità e quantità della loro luce mostrano aspetti
diversi. |
67 |
Se raro e
denso ciò facesser tanto,
una sola virtù sarebbe in tutti,
più e men distributa e altrettanto. |
|
67 |
Se soltanto la rarefazione
e la densità della materia causassero tale diversità, in
tutte le stelle vi sarebbe una sola virtù, distribuita
in quantità maggiore o minore o uguale. |
70 |
Virtù
diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for ch'uno,
seguiterieno a tua ragion distrutti. |
|
70 |
Ora virtù diverse devono
necessariamente derivare da principi formali diversi, e
questi principi, eccetto uno, verrebbero ad essere
distrutti secondo il tuo ragionamento. |
|
Beatrice dimostra la non validità della posizione
averroistica con un ragionamento proprio del metodo
scolastico: alla confutazione della teoria erronea
(versi 64-105) seguirà l'esposizione della tesi valida
(versi 112-148), nella quale, sulla scorta di San
Tommaso e di altre scuole dell'epoca, respinge la
spiegazione di Averroè per accettare quella offerta da
un altro pensatore arabo, Avicenna. Per dimostrare che
solo una diversa natura specifica può spiegare la
presenza del chiaro e dello scuro nei corpi celesti,
Beatrice porta l'esempio delle stelle fisse del cielo
ottavo, che si presentano differenti le une dalle altre
per quantità e qualità di luce. Ora, se si ammette, come
vuole Averroè, che i corpi celesti hanno una stessa
natura specifica, e che le diversità che si notano sulle
loro superfici dipendono solo dalla maggiore o minore
densità di tali corpi, anche le stelle fisse dovrebbero
avere tutte una medesima natura specifica, sia pure
distribuita in modo quantitativamente diverso (verso
69). Invece, poiché da ciascuna stella fissa deriva una
influenza diversa nel cielo sottostante all'ottavo, ed è
verità di immediata evidenza che virtù (o influenze)
diverse non possono derivare che da principi formali
diversi, non è possibile ridurre i principi formali
delle stelle fisse ad uno solo. Dunque la diversa
luminosità dei corpi, celesti dipende dalla diversa,
natura specifica di ciascuno. |
73 |
Ancor, se
raro fosse di quel bruno
cagion che tu dimandi, o d'oltre in parte
fora di sua materia sì digiuno |
|
73 |
Inoltre se la rarità della
materia fosse la causa di quelle macchie di cui tu
chiedi spiegazione, (ne deriverebbe che) o in qualche
punto sarebbe privo della sua materia fino alla parte
opposta (presentando, cioè, dei buchi) |
76 |
esto pianeto,
o, sì come comparte
lo grasso e 'l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte. |
|
76 |
questo pianeta, oppure
come un corpo animale alterna parti grasse e parti
magre, allo stesso modo il corpo lunare nei suoi strati
cambierebbe come i fogli (più o meno sottili di un
libro). |
79 |
Se 'l primo
fosse, fora manifesto
ne l'eclissi del sol, per trasparere
lo lume come in altro raro ingesto. |
|
79 |
Se fosse vera la prima
ipotesi, essa si renderebbe manifesta durante l’eclissi
di sole, perché si vedrebbe per trasparenza la luce
solare come quando essa è introdotta in qualsiasi altro
corpo di materia rarefatta. |
82 |
Questo non
è: però è da vedere
de l'altro; e s'elli avvien ch'io l'altro cassi,
falsificato fia lo tuo parere. |
|
82 |
Ma questo non succede:
perciò è da discutere l’altra ipotesi; e se accadrà che
io confuti anch’essa, la tua opinione (sulla causa delle
macchie lunari) sarà dimostrata falsa. |
85 |
S'elli è che
questo raro non trapassi,
esser conviene un termine da onde
lo suo contrario più passar non lassi; |
|
85 |
Se avviene che questa
rarefazione non passa da parte a parte, deve esserci un
punto al di là del quale la densità della materia non
lascia più passare la luce; |
88 |
e indi
l'altrui raggio si rifonde
così come color torna per vetro
lo qual di retro a sé piombo nasconde. |
|
88 |
e da questo punto il
raggio solare viene riflesso come un’immagine con i suoi
colori è riflessa dal vetro che nasconde dietro di se
una lamina di piombo ( cioè dallo specchio). |
91 |
Or dirai tu
ch'el si dimostra tetro
ivi lo raggio più che in altre parti,
per esser lì refratto più a retro. |
|
91 |
Ora tu obietterai che il
raggio appare più oscuro nel punto di maggiore
rarefazione che nelle altre parti, perché lì è riflesso
da uno strato più interno del corpo lunare. |
94 |
Da questa
instanza può deliberarti
esperïenza, se già mai la provi,
ch'esser suol fonte ai rivi di vostr'arti. |
|
94 |
Da questa obiezione può
liberarti un esperimento, se qualche volta vorrai farlo,
uno di quelli che costituiscono il fondamento delle
varie parti in cui si dividono le scienze umane. |
97 |
Tre specchi
prenderai; e i due rimovi
da te d'un modo, e l'altro, più rimosso,
tr'ambo li primi li occhi tuoi ritrovi. |
|
97 |
Prendi tre
specchi; e disponi due di essi alla stessa distanza da
te, e il terzo, posto più lontano, incontri i tuoi occhi
in mezzo ai primi due. |
100 |
Rivolto ad
essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
e torni a te da tutti ripercosso. |
|
100 |
Dopo esserti
rivolto verso di essi, fa in modo che dietro le tue
spalle sia posta una luce che illumini i tre specchi e
ritorni a te riflessa dai medesimi. |
103 |
Ben che nel
quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien ch'igualmente risplenda. |
|
103 |
Benché l’immagine riflessa
dallo specchio più lontano non sia estesa in grandezza
come quella degli altri due, vedrai come, pur da una
maggior distanza, risplenda necessariamente di una
luminosità qualitativamente uguale a quella delle altre
due. |
|
Il secondo argomento opposto da Beatrice alla dottrina
averroistica delle macchie lunari (versi 73-105) è
desunto dall'esperienza. Se le, macchie provenissero da
una rarefazione della materia, si presenterebbero due
casi: o la luna sarebbe bucata da parte a parte. o
sarebbe costituita da strati densi e radi, come avviene
in un corpo animale.. "Nel primo caso, ciò sarebbe
manifesto nell'eclissi del sole; poiché la luna
trovandosi fra esso e la terra, i raggi solari
dovrebbero attraversarne quei buchi e rendere luminose
le macchie. Nel secondo caso, la parte densa, benché più
indietro, dovrebbe ugualmente riflettere la luce del
sole, come si può provare ponendo dinanzi a noi due
specchi ugualmente vicini ed un terzo un poco più
lontano." (Nardi) Infatti l'immagine riflessa dal terzo
specchio non sarà uguale, in grandezza, a quelle
riflesse dagli altri due, tuttavia presenterà la stessa
qualità di luce, senza macchie. |
106 |
Or, come ai
colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
e dal colore e dal freddo primai, |
|
106 |
Ora come sotto i colpi dei
caldi raggi solari la materia prima della neve (cioè
l’acqua) rimane priva (nudo) e del colore bianco e del
freddo di cui prima era costituita, |
109 |
così rimaso
te ne l'intelletto
voglio informar di luce sì vivace,
che ti tremolerà nel suo aspetto. |
|
109 |
allo stesso modo la tua
mente è rimasta (sgombra delle erronee opinioni di
prima) e voglio infondervi una nuova forma mediante una
verità così luminosa, che nel suo rivelarsi scintillerà
davanti a te come luce di stelle. |
|
Esaurita la critica dell'opinione averroistica, Beatrice
si appresta a dimostrare la tesi, già accennata in
quella critica, che le macchie lunari sono dovute a una
proprietà risultante, dal principio formale. ossia a una
qualità intrinseca ed essenziale della luna. Tuttavia,
per svolgere questa dimostrazione, ha bisogno di
prendere le mosse dall'alto, enunciando la dottrina
fondamentale intorno all'ordine dei cieli e alle loro
influenze. Il canto secondo, perciò, a partire dal verso
112, continua la solenne lezione sull'universo iniziata
nel canto primo, rivelando così che la sottile e arida
disquisizione scientifica sulle macchie lunari, altro
non era che un pretesto per passare ad un tema ben più
importante, per svolgere il quale il Poeta saprà
ritrovare il tono alto e commosso delle prime terzine
del canto. |
112 |
Dentro dal
ciel de la divina pace
si gira un corpo ne la cui virtute
l'esser di tutto suo contento giace. |
|
112 |
Entro l’Empireo, il cielo immobile,
ruota un cielo nella cui potenza attiva prende
fondamento la vita di tutto ciò che e contenuto nel suo
giro. |
|
Dentro l'Empireo, il cielo immobile che è sede di Dio (cfr.
Paradiso canto I, verso 122), inizia il suo movimento la
nona sfera celeste (Primo Mobile o Cielo Cristallino),
la cui azione, o potenza informatrice (virtute), regge
tutta la vita del cosmo: senza di esso "non sarebbe qua
giù generazione né vita d'animale o di piante: notte non
sarebbe né die, né settimana né mese né anno, ma tutto
l'universo sarebbe disordinato, e lo movimento de li
altri [cieli] sarebbe indarno" (Convivio Il, XIV, 17).
In questa ultima parte del canto è evidente in Dante
l'influsso, sia pure attraverso l'elaborazione degli
Scolastici, di dottrine neoplatoniche, giunte al
Medioevo attraverso le pagine di alcuni scrittori della
letteratura cristiana antica e soprattutto attraverso le
opere di Avicenna. |
115 |
Lo ciel
seguente, c'ha tante vedute,
quell' esser parte per diverse essenze,
da lui distratte e da lui contenute. |
|
115 |
Il cielo successivo, che si adorna di
tante stelle visibili, distribuisce quella vita
(ricevuta dal Primo Mobile) alle diverse stelle, da esso
distinte e in esso contenute. |
|
Il cielo ottavo, che presenta nelle sue stelle (vedute)
una diversità materiale derivante da una diversità di
principi formali (cfr. versi 70-72), opera una prima
differenziazione in questa influenza indistinta ricevuta
dal Primo Mobile: dalla "natura dell'orbe ottavo e delle
stelle fisse traggono... le piante e gli animali che
sono in terra, le loro diverse proprietà e differenze
specifiche"(Nardi). |
118 |
Li altri
giron per varie differenze
le distinzion che dentro da sé hanno
dispongono a lor fini e lor semenze. |
|
118 |
Gli altri sette cieli
dispongono in maniera differente le essenze distinte che
hanno in se in modo che esse conseguano i loro effetti e
attuino i loro influssi. |
|
Perché la virtute del Primo Mobile sia pienamente adatta
ad agire sulla materia del mondo infralunare, creata
informe da Dio, occorre che gli altri sette cieli, dopo
aver ricevuto, attraverso il cielo ottavo, questa
influenza, la sottopongano a ulteriori differenziazioni
(corrispondenti alla diversa natura di ciascuno),
moltiplicandone gli effetti. |
121 |
Questi
organi del mondo così vanno,
come tu vedi omai, di grado in grado,
che di sù prendono e di sotto fanno. |
|
121 |
I cieli, questi organi
dell'universo, operano cosi, come ormai tu comprendi, di
gradino in gradino, in modo che ciascuno riceve
l’influenza del cielo superiore e trasmette la sua
influenza a quello inferiore. |
124 |
Riguarda
bene omai sì com' io vado
per questo loco al vero che disiri,
sì che poi sappi sol tener lo guado. |
|
124 |
Ora osserva bene come io
per mezzo di questo ragionamento giungo alla verità che
desideri conoscere, affinché tu poi da solo sappia
compiere il passaggio (che conduce alla soluzione del
tuo problema). |
127 |
Lo moto e la
virtù d'i santi giri,
come dal fabbro l'arte del martello,
da' beati motor convien che spiri; |
|
127 |
Il movimento e l’influenza
delle sfere celesti, come l’azione del martello deriva
dal fabbro che lo usa, devono derivare dalle
intelligenze angeliche che le muovono; |
|
Nell'ultima parte della sua argomentazione Beatrice
rivela che il moto e le influenze degli organi del mondo
hanno origine dalle intelligenze angeliche. Il rapporto
fra azione dei cieli e azione degli angeli è spiegato
con l'esemplificazione del verso 128: come l'arte del
martello dipende dal labbro che lo adopera, così i cieli
sono soltanto lo strumento delle Influenze che da loro
derivano e che, in ultima analisi, dipendono solo dalle
intelligenze motrici dei nove cori angelici. |
130 |
e 'l ciel
cui tanti lumi fanno bello,
de la mente profonda che lui volve
prende l'image e fassene suggello. |
|
130 |
e il cielo che è abbellito
da tante stelle (cioè l’ottava sfera), riceve l’impronta
dall’alta intelligenza angelica che lo fa muovere e la
imprime come suggello (nei cieli sottostanti). |
133 |
E come
l'alma dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
a diverse potenze si risolve, |
|
133 |
E come l’anima dentro il
vostro corpo corruttibile dispiega la sua virtù in
membra diverse e ordinate alle diverse facoltà
sensitive, |
136 |
così
l'intelligenza sua bontate
multiplicata per le stelle spiega,
girando sé sovra sua unitate. |
|
136 |
così l’intelligenza
angelica (che muove il Cielo Stellato) svolge la sua
azione nelle stelle manifestandola in molteplici modi,
continuando il suo movimento nella propria sostanziale
unità. |
|
Le diversità che appaiono nel Cielo Stellato non sono
altro che il riflesso o image delle idee presenti nella
mente degli angeli, (qui, in particolare, i Cherubini)
che muovono questo cielo. |
139 |
Virtù
diversa fa diversa lega
col prezïoso corpo ch'ella avviva,
nel qual, sì come vita in voi, si lega. |
|
139 |
La diversa influenza
angelica si unisce variamente nelle sfere sottostanti
con la materia incorruttibile del cielo che essa anima,
nella quale si trasfonde, cosi come la vita si trasfonde
in voi uomini. |
142 |
Per la
natura lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
come letizia per pupilla viva. |
|
142 |
Per la natura beata (degli
spiriti motori) dai quali deriva, l’influenza angelica,
unitasi al corpo celeste, risplende nelle diverse parti
di esso, come la gioia dell’animo risplende attraverso
la vivacità della pupilla. |
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Da essa vien
ciò che da luce a luce
par differente, non da denso e raro;
essa è formal principio che produce, |
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Da questa influenza, non
dalla densità e rarefazione della materia, deriva la
differente luminosità tra stella e stella: questa
influenza è il principio attivo che produce, |
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conforme a
sua bontà, lo turbo e 'l chiaro». |
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secondo la sua diversa
potenza, l’oscurità e la luminosità”. |
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Dalle intelligenze angeliche, aventi come attributo
principale la letizia, che proviene loro direttamente da
Dio, si deve desumere la causa delle diversità che si
scorgono nei corpi celesti. "La letizia, delle
intelligenze si esprime dunque negli astri come luce, e
a una maggiore o minore intensità di letizia corrisponde
nella stella, o nelle sue parti, un maggiore o minor
grado di luminosità. Che poi queste diversità si
accumulino e diventino più evidenti nella faccia
inferiore, e a noi visibile della luna, ciò dipenderà
dal fatto che, essendo la luna il più basso dei pianeti,
in essa vengono a trovarsi congregate tutte le virtù dei
cieli superiori, chiamate ad operare direttamete sulla
materia terrena." (Sapegno). |