1 |
Oppresso di
stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre colà dove più si confida; |
|
1 |
Sopraffatto dallo stupore (per il grido dei beati), mi
volsi verso la mia guida, come fanciullo che ricorre
sempre alla madre, colei nella quale ha maggior fiducia; |
4 |
e quella,
come madre che soccorre
sùbito al figlio palido e anelo
con la sua voce, che 'l suol ben disporre, |
|
4 |
e Beatrice, come madre che
subito viene in soccorso al figlio pallido e ansioso con
le sue parole, che sogliono tranquillizzarlo, |
7 |
mi disse:
«Non sai tu che tu se' in cielo?
e non sai tu che 'l cielo è tutto santo,
e ciò che ci si fa vien da buon zelo? |
|
7 |
mi disse: “Non ti ricordi
che sei in paradiso? e non sai che in paradiso tutto è
santo, e che tutto quello che qui si fa deriva da carità
ardente? |
10 |
Come
t'avrebbe trasmutato il canto,
e io ridendo, mo pensar lo puoi,
poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto; |
|
10 |
Ora, dopo che il grido dei
beati ti ha tanto sconvolto, puoi comprendere quanto più
ti avrebbero sconvolto il loro canto e lo splendore del
mio sorriso (cfr. canto XXI, versi 58-60 e 4-12); |
13 |
nel qual, se
'nteso avessi i prieghi suoi,
già ti sarebbe nota la vendetta
che tu vedrai innanzi che tu muoi. |
|
13 |
e se tu avessi potuto capire la preghiera contenuta in
quel grido, già ti sarebbe svelata la punizione divina
che vedrai prima della tua morte. |
|
Il grido innalzato da tutti i beati del cielo di Saturno
dopo l'invettiva di Pier Damiano contro i moderni
pastori, ha invocato la punizione divina su coloro che
sono causa della degenerazione morale della Chiesa.
Benvenuto, il Buti e il Landino ritengono che nei versi
13-15 ci sia un allusione all'episodio di Anagni
(Purgatorio XX, 86), mentre per il Del Lungo la vendetta
prossima sarà quella che colpirà Clemente V, il
pontefice che trasferì la sede papale ad Avignone.
Tuttavia Dante sembra lasciare volutamente indeterminata
l'espressione dei versi 14-15, la quale rientrerebbe,
dunque, come tante altre del Paradiso, nell'atmosfera di
speranza e di attesa della renovatio universale che
caratterizza la terza cantica. |
16 |
La spada di
qua sù non taglia in fretta
né tardo, ma' ch'al parer di colui
che disïando o temendo l'aspetta. |
|
16 |
La spada della giustizia
divina non colpisce né troppo presto né troppo tardi,
eccetto che nel giudizio di colui che, desiderando la
punizione divina o temendola per se, l’aspetta (con
ansia). |
19 |
Ma rivolgiti
omai inverso altrui;
ch'assai illustri spiriti vedrai,
se com' io dico l'aspetto redui». |
|
19 |
Ma osserva
ormai gli altri beati, perché vedrai anime molto famose,
se rivolgi lo sguardo così come ti dico”. |
22 |
Come a lei
piacque, li occhi ritornai,
e vidi cento sperule che 'nsieme
più s'abbellivan con mutüi rai. |
|
22 |
Rivolsi gli occhi, come Beatrice desiderava, e vidi un
numero infinito di piccole sfere che illuminandosi a
vicenda splendevano più intensamente. |
25 |
Io stava
come quei che 'n sé repreme
la punta del disio, e non s'attenta
di domandar, sì del troppo si teme; |
|
25 |
Io ero nello stesso stato d’animo di colui che reprime
in sé lo stimolo del desiderio, e non osa domandare,
tanto teme di eccedere i limiti della discrezione; |
28 |
e la
maggiore e la più luculenta
di quelle margherite innanzi fessi,
per far di sé la mia voglia contenta. |
|
28 |
e la più grande e la più
luminosa di quelle gemme si fece avanti, per appagare il
mio desiderio rivelandomi il suo nome. |
|
La seconda anima del cielo di Saturno è quella di San
Benedetto. Nato a Norcia (Umbria) nel 480, iniziò i suoi
studi a Roma, ma a quattordici anni si ritirò a vita
eremitica prima a Enfide (oggi Affile) e poi in una
grotta presso Subiaco. La fama della sua santità si
diffuse ben presto e i monaci del vicino convento di
Vicovaro lo vollero nel 510 come loro superiore.
Tuttavia, a causa della severità della disciplina da lui
imposta, i suoi confratelli tentarono, poco dopo, di
avvelenarlo. Ritornato alla vita eremitica raccolse in
breve un gran numero di discepoli, per i quali costruì a
Subiaco dodici monasteri. In Campania, a Montecassino,
dopo aver distrutto un tempio di Apollo che sorgeva nel
luogo ed aver convertito la popolazione pagana, fondò
nel 528 il celebre monastero. Qui mori nel 543.
Redatta a Montecassino, la sua Regola imposta la vita
cenobitica sulla preghiera e sul lavoro (ora et labora),
innalzando lo studio e il lavoro alla dignità della
preghiera, cosicché, proprio nel periodo delle invasioni
barbariche, i monaci benedettini svolsero una funzione
importantissima in campo culturale (conservando e
copiando codici, salvarono molto del patrimonio
letterario antico) e in campo economico (lavorando la
terra e bonificando zone paludose, salvaguardarono
l'agricoltura). |
31 |
Poi dentro a
lei udi': «Se tu vedessi
com' io la carità che tra noi arde,
li tuoi concetti sarebbero espressi. |
|
31 |
Poi dentro la luce che
l’avvolgeva udii: “Se tu conoscessi, come conosco io, la
carità che arde in noi, avresti espresso il tuo pensiero
(senza timore di essere inopportuno). |
34 |
Ma perché
tu, aspettando, non tarde
a l'alto fine, io ti farò risposta
pur al pensier, da che sì ti riguarde. |
|
34 |
Ma affinché tu, indugiando
(a parlare), non debba ritardare il raggiungimento della
tua alta meta (la visione di Dio nell’Empireo),
risponderò alla domanda soltanto pensata che tu esiti
così tanto (a tradurre in parole). |
|
La drammatica tensione che si era venuta accumulando
alla fine del canto precedente con l'invettiva di Pier
Damiano per erompere nel grido improvviso, maestoso,
terribile dei beati, si prolunga nell'esordio del canto
XXII. Il tuono che ha scosso la volta del settimo cielo
è ormai passato, ma "seguita ad esser presente nel suo
effetto, che è oppression di stupore, e nel suo
contrario, un gran silenzio intorno allo smarrito
silenzio del Poeta" (Chiari). La potenza di quel grido e
l'assolutezza di questo silenzio non sono che immagini
sensibili della sproporzione fra la dimensione umana di
Dante e la misura divina dei beati, fra il cielo e la
terra e questa distanza torna ad essere dichiarata nella
quattro terzine iniziali: nell'immagine del fanciullo
che cerca protezione (si noti l'abile scelta lessicale:
un diminutivo, pargola e due aggettivi di notevole forza
significante, palido, e - anelo - che fissano
drammaticamente uno stato d'animo d'incertezza e di
ansia), nel rapido accorrere della madre, nelle parole
di Beatrice che sottolineano l'esistenza di questa
sproporzione. Ma dopo il severo accenno alla prossima
vendetta di Dio sui suoi indegni ministri e il
minaccioso balenio della spada vindice (ancora il divino
che sovrasta l'umano), ecco un sorridente invito a
riprendere contatto, senza timori, con la luce e la
carità dei beati, uno dei quali previene la domanda di
Dante per non ritardargli neppure di un attimo la
visione di Dio. E' interessante notare l'insistenza con
la quale il Poeta, nei due canti dei contemplanti (canto
XXI, versi 61 sgg.), ritorna sul tema dell'alta carità
che lega le anime fra di loro e le sospinge verso il
pellegrino. Il Chiari così commenta: "la nota della
carità ha vibrato fin dal primo etereo apparire della
prima creatura di paradiso, e. Dante non ora soltanto
tace aspettando l'incoraggiamento o il permesso,
tuttavia sembra che il Poeta abbia voluto istituire "un
segreto rapporto... tra le tante tacite ma rapite
sospensioni di questi canti dei contemplatori e un più
palpitante ardore di carità che investe le anime e dalle
anime su di lui si riversa e da lui alle anime torna.
Come se Dante anche con questi mezzi avesse voluto
creare in sé e nel lettore una immagine viva del
contemplare, quale egli sentiva che potesse e dovesse
essere. Profondità, cioè, intensa del sentire, ma tutta
interiormente espressa in un solitario colloquio tra Dio
e l'anima". |
37 |
Quel monte a
cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta; |
|
37 |
La vetta di quel monte sulle cui
pendici sorge Cassino, fu un tempo frequentata da
popolazioni immerse nelle false credenze del paganesimo
e restie (ad accogliere la vera fede); |
|
Il borgo di Cassino sorge alle pendici del monte Cairo,
sulla cui vetta si trovava un venerato tempio di Apollo,
che San Benedetto fece abbattere (dell'antica acropoli
restano ancora oggi grandiose rovine ) per edificare, al
suo posto, una cappella dedicata a San Giovanni
Battista. |
40 |
e quel son
io che sù vi portai prima
lo nome di colui che 'n terra addusse
la verità che tanto ci soblima; |
|
40 |
ed io sono colui che per
primo diffuse in quei luoghi il nome di Cristo, colui
che portò sulla terra la verità che ci innalza alla
beatitudine eterna; |
43 |
e tanta
grazia sopra me relusse,
ch'io ritrassi le ville circunstanti
da l'empio cólto che 'l mondo sedusse. |
|
43 |
e risplendette sopra di me
tanta grazia divina, che riuscii ad allontanare gli
abitanti dei borghi circostanti dall’empio culto pagano
che aveva attratto a sé tutto il mondo. |
46 |
Questi altri
fuochi tutti contemplanti
uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere i fiori e ' frutti santi. |
|
46 |
Questi altri spiriti
luminosi furono nella vita tutti dediti alla
contemplazione, accesi di quell’ardente carità che
produce pensieri e opere sante. |
49 |
Qui è
Maccario, qui è Romoaldo,
qui son li frati miei che dentro ai chiostri
fermar li piedi e tennero il cor saldo». |
|
49 |
Qui si trova Macario, qui
si trova Romualdo, qui si trovano quei benedettini che
rimasero fedeli alla vita del chiostro tenendosi
stretti, con saldo cuore, alla regola”. |
|
Non sappiamo se Dante intenda riferirsi a Macario
d'Alessandria, discepolo di Sant'Antonio e fondatore del
monachesimo orientale, morto nel 404, oppure a Macario
l'Egiziano, morto nel 391, dopo aver condotto vita
eremitica nel deserto libico. Poiché essi vennero spesso
confusi, il Porena conclude che è probabile che anche
Dante li confondesse. E' certo, tuttavia, che il Poeta
abbia voluto accostare, alle figure del monachesimo
occidentale, un insigne rappresentante del monachesimo
orientale.
Romualdo nacque a Ravenna dalla nobile famiglia degli
Onesti verso il 952 e morì nel 1027. Entrato nell'ordine
benedettino e costatatane la corruzione, divenne fiero
sostenitore della riforma monastica, creando,
sull'antico ceppo di San Benedetto, l'ordine eremitico
dei Camaldolesi, così chiamato dal monastero di
Camaldoli, il più celebre fra quelli fondati da San
Romualdo. |
52 |
E io a lui:
«L'affetto che dimostri
meco parlando, e la buona sembianza
ch'io veggio e noto in tutti li ardor vostri, |
|
52 |
Ed io a lui: “La carità
che dimostri rivolgendomi la parola, e la benevola
espressione che vedo e osservo nello aspetto luminoso di
voi tutti, |
55 |
così m'ha
dilatata mia fidanza,
come 'l sol fa la rosa quando aperta
tanto divien quant' ell' ha di possanza. |
|
55 |
hanno accresciuto la mia
fiducia così come fa il sole con la rosa quando essa (al
calore dei raggi) si apre in tutta la sua pienezza. |
58 |
Però ti
priego, e tu, padre, m'accerta
s'io posso prender tanta grazia, ch'io
ti veggia con imagine scoverta». |
|
58 |
Perciò ti prego, e tu,
padre, dimmi se sono degno di ottenere una grazia tanto
grande, affinché possa vederti nella tua figura umana,
liberata (dalla luce che la fascia)”. |
61 |
Ond' elli:
«Frate, il tuo alto disio
s'adempierà in su l'ultima spera,
ove s'adempion tutti li altri e 'l mio. |
|
61 |
Per cui egli rispose:
“Fratello, il tuo alto desiderio sarà soddisfatto
nell’ultimo cielo (nell’Empireo, sede di Dio e reale
dimora dei beati), dove tutti desideri e perciò anche il
mio (che è quello di accogliere la tua richiesta)
trovano il loro appagamento, |
64 |
Ivi è
perfetta, matura e intera
ciascuna disïanza; in quella sola
è ogne parte là ove sempr' era, |
|
64 |
Là ciascun desiderio e
compiuto, giunto alla sua pienezza e senza difetti; solo
in quest’ultimo cielo ogni parte è perfettamente
immobile, |
67 |
perché non è
in loco e non s'impola;
e nostra scala infino ad essa varca,
onde così dal viso ti s'invola. |
|
67 |
perché (esso) non è nello
spazio, e non ha i poli celesti intorno a cui girare; e
la nostra scala sale fin lassù, per cui si sottrae così
alla tua vista. |
|
L'Empireo è il cielo della perfetta quiete, essendo
pienamente appagato dalla visione di Dio, che ha sede in
esso, laddove tutti gli altri cieli esprimono con un
movimento più o meno intenso, a seconda della distanza,
il desiderio di ricongiungersi a Lui ( cfr. Paradiso 1,
122; Convivio II. III, 8). L'Empireo, a differenza degli
altri cieli, non esiste nello spazio, ma solo nella
mente divina, nella quale fu "formato" (Convivio II,
III, 11).
Nostra scala infino ad essa
varca: la contemplazione mistica, di cui la
scala di Saturno è simbolo, unisce dunque direttamente
gli spiriti contemplativi a Dio, mentre colui che non è
pervenuto al grado di spiritualità proprio della mistica
dovrà completare tutta la sua ascesa prima di godere la
visione beatificante di Dio. Solo allora ogni desiderio
potrà essere appagato.
L'interpretazione che il Montanari offre riguardo alla
richiesta di Dante e alla risposta di San Benedetto è
degna di nota: "Questo desiderio respinto può sembrare
una divagazione un po' arbitraria nell'insieme del
disegno: ma non lo è strutturalmente, poiché rappresenta
concretamente le impazienze umane nell'elevazione
ascetico-mistica (cfr. Purgatorio VI, 49 sgg.), né tanto
meno poeticamente poiché libera il colloquio da ogni
schematicità catechistica e si sviluppa attorno ai
bellissimi versi 55-57: la confidenza con cui Dante si
rivolge al Santo per un desiderio non intellettuale ma
affettuosamente sensibile (vedere il Santo con i tratti
corporei che ebbe in terra) dice meglio di ogni
esplicita descrizione come l'anima di Dante si senta
elevare ed espandere nell'amore". |
70 |
Infin là sù
la vide il patriarca
Iacobbe porger la superna parte,
quando li apparve d'angeli sì carca. |
|
70 |
Il patriarca Giacobbe, quando la scala
gli apparve così piena di angeli (che salivano e
scendevano) ne vide la cima protendersi fino all’ultimo
cielo. |
|
Per quanto riguarda il riferimento biblico cfr. canto
XXI, nota alla terzina 31. |
73 |
Ma, per
salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa è per danno de le carte. |
|
73 |
Ma, per salirla, oggi nessuno alza i
piedi da terra, e la mia regola è rimasta solo per
sciupare la carta (dove viene trascritta). |
|
Per procedere sulla strada della contemplazione, secondo
la regola benedettina è necessario il distacco dai beni
terreni, che nessuno dei moderni seguaci di San
Benedetto si sforza di attuare. Dopo l'inno all'Empireo,
nel quale la scientifica rappresentazione dell'ultimo
cielo si era alla fine animata, come nota il Chiari,
della concreta ebbrezza del tendere ad esso e del
possederlo e si era conclusa con quel gran volo d'angeli
(verso 72), si propone, stridente, un contrasto: "La
perfezione dell'Empireo suggerisce il ricordo di ciò che
fu la sua nostalgia già sulla terra per San Benedetto e,
per contrasto, richiama il pensiero dei troppi che per
molto tempo non hanno ascoltato il dolcissimo invito del
cielo. Ma intanto le parole del Santo aggiungono, ora,
qualche particolare di più alle parche notizie
biografiche dette di sopra, qualche particolare della
intima religiosità che ispirò e accompagnò le opere del
Santo. Nei versi precedenti era dato più risalto alle
opere e indirettamente alla bellezza della idea che le
ispirò e le illuminò; qui è per sommi capi esposto tutto
il complesso del programma pensato e vissuto e attuato
con tanta convinzione, con tanto ardore, con tanto
intimo gaudio". |
76 |
Le mura che
solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria. |
|
76 |
I monasteri che solevano
essere rifugio di santa vita sono diventati spelonche di
ladroni, e le tonache monacali son simili a sacchi pieni
di farina guasta. |
79 |
Ma grave
usura tanto non si tolle
contra 'l piacer di Dio, quanto quel frutto
che fa il cor de' monaci sì folle; |
|
79 |
Ma la più grave usura
(frutto del denaro dato a prestito) non offende tanto
profondamente la volontà di Dio, quanto l’avidità delle
rendite ecclesiastiche che travia l’animo dei monaci, |
82 |
ché
quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti né d'altro più brutto. |
|
82 |
perché tutto ciò che la
Chiesa custodisce, appartiene ai poveri che chiedono la
carità in nome e per amore di Dio, non ai parenti degli
ecclesiastici o ad altre persone che è preferibile non
nominare (concubine e figli naturali). |
|
San Bonaventura aveva affermato che le decime spettano
di diritto ai poveri (Paradiso XII, 93) e San Benedetto
ribadisce con forza quel concetto, ampliandolo: tutto è
della gente che per Dio dimanda, perché il pontefice non
è "possessore" dei beni della Chiesa, ma "dispensatore"
di essi ai poveri (Monarchia III, X, 17). |
85 |
La carne d'i
mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda. |
|
85 |
La natura umana è cosi
debole, che giù nella terra un buon proposito iniziale
(quale fu quello offerto dalla Regola di San Benedetto)
non dura neppure per il periodo che va dalla nascita
della quercia al suo fruttificare (periodo che è di
circa venti anni). |
88 |
Pier
cominciò sanz' oro e sanz' argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento; |
|
88 |
San Pietro diede inizio
alla comunità della Chiesa senza possedere né oro né
argento, ed io diedi inizio al mio ordine con le
preghiere e i digiuni, e San Francesco con la umiltà. |
|
Tre esemplificazioni in tre versi scanditi e martellati
per presentare le caratteristiche evangeliche della
Chiesa: San Pietro la fondò senza bisogno di beni
terreni (Atti degli Apostoli III, 6; cfr. Inferno XIX,
94,95; Paradiso XXI, 127,129) e San Benedetto e San
Francesco predicarono solo il possesso dei beni
spirituali. Le tre grandi figure "si distaccano nette,
in sintetici particolari...: Pier.., e io... e
Francesco; mentre fra cominciò e convento, con una
spezzatura di costruzione, è racchiuso tutto il quadro".
(Grabher) |
91 |
e se guardi
'l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov' è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno. |
|
91 |
E se consideri il periodo
iniziale di ciascuna comunità, e poi rifletti fino a che
punto essa è degenerata, tu vedrai che il bianco si è
mutato in nero (cioè: le virtù iniziali si sono cambiate
negli opposti vizi). |
94 |
Veramente
Iordan vòlto retrorso
più fu, e 'l mar fuggir, quando Dio volse,
mirabile a veder che qui 'l soccorso». |
|
94 |
Tuttavia l’aver fatto
retrocedere le acque del Giordano e aprire le acque del
mare, quando Dio lo volle, furono cose più mirabili a
vedersi di quello che sarà il rimedio divino a questa
corruzione”. |
|
Durante l'esodo degli Ebrei dall'Egitto verso la
Palestina, il Mar Rosso si aperse per permettere il
passaggio di Mosè e del suo popolo (Esodo XIV, 21-29) e
il fiume Giordano ritirò le sue acque di fronte a Giosuè
e alla sua gente (Giosuè III, 14-17). La terzina
dantesca, nella brevità del suo giro di frase, è
improntata alla stessa brevità e velocità del salmo
biblico (CXIV, 3: "Il mare vide e si ritrasse, il
Giordano si volse a ritroso" ) che la ispira.
Il Tommaseo ha giudicato la costruzione di questa
terzina incerta come la speranza di Dante in un futuro
intervento divino. In realtà questa è la costruzione
caratteristica dello stile profetico: nelle parole
tronche (Iordan... fuggir... veder) sulle quali battono
vigorosi gli accenti, nell'uso di termini rari, quali il
latinismo retrorso, che Dante non esita a trasferire
tale e quale dal testo biblico al suo volgare, nella
forma concisa, accentrata intorno alla parola più
significativa, mirabile, che testimonia la presenza del
miracolo, non c è "oscurità o contorsione, ma lo stile
dantesco folto e rapido, animato dal senso della potenza
divina". (Malagoli) |
97 |
Così mi
disse, e indi si raccolse
al suo collegio, e 'l collegio si strinse;
poi, come turbo, in sù tutto s'avvolse. |
|
97 |
Così mi
parlò, e poi si riunì alla sua schiera, e questa si
chiuse in un gruppo compatto; poi, come un turbine, salì
roteando verso l’Empireo. |
100 |
La dolce
donna dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala,
sì sua virtù la mia natura vinse; |
|
100 |
La mia dolce
guida mi sospinse dietro a loro, su per quella scala,
con un solo cenno, tanto la sua virtù riuscì a vincere
il peso del mio corpo; |
103 |
né mai qua
giù dove si monta e cala
naturalmente, fu sì ratto moto
ch'agguagliar si potesse a la mia ala. |
|
103 |
e mai sulla terra, dove si
sale e si scende con mezzi naturali vi fu un movimento
così veloce da poter, si paragonare alla rapidità del
mio volo. |
106 |
S'io torni
mai, lettore, a quel divoto
trïunfo per lo quale io piango spesso
le mie peccata e 'l petto mi percuoto, |
|
106 |
Così possa io tornare, o
lettore, in paradiso per meritare il quale spesso piango
i miei peccati e mi percuoto il petto, |
109 |
tu non
avresti in tanto tratto e messo
nel foco il dito, in quant' io vidi 'l segno
che segue il Tauro e fui dentro da esso. |
|
109 |
(come è vero) che io vidi
la costellazione dei Gemelli, che segue quella del Toro,
ed entrai in essa in un tempo più breve di quello che tu
avresti impiegato a mettere e trarre il dito dal fuoco. |
|
Dante ascende all'ottavo cielo, quello delle stelle
fisse, nel quale si trova la costellazione dei Gemelli,
che nello Zodiaco è immediatamente preceduta da quella
del Toro. |
112 |
O glorïose
stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno, |
|
112 |
O stelle dispensatrici di
gloria, o luce piena di nobile potenza, all’influsso
della quale devo attribuire tutto il mio ingegno,
qualunque sia il suo valore, |
115 |
con voi
nasceva e s'ascondeva vosco
quelli ch'è padre d'ogne mortal vita,
quand' io senti' di prima l'aere tosco; |
|
115 |
il sole, che (con il suo
calore) è sorgente di ogni vita sulla terra, nasceva e
tramontava in congiunzione con voi, allorché respirai
per la prima volta l’aria di Toscana; |
|
Dante nacque tra il 21 maggio e il 21 giugno, periodo
nel quale il sole è in congiunzione con la costellazione
dei Gemelli che, secondo la concezione astrologica del
tempo, predispone allo studio e alle lettere (cfr. a
questo proposito Inferno XV, 55-57; XXVI, 23,24;
Purgatorio XXX, 109-111). |
118 |
e poi,
quando mi fu grazia largita
d'entrar ne l'alta rota che vi gira,
la vostra regïon mi fu sortita. |
|
118 |
e poi, quando mi fu
concessa la grazia di salire nel cielo (delle stelle
fisse), che girando provoca anche il vostro movimento,
ebbi in sorte di giungere nella parte di questo cielo da
voi occupato. |
121 |
A voi
divotamente ora sospira
l'anima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira. |
|
121 |
A voi ora il mio animo
s’innalza devotamente, per acquistare la forza
necessaria ad affrontare l’ardua prova che lo attira a
se. |
|
L'interpretazione dei versi 121-123 è controversa,
ritenendo il Barbi che il passo forte sia quello della
morte (Dante, in questo caso, invocherebbe l'assistenza
della costellazione sotto la quale nacque e nella quale
entrò salendo al cielo Stellato) e ribattendo il Porena
che "da una costellazione invocata e ringraziata come
datrice d'ingegno" il Poeta può aspettare "un aiuto al
suo ingegno, non al suo coraggio e alla sua virtù
morale". La virtute che il Poeta invoca dai Gemelli e
quindi da Dio, per il quale gli astri esercitano i loro
influssi, consisterà, dunque, in un potenziamento delle
proprie capacità poetiche, dovendo descrivere l'ultima
visione (il forte passo) del paradiso, quella della
corte celeste e di Dio stesso. |
124 |
«Tu se' sì
presso a l'ultima salute»,
cominciò Bëatrice, «che tu dei
aver le luci tue chiare e acute; |
|
124 |
“Tu sei così vicino a Dio”
cominciò Beatrice, “che i tuoi occhi devono ormai essere
limpidi e penetranti; |
127 |
e però,
prima che tu più t'inlei,
rimira in giù, e vedi quanto mondo
sotto li piedi già esser ti fei; |
|
127 |
e perciò, prima che tu
penetri più profondamente nella visione divina (t’inlei:
riferito a ultima salute), guarda verso il basso, e
osserva quanta parte del mondo ti ho ormai fatto
percorrere, |
130 |
sì che 'l
tuo cor, quantunque può, giocondo
s'appresenti a la turba trïunfante
che lieta vien per questo etera tondo». |
|
130 |
così che il tuo cuore si
presenti lieto, quanto più gli è possibile, alle schiere
trionfanti che avanzano piene di gaudio in questa sfera
celeste.” |
133 |
Col viso
ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante; |
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133 |
Ripercorsi con lo sguardo
tutti i sette cieli (che avevo attraversato), e vidi la
sfera terrestre così piccola, che sorrisi della sua
meschina apparenza; |
136 |
e quel
consiglio per migliore approbo
che l'ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo. |
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136 |
e riconosco come migliore
il giudizio di coloro che più la disprezzano; e chi
pensa alle cose celesti (invece che a quelle terrene) si
può chiamare veramente virtuoso. |
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Lo spunto per la rappresentazione della terra vista
dall'alto dei cieli e per il felice passaggio dal tema
fisico-scientifico a quello morale della terzina 136, è
offerto da un passo del Somnium Scipionis di Cicerone
(111-VI). Ancora una volta un elemento desunto dalla
cultura classica serve a commentare un momento pieno di
significato, che non può non richiamare il discorso che
Virgilio ha rivolto al discepolo, alla soglia del
paradiso terrestre, per riassumere le tappe principali
della lunga strada superata. Come là Dante doveva
prendere coscienza del superamento definitivo del
temporal foco e dell'etterno con l'acquisto del libero
arbitrio volto al bene, così ora deve prepararsi
all'incontro con le schiere trionfanti dei santi guidati
da Cristo stesso. L'Apollonio commenta con molta
finezza, prendendo spunto dal verso 68 ( e nostra scala
infino ad essa varca): "Distacco, dunque e congedo: ché
il canto anela alla scala santa, La scande di volo, con
più fretta che corse la scala dopo il settimo cerchio
del purgatorio; e non Virgilio l'attende con la sua
corona, ma capovolti i cieli dei pianeti, e torbida
minuscola la terra. Quelli son ora la sua corona. Il
commento è stupendo: dall'alto della stella nativa, gli
eterni Gemelli, il Poeta innalza un inno che gli
riconcilia il mondo, nel segno del sole, e la terra
amara di Toscana... e le stelle fanno alle parole
sentiero e alla figura corona. |
139 |
Vidi la
figlia di Latona incensa
sanza quell' ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa. |
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139 |
Vidi la luna (figlia di Latona e di
Apollo, in quanto identificata, nella mitologia
classica, con Diana) illuminata senza quelle macchie a
causa delle quali io l’avevo ritenuta costituita da
parti rare e dense. |
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La luna appare senza le sue famose macchie, intorno alle
quali il Poeta ha discusso nel canto secondo del
Paradiso, perché esse sono visibili solo faccia rivolta
verso la terra, mentre Dante ora, contemplandola
dall'alto, ne scorge l'altra faccia, luminosa e nitida. |
142 |
L'aspetto
del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com' si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone. |
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142 |
Qui, o Iperione, riuscii a sopportare
la vista del sole, tuo figlio, e vidi, o Maia e Dione,
come intorno e vicino a lui si muovono i pianeti
(Mercurio e Venere). |
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Per la sua accresciuta forza visiva (cfr. versi
125-126), Dante può ora osservare, senza rimanerne
abbagliato, la luce del sole, che della mitologia
classica è considerato figlio di Iperione ( cfr. Ovidio
- Metamorfosi IV, 192-241), e può seguire i movimenti
del pianeta Mercurio e del pianeta Venere, presentati,
nelle antiche leggende, rispettivamente come figli di
Maia e di Dione. |
145 |
Quindi
m'apparve il temperar di Giove
tra 'l padre e 'l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove; |
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145 |
Di li mi apparve l’influsso temperatore
di Giove tra Saturno, suo padre, e Marte, suo figlio; e
di li vidi chiaramente il variare delle loro posizioni. |
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Giove, la temprata stella già presentata nel canto XVIII
(verso 68), si trova tra il pianeta Saturno, di
complessione fredda, e il pianeta Marte, di complessione
calda (cfr. Convivio II, XIII. 25). I pianeti, rispetto
alle stelle fisse, ruotano continuamente la loro
posizione nel cielo (cfr. Paradiso VIII, 3). |
148 |
quanto son
grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo. |
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148 |
E tutti e sette i pianeti
mi si mostrarono nella loro grandezza, e nella loro
velocità, e nella distanza che intercorre fra la zona
dell’uno e quella dell’altro. |
151 |
L'aiuola che
ci fa tanto feroci,
volgendom' io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve da' colli a le foci; |
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151 |
Mentre mi volgevo con la
costellazione dei Gemelli, la terra, che, pur piccola
come un’ala, ci rende tanto feroci (spingendoci gli uni
contro gli altri per il possesso dei suoi effimeri
beni), mi apparve tutta, dai suoi luoghi più alti fino a
quelli più bassi, dove i fiumi sfociano in mare. |
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Dopo aver percorso con lo sguardo tutti i pianeti, che
egli vede muoversi "come un perfetto ingranaggio di
cosmica orologeria " ( Montanari ), al Poeta appare,
appiattita e confusa per l'immensa distanza, la terra,
simile ad un'umile ala (l'immagine deriva da un passo di
Boezio - De consolazione philosophiae Il, 7 e viene
ripresa nella Monarchia III, XVI, Il),- dove gigantesca
è solo la ferocia con la quale gli uomini si odiano e si
combattono. Ma dalla terra e dalla sua tristezza il
Poeta subito si congeda, ritornando alla contemplazione
celeste attraverso lo sguardo di Beatrice. |
154 |
poscia
rivolsi li occhi a li occhi belli. |
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154 |
Poi rivolsi i miei occhi verso quelli
luminosi di Beatrice. |