1 |
Come
l'augello, intra l'amate fronde,
posato al nido de' suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde, |
|
1 |
Come l’uccello, in mezzo alle fronde amate (perché tra
esse vi è il suo nido), dopo aver riposato presso il
nido delle sue dolci creature durante la notte che ci
nasconde tutte le cose, |
4 |
che, per
veder li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati, |
|
4 |
il quale, per poter vedere
le care sembianze dei suoi nati e cercare il cibo con
cui nutrirli, ricerca nella quale gli sono gradite
(anche) le più dure fatiche, |
|
Secondo il Buti li aspetti distati sarebbero le cose che
l'uccello " desidera di vedere, cioè unde possa prendere
l'esca per arrecare ai suoi figliuoli".
L'interpretazione da noi accettata è offerta da quasi
tutti i commentatori antichi e, fra i moderni, il
Torraca ne ha dimostrato, con sapiente spiegazione, la
validità. |
7 |
previene il
tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l'alba nasca; |
|
7 |
previene il sorgere
dell’alba (fuori dal nido) posato su un ramo scoperto, e
attende con vivo desiderio l’apparire del sole,
guardando fissamente solo se spunti l’alba, |
10 |
così la
donna mïa stava eretta
e attenta, rivolta inver' la plaga
sotto la quale il sol mostra men fretta: |
|
10 |
così Beatrice stava eretta
e attenta, rivolta verso quella parte del cielo dove il
sole sembra rallentare il suo corso: |
|
Beatrice attende che appaia Cristo trionfante guardando
verso il meridiano, dove il sole si trova a mezzogiorno
e si muove più corusco e con più lenti passi (Purgatorio
XXXIII, 103). Il Buti commenta, ben comprendendo
l'importanza di questa notazione astronomica: "degna
cosa è che elli finge che Cristo si rappresentasse nel
mezzodi, acciò soprastesse sopra tutti li beati, come lo
sole sta sopra noi, quando è al meridiano".
Una lunga similitudine apre il canto del trionfo di
Cristo e dei beati, il canto della Chiesa trionfante che
si raccoglie per assistere alla consacrazione di Dante
pellegrino attraverso il triplice esame intorno alle
virtù teologali. Per quanto sia evidente in questi versi
il tessuto culturale che alimenta tutto il linguaggio
dantesco (Virgilio, Georgiche I, 413-414; II, 523; III,
178; IV, 514; Eneide II, 138; IV, 33; VI, 271; Stazio -
Achilleide I, 215; Lattanzio - De ave Phoenice 39-42),
possiamo parlare di " invenzione " da parte di Dante,
perché nuovo è il significato che attribuisce a tale
similitudine, nuova è la forza poetica di cui
l'arricchisce. Tutta l'intensità dell'attesa e la forza
mistica del desiderio, che ispirano la prima parte del
canto fino alla apparizione di Cristo, sono concentrate
in questo arco sintattico privo di complesse
determinazioni, in questo dettato schivo di grandi
ornamenti, il quale affida ogni sua forza espressiva
alla presenza di aggettivi che l'uso nel linguaggio
comune ci ha reso familiari.
L'immagine, pervasa, come tante altre dell'ultima parte
del Paradiso, da un intenso ardore, "ci mostra l'anima
del Poeta che s'è fatta una cosa sola con quella della
piccola e ardente sua creaturina" (Parodi), isolata
nell'immensità del cielo dalla spoglia grandezza di quel
terzo verso ( la notte che le cose ci nasconde), messa
di fronte ai grandi misteri della natura - le tenebre e
la luce - eppur vibrante di affettuosa umanità (per
trovar lo cibo onde li pasca). Ma è in quello sguardo
fiso con ardente affetto solo verso l'alba, che la
prepotente inclinazione lirica del Poeta dilaga,
fissando nell'immobilità e nel silenzio innaturali
dell'uccello l'attimo in cui l'anima si protende oltre i
suoi confini verso l'infinito e il mistero. Il passaggio
fra il termine significante l'uccello pieno di divino
amore, ansioso, proteso - e quello significato -
Beatrice. che "col suo atteggiamento assorbe anche lo
spirito di Dante, assillato dal desiderio e intanto
appagato dalla speranza (versi 13-18) " (Rossi, Frascino)
avviene, in questa similitudine, senza soluzione di
continuità, poiché, fin dall'inizio, nella
rappresentazione dell'augello il Poeta ha immesso il
sentimento d'amore e di contemplazione che pervade il
suo animo. |
13 |
sì che,
veggendola io sospesa e vaga,
fecimi qual è quei che disïando
altro vorria, e sperando s'appaga. |
|
13 |
così che, vedendola assorta e ansiosa, il mio stato
d’animo divenne uguale a quello di colui che desidera
ciò che ancora non ha, e acquieta il suo animo con la
speranza (di poter ottenere l’oggetto del suo
desiderio). |
16 |
Ma poco fu
tra uno e altro quando,
del mio attender, dico, e del vedere
lo ciel venir più e più rischiarando; |
|
16 |
Ma poco tempo trascorse
tra l’uno e I altro momento, tra il momento dell’attesa,
dico, e quello in cui vidi il cielo che si veniva sempre
più rischiarando. |
19 |
e Bëatrice
disse: «Ecco le schiere
del trïunfo di Cristo e tutto 'l frutto
ricolto del girar di queste spere!». |
|
19 |
E Beatrice
disse: “Ecco le schiere delle le anime redente dal
sacrificio di Cristo e tutto il frutto raccolto (con le
influenze esercitate sugli uomini) da questi cieli
ruotanti!” |
|
Assai valida la seguente osservazione del Buti a
proposito dell'espressione le schiere del triunfo di
Cristo: "Come li Romani, quando trionfano, menano
innanzi al carro la preda tolta ai nemici, così finge
l'autore che venisse Cristo colla preda ch'avea tolto al
dimonio, e si de' santi padri del limbo, e si de' santi
cristiani che sono salvati per la Passione".
Nella sua opera di salvazione del genere umano Cristo è
stato aiutato dal girar di queste spere, le quali
"servono all'uomo, regolando coi loro movimenti la
periodica generazione delle cose di quaggiù,
predisponendo il corso della vita umana, iniziando i
moti dell'animo, provvedendo colle varie influenze alla
varietà degli ingegni e delle indoli... A ragione quindi
Beatrice può dire che le schiere dei beati, celebranti
il trionfo di Cristo, son tutto il frutto ricolto del
girar delle spere celesti " ( Nardi ) . Il giudizio del
Nardi avvalla la spiegazione della maggior parte degli
interpreti antichi e moderni di Dante. Meno persuasiva è
la spiegazione del Porena, seguito dal Chimenz, secondo
cui le schiere del cielo ottavo sono formate dalle anime
di coloro che subirono l'infusso delle stelle fisse.
L'interpretazione del Daniello, seguito dal Tommaseo (
tutto il frutto sarebbe il guadagno ricavato dal Poeta
nell'ascesa attraverso i cieli), non si accorda con il
fatto che solo la visione finale di Dio sarà il frutto
del viaggio di Dante. |
22 |
Pariemi che
'l suo viso ardesse tutto,
e li occhi avea di letizia sì pieni,
che passarmen convien sanza costrutto. |
|
22 |
Mi sembrava che il suo volto si illuminasse di un
fulgore vivissimo, e i suoi occhi erano così pieni di
letizia, che sono costretto a procedere oltre senza
parlarne. |
25 |
Quale ne'
plenilunïi sereni
Trivïa ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni, |
|
25 |
Come nei pleniluni sereni la luna (Trivia: accanto a
quelli di Ecate e di Diana, è il nome solitamente usato
nella mitologia per indicare la luna) splende in mezzo
alle stelle che dipingono con le loro luci il cielo in
ogni sua parte, |
28 |
vid' i'
sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l'accendea,
come fa 'l nostro le viste superne; |
|
28 |
così vidi sopra migliaia
di anime luminose uno splendore abbagliante (Cristo),
che con la sua luce le accendeva tutte quante, come il
nostro sole accende le stelle; |
31 |
e per la
viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea. |
|
31 |
e attraverso l’intensa
luce (che si irradiava) traspariva la fulgidissima
persona di Cristo tanto luminosa ai miei occhi, che essi
non potevano sostenerla. |
34 |
Oh Bëatrice,
dolce guida e cara!
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
è virtù da cui nulla si ripara. |
|
34 |
Oh Beatrice mia dolce e
amata guida! Ella mi disse: “Ciò che vince la tua
facoltà visiva è una forza a cui nessun altra può
resistere. |
37 |
Quivi è la
sapïenza e la possanza
ch'aprì le strade tra 'l cielo e la terra,
onde fu già sì lunga disïanza». |
|
37 |
In questa luce è Cristo,
la sapienza e la potenza che aprì (agli uomini) la via
per salire dalla terra al cielo, via che in passato fu
lungamente desiderata”. |
|
Nel verso 37 Dante ripete la definizione paolina di
Cristo: Christum Dei virtutem et Dei sapientiam" ( I
Epistola ai Corinti I, 24). Con l'incarnazione e la
Passione Cristo riaprì le porte del paradiso, chiuse per
gli uomini dopo il peccato di Adamo (cfr. Purgatorio X,
35-36). |
40 |
Come foco di
nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
e fuor di sua natura in giù s'atterra, |
|
40 |
Come la folgore si sprigiona dalla nube
(in cui è rinchiusa) poiché si dilata in modo tale da
non potere più esservi contenuta, e contrariamente alla
sua natura (che la porterebbe a salire) precipita verso
terra, |
|
Secondo la scienza medievale il fulmine è prodotto dai
vapori secchi dell'aria, che, contenuti in una nube, si
urtano fra di loro e si espandono, prorompendo
all'esterno di essa e dirigendosi verso terra (cfr.
Inferno XXIV, 145-150; Purgatorio XIV, 134-135 Paradiso
I, 133-135). |
43 |
la mente mia
così, tra quelle dape
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
e che si fesse rimembrar non sape. |
|
43 |
così la mia mente, dilatatasi in mezzo
a quei cibi spirituali, uscì di se stessa, e non è in
grado di ricordare quello che allora abbia fatto. |
|
La mente, vinta dalla forza del sovrannaturale - la
visione dell'Uomo-Dio - e spezzato ogni limite umano,
non è più in grado di ricordare, nel momento in cui
tenta di trascrivere la sua esperienza mistica, che cosa
divenne e che cosa fece allorché Dio le si manifestò.
Dante descrive quello che, nel linguaggio dei mistici, è
definito excessus mentis, l'uscita della mente dal suo
ordine naturale sotto la spinta della divinità (cfr.
Paradiso I, 59; 67-71 e nota relativa). "Qui
l'impressione, come si rileva dal primo termine del
paragone, è di uno schianto luminoso, quasi di un essere
strappato dai propri cardini. In Paradiso XXXIII.
140-141, davanti al mistero del Dio-Uomo, si avrà una
"percussione" da fulgore: e in questo varco del limite (
acquisto di potenza ), quasi rottura del vincolo
organico con la fantasia e coi sensi, in collaborazione
con i quali l'intelletto opera normalmente, va distrutta
ogni possibilità di ricordo." (Mattalia) |
46 |
«Apri li
occhi e riguarda qual son io;
tu hai vedute cose, che possente
se' fatto a sostener lo riso mio». |
|
46 |
“Riapri gli occhi e
guardami in tutto il mio splendore: tu hai veduto tali
cose, che (ora) sei dotato di forza sufficiente a
sostenere la luce del mio sorriso.” |
49 |
Io era come
quei che si risente
di visïone oblita e che s'ingegna
indarno di ridurlasi a la mente, |
|
49 |
Io ero nella stessa
condizione di colui che si risveglia da una visione
subito dimenticata e che invano si sforza di richiamarla
alla memoria, |
52 |
quand' io
udi' questa proferta, degna
di tanto grato, che mai non si stingue
del libro che 'l preterito rassegna. |
|
52 |
quando udii l’invito di
Beatrice, degno di tanta gratitudine (da parte mia), che
non potrà mai cancellarsi dalla memoria, il libro che
registra il passato. |
55 |
Se mo
sonasser tutte quelle lingue
che Polimnïa con le suore fero
del latte lor dolcissimo più pingue, |
|
55 |
Se ora incominciassero a
cantare tutti quei poeti che Polimnia (musa della poesia
lirica) e le altre Muse sue sorelle nutrirono in
abbondanza con il loro latte dolcissimo (la poesia), |
58 |
per
aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso
e quanto il santo aspetto facea mero; |
|
58 |
per aiutarmi, non si
arriverebbe neppure a descrivere la millesima parte del
vero, tentando di cantare il santo sorriso di Beatrice e
come esso fosse reso più luminoso dalla divina presenza
di Cristo; |
|
L'immagine proemiale dell'alba si risolveva più che
sulla dolcezza della sensazione visiva, sulla profonda
interiorità dell'attesa. Più che un'alba, Dante in quei
versi ha espresso il sentimento dell'alba, insistendo su
un unico atteggiamento - l'ansiosa attesa della luce e
della vita dopo la sospensione della notte - che sembra
accomunare uomini, animali e cose. Allorché appare la
causa dell'attender e del vedere, ogni smarrimento e
ogni tensione si sciolgono nel grido trionfante di
Beatrice (ecco le schiere...) e la gioia prorompe nel
sorriso di Trivia, nel corteo delle ninfe etterne che
riempiono il cielo delle loro luci, nel sereno
distendersi del plenilunio. Dopo il grandioso e lento
giro dei versi 25-27, nei quali il linguaggio di Dante
riflette la trasparenza di quel cielo notturno con
parole e immagini quasi incorporee e senza peso (
ride... ninfe esterne... dipingon ), il ritmo nella
terzina seguente assume un tono descrittivo, per
annunciare il miracolo che si è prodotto nel cielo
ottavo. Tuttavia in essa si protrae l'eco di quella
visione come poche altre soave e rapita, mentre il
richiamo mitologico ( Trivia... ninfe) "stabilisce una
distanza e un mistero che già contribuisce a
trasfigurare il semplice fenomeno naturale" (Ghiavacci-Leonardi
) . È questo - continua la Chiavacci-Leonardi , un
"purissimo esempio di come il verso riceva la divina
pace del beato regno", perché "in questa alta bellezza
si placa lo sguardo, e riposa perfettamente lo spirito;
e si fa sensibile e comunicabile quella conquista tanto
rara... La gioia del Paradiso come le angosce
dell'Inferno hanno altro tramite che quel misterioso
velo sensibile, dove significato e suono si fondono in
un unico mezzo espressivo... Nella nostra terzina, la
finezza del cesello nel delicato uso dei singoli suoni
corrisponde alla finezza, fuggevolezza e inafferrabilità
della realtà che si cerca di esprimere". |
61 |
e così,
figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso. |
|
61 |
e così, nel descrivere il
paradiso, è necessario che il poema sacro passi oltre
(quelle parti che non possono essere espresse con
parole), come colui che trova il suo cammino tagliato da
qualche ostacolo (e perciò è costretto a saltare per
poter continuare la sua strada). |
64 |
Ma chi
pensasse il ponderoso tema
e l'omero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sott' esso trema: |
|
64 |
Ma chi considerasse la
difficoltà del tema e le deboli forze delle spalle
mortali che si caricano di esso, non potrebbe biasimare
se queste spalle tremano sotto il suo peso. |
67 |
non è
pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l'ardita prora,
né da nocchier ch'a sé medesmo parca. |
|
67 |
Non è una rotta che possa
essere percorsa da una piccola barca quella che la mia
ardita nave va seguendo, né adatta a nocchiero che vuole
risparmiare le proprie forze. |
|
Mentre l'immagine dei versi 64-66 si ispira a un passo
di Orazio (Ars poetica 38-39, quella dei versi 67-69
sviluppa la metafora usata da Dante, per simboleggiare
la sua poesia, all'inizio del Paradiso (canto II, versi
1-15). Dileggio è termine di origine e significato
oscuri. Il Del Lungo, basandosi sulla sua probabile
etimologia (dal latino pelagus), ritiene che esso
significhi "mare" e, di riflesso, "cammino" e, "rotta". |
70 |
«Perché la
faccia mia sì t'innamora,
che tu non ti rivolgi al bel giardino
che sotto i raggi di Cristo s'infiora? |
|
70 |
“Perché il mio volto ti
attira a sé con tanta forza, che tu non ti volgi più a
guardare le schiere delle anime beate che sbocciano,
come fiori, sotto i raggi della luce di Cristo? |
73 |
Quivi è la
rosa in che 'l verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese il buon cammino». |
|
73 |
In questo giardino si
trova la rosa (la Vergine Maria) nella quale il Verbo
divino s’incarnò; qui sono i gigli (gli apostoli), sotto
la cui guida gli uomini intrapresero il cammino della
vera fede.” |
|
Le singole espressioni di questa terzina sono di
derivazione biblica. Frequentemente ricorrono nella
Scrittura le immagini del giardino celeste e dei fiori
(Cantico dei Cantici II, 1; VI, 3; Ecclesiastico XXXIX,
13-14).
Nel presentare Cristo come il verbo divino che si fece
carne, Dante riecheggia il Vangelo di San Giovanni (I,
14), mentre è San Paolo che definisce la vita cristiana
"Christi bonus odor" (II Epistola ai Corinti II, 15).
Il Getto, analizzando i modi in cui il tema di Dio è
affrontato nel Paradiso, sostiene che Dio è "intuito non
tanto come amore... quanto piuttosto come potenza" che
tutto muove e ordina, per cui il sentimento che ne
deriva "esclude una concreta possibilità di rilievo, di
carattere psicologico, all'amore, spingendola semmai su
di un piano cosmologico, sotto l'aspetto di forza
ordinatrice e irresistibile dominio del creato". La
posizione dell'illustre critico appare, a questo
proposito, troppo perentoria ( il problema della
predestinazione e quello della giustizia, ad esempio,
sono stati risolti alla luce dell'amore), per quanto
sostanzialmente esatta. Queste osservazioni si possono
ripetere per il dogma cristologico, che il Getto vede
impostato "nella prospettiva spaziosa della potenza". Se
Cristo è colui che soffrì sulla croce (Paradiso VII,
40-48) e che si umiliò incarnandosi (Paradiso VII, 120),
è pur vero che, quando appare, la sua figura è sempre
avvolta in una trascendente e inaccessibile maestà ( si
veda, prima del canto XXIII, il suo bianco "lampeggiare"
nella croce luminosa del cielo di Marte ) . Cosi giudica
il Getto: "Cristo è in effetti colui che in terra
addusse la verità che tanto ci sublima, il Cristo
elaborato dalle Somme, in sostanza... più che il Gesù
degli Evangeli. L'umanità di Gesù che aveva formato
l'oggetto di tanta meditazione e celebrazione da parte
del movimento francescano, lascia indifferente l'animo
di Dante. Il Cristo evangelico per il Poeta si riduce
alla " lux quae illuminat omnem hominem venientem in
hunc mundum " del prologo di San Giovanni, una
condizione che desta più che una eco affettiva, un senso
di sfolgorante gloria e di trascendentale grandezza.
Soltanto il dogma mariano sembra diffondere qualche
accento più affettuoso e familiare: il nome di Maria è
evocato in un'aura di gentilezza come il nome del bel
fior ch'io sempre invoco e mane e sera. Ma Poi anche
questo soave profilo dilegua e si ricompone nella linea
austera suggerita dal tema della gloria, in cui Maria è
interpretata essenzialmente nell'ideale contegno di
regina", come nella celebre preghiera alla Vergine, A
questo proposito, tuttavia, appare più nel giusto il
Cosmo, il quale rileva che nel culto di Maria presente
dall'inizio della Commedia (a lei il Poeta deve
l'intervento di Beatrice; cfr. il secondo canto
dell'Inferno) fino alla fine (cfr. canto XXXIII del
Paradiso), la religiosità di Dante trova le sue note più
intime e profonde e la sua poesia le intonazioni liriche
più intense: " Salvatrice di chi solo la invochi con una
parola, soccorritrice alla debolezza delle anime
purganti tentate dal nemico, invocata da esse con le
preghiere più dolci; posta con gli esempi tratti dalla
sua vita ad incitamento e forma della loro purgazione,
il trionfo di lei nel regno dei beati era la logica
conseguenza delle premesse poste nelle prime due
cantiche". |
76 |
Così
Beatrice; e io, che a' suoi consigli
tutto era pronto, ancora mi rendei
a la battaglia de' debili cigli. |
|
76 |
Così disse Beatrice; ed
io, che ero completamente disposto a seguire i suoi
consigli, ritornai a mettere alla prova i miei deboli
occhi (volgendoli di nuovo verso la figura di Cristo,
che già li aveva abbagliati; cfr. verso 33). |
79 |
Come a
raggio di sol, che puro mei
per fratta nube, già prato di fiori
vider, coverti d'ombra, li occhi miei; |
|
79 |
Come talvolta (sulla
terra) i miei occhi, prima coperti d’ombra (perché il
sole, velato dalle nubi, non li feriva), videro un prato
fiorito illuminato improvvisamente da un raggio di sole
che filtrava limpido attraverso lo squarcio di una nube, |
82 |
vid' io così
più turbe di splendori,
folgorate di sù da raggi ardenti,
sanza veder principio di folgóri. |
|
82 |
allo stesso modo vidi
numerose schiere di anime splendenti, illuminate
dall’alto da raggi fulgenti (quelli di Cristo), senza
che potessi scorgere la sorgente di questi raggi, |
85 |
O benigna
vertù che sì li 'mprenti,
sù t'essaltasti, per largirmi loco
a li occhi lì che non t'eran possenti. |
|
85 |
O divina potenza di
Cristo, che imprimi il sigillo della tua luce sui beati,
ti sollevasti verso l’Empireo, per concedere ai miei
occhi che non erano capaci di sostenere il tuo fulgore
la possibilità di vedere li (osservando le luci meno
intense delle anime trionfanti), |
88 |
Il nome del
bel fior ch'io sempre invoco
e mane e sera, tutto mi ristrinse
l'animo ad avvisar lo maggior foco; |
|
88 |
Il nome della rosa, il bel
fiore che io sempre invoco nella mie preghiere al
mattino e alla sera, fece concentrare ogni mia facoltà
nello sforzo di ravvisare (fra le luci dei beati, dopo
che Cristo era asceso all’Empireo) lo splendore più
intenso (quello di Maria), |
91 |
e come ambo
le luci mi dipinse
il quale e il quanto de la viva stella
che là sù vince come qua giù vinse, |
|
91 |
Non appena l’intensità e
la quantità della luce di Maria, che in cielo supera lo
splendore dei beati, come in terra superò in virtù ogni
altra creatura, si riflessero nei miei occhi, |
94 |
per entro il
cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella. |
|
94 |
scese attraverso il cielo
uno splendore di forma circolare simile a una corona, e
cinse la luce di Maria girandole intorno. |
|
I commentatori antichi sono concordi nel ritenere che la
facella sia l'arcangelo Gabriele, che in terra annunciò
alla Vergine la divina maternità (le parole che fra poco
pronuncerà sono un esplicito riferimento ad essa) e che
ritornerà a celebrare le lodi di Maria alla fine del
Paradiso ( canto XXXII, 94-114). Invece fra i
commentatori moderni, alcuni, come il Mattalia,
sostengono trattarsi di una corona di spiriti angelici,
dimenticando che Dante fa esplicito riferimento a una
sola facella. |
97 |
Qualunque
melodia più dolce suona
qua giù e più a sé l'anima tira,
parrebbe nube che squarciata tona, |
|
97 |
Qualunque
melodia che sulla terra risuoni più dolcemente e avvinca
a sé con più forza l’animo (degli ascoltatori),
sembrerebbe un fragore di tuono, |
100 |
comparata al
sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
del quale il ciel più chiaro s'inzaffira. |
|
100 |
a paragone
del canto di Gabriele, che faceva corona alla Vergine,
la gemma più preziosa di cui si adorna il cielo più
luminoso (l’Empireo). |
103 |
«Io sono
amore angelico, che giro
l'alta letizia che spira del ventre
che fu albergo del nostro disiro; |
|
103 |
“Io sono un angelo ardente
d’amore che corono, girandovi intorno, la beatitudine
che emana dal grembo che fu dimora di Cristo, supremo
desiderio degli angeli e degli uomini; |
106 |
e girerommi,
donna del ciel, mentre
che seguirai tuo figlio, e farai dia
più la spera supprema perché lì entre». |
|
106 |
e continuerò a girare, o
signora (donna: dal latino domina, “padrona”) del cielo,
fino a che seguirai tuo figlio (già asceso all’Empireo),
e renderai più splendente il cielo più alto per il fatto
che tu vi ritorni.” |
109 |
Così la
circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi
facean sonare il nome di Maria. |
|
109 |
Così si chiudeva il canto
dell’angelo che girava intorno alla Vergine, e tutti gli
altri beati facevano eco ripetendo il nome di Maria. |
112 |
Lo real
manto di tutti i volumi
del mondo, che più ferve e più s'avviva
ne l'alito di Dio e nei costumi, |
|
112 |
Il nono cielo, che avvolge
come in un regale mantello le altre sfere che ruotano
intorno alla terra, e che più arde di desiderio e che
più riceve vita dallo spirito e dalle leggi di Dio, |
115 |
avea sopra
di noi l'interna riva
tanto distante, che la sua parvenza,
là dov' io era, ancor non appariva: |
|
115 |
aveva la sua faccia
interna tanto distante dal luogo in cui noi eravamo, che
il suo aspetto da dove mi trovavo, non era ancora
visibile: |
|
Il nono cielo, il Primo Mobile, è il cielo più vicino
all'Empireo, sede di Dio. Esso "per lo ferventissimo
appetito ch'è 'n ciascuna parte... d'essere congiunta
con ciascuna parte di quello divinissimo ciel quieto, in
quello si rivolve con tanto desiderio, che la sua
velocitade è quasi incomprensibile" (Convivio II, III,
9).
Inoltre esso riceve ogni suo impulso e ogni sua norma
direttamente da Dio per poi trasmetterli alle sfere
sottostanti. Il termine "volume" per indicare " cielo "
deriva dal latino volumen, volgo: ciò che effettua un
movimento rotatorio. L'interna riva dei cieli è la
superficie concava che essi presentano a chi sale e che
confina con il cielo immediatamente precedente, mentre
la superficie convessa e all'esterno. |
118 |
però non
ebber li occhi miei potenza
di seguitar la coronata fiamma
che si levò appresso sua semenza. |
|
118 |
e perciò (a causa di
questa distanza) i miei occhi non poterono seguire la
luce di Maria incoronata da Gabriele, che si innalzò
(verso l’Empireo) seguendo il figlio. |
121 |
E come
fantolin che 'nver' la mamma
tende le braccia, poi che 'l latte prese,
per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma; |
|
121 |
E come il bambino che,
dopo aver preso il latte, tende le braccia verso la
mamma, per l’amore che si manifesta anche negli
atteggiamenti esteriori, |
124 |
ciascun di
quei candori in sù si stese
con la sua cima, sì che l'alto affetto
ch'elli avieno a Maria mi fu palese. |
|
124 |
così ciascuna di quelle
anime fulgenti si protese verso l’alto con la sua luce,
dimostrandomi chiaramente il profondo affetto che
nutrivano per Maria. |
127 |
Indi rimaser
lì nel mio cospetto,
'Regina celi' cantando sì dolce,
che mai da me non si partì 'l diletto. |
|
127 |
Poi rimasero lì al mio
cospetto, cantando “Regina del cielo” con tanta
dolcezza, che mai scomparve dal mio animo il senso di
gioia che provai (ascoltando quell’inno). |
|
"Regina coeli, laetare, alleluia!" è l'antifona che si
canta durante la liturgia pasquale. |
130 |
Oh quanta è
l'ubertà che si soffolce
in quelle arche ricchissime che fuoro
a seminar qua giù buone bobolce! |
|
130 |
Oh quanta è l’abbondanza di beatitudine
che si raccoglie in quelle anime simili ad arche
ricchissime di frumento, che quaggiù nel mondo furono
buone seminatrici! |
|
La terzina, nella quale sono evidenti i richiami
evangelici (Matteo XIII, 323; Marco IV, 3-30; Luca VIII,
515), non è di facile interpretazione.
Il Buti, seguito da tutti gli interpreti antichi,
intende bobolce come femminile plurale di " bobolco "
(dal latino bibulcus) che significa " lavoratore della
terra ". Il Parodi sostiene che bobolce vale senza
dubbio " campi ", pezzi di terra da arare e seminare, e
di cui è propria l'ubertà", basando la propria
affermazione sul fatto che il termine " bifolca" o "biolea"
è an cora in uso nei dialetti dell'Italia settentrionale
per indicare una misura terriera. |
133 |
Quivi si
vive e gode del tesoro
che s'acquistò piangendo ne lo essilio
di Babillòn, ove si lasciò l'oro. |
|
133 |
In paradiso si vive e si
gode dei meriti che l’uomo ha acquistato con le
sofferenze e con il disprezzo delle ricchezze durante
l’esilio terreno. |
136 |
Quivi
trïunfa, sotto l'alto Filio
di Dio e di Maria, di sua vittoria,
e con l'antico e col novo concilio, |
|
136 |
In paradiso, accanto a
Cristo e ai santi dell’Antico e del Nuovo Testamento,
trionfa della vittoria (riportata sul male e sulle
tentazioni del mondo) |
|
L'esilio degli Ebrei durante la cattività di Babilonia (cfr.
II Re XXIV, 10 sgg.: Geremia LII, 3 sgg.) è, in tutta la
letteratura patristica e medievale immagine della vita
terrena, la quale, per il cristiano, è un periodo di
esilio dalla vera patria, il cielo. |
139 |
colui che
tien le chiavi di tal gloria. |
|
139 |
San Pietro, colui che custodisce 1e
chiavi del paradiso. |