1 |
Poscia che 'ncontro
a la vita presente
d'i miseri mortali aperse 'l vero
quella che 'mparadisa la mia mente, |
|
1 |
Dopo che Beatrice, colei che innalza la mia anima alle
gioie del paradiso, parlando contro la presente
corruzione degli uomini mi ebbe rivelato la verità, |
4 |
come in lo
specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n'alluma retro,
prima che l'abbia in vista o in pensiero, |
|
4 |
come colui che scorge
riflessa in uno specchio (che ha davanti), la fiamma di
una torcia che lo illumina alle spalle, prima di averla
vista (direttamente) o di avere pensato (che fosse lì), |
7 |
e sé rivolge
per veder se 'l vetro
li dice il vero, e vede ch'el s'accorda
con esso come nota con suo metro; |
|
7 |
e si volge a guardare per
vedere se lo specchio riflette un oggetto reale, e
costata che l’immagine riflessa riproduce perfettamente
quella vera allo stesso modo in cui il canto si accorda
con la musica che l’accompagna, |
10 |
così la mia
memoria si ricorda
ch'io feci riguardando ne' belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda. |
|
10 |
così mi ricordo di aver
fatto io guardando nei begli occhi (di Beatrice) dei
quali Amore si servì per legarmi a lei. |
|
Due versi che riassumono l'argomento dell'invettiva di
San Pietro, sembrano aprire in tono minore il canto
dedicato alla visione delle gerarchie angeliche ruotanti
intorno a Dio; ma già il terzo verso (accentrato su un
verbo - 'mparadisa -, che è uno dei tanti neologismi
coniati da Dante nello sforzo di tradurre in esiti
espressivi il sentimento dell'ineffabile) ci avvia a
quel clima di gloria divina e angelica al quale ci
riporta continuamente lo sviluppo unitario del canto. La
faticosa struttura dei versi seguenti è sembrata, ad
alcuni critici, un elemento solo negativo, perché "la
attenzione rivolta alla corrispondenza del fatto con il
paragone escogitato, ha raffreddato tutto questo
passo"(Momigliano), così che "il fatto c'è, il
sentimento manca". In realtà la similitudine del
doppiero, così visivamente esatta e quasi ieratica, ha
una sua profonda funzionalità, perché ristabilisce, dopo
l'impetuosa invettiva con cui si è chiuso il canto
precedente, un'atmosfera di assorta contemplazione e di
rasserenante visione; nella fissità dello sguardo
rivolto, mentre ogni altro spettacolo scompare e ogni
attività della mente è sospesa (verso 6), all'immagine
riflessa della fiamma di doppiero o poi alla sorgente
reale di quella luce, è già il nucleo dell'aIto pathos
che avvertiremo in tutto il canto. Il valore simbolico
dei versi 10-12 (l'uomo, in questo caso Dante, non può
vedere Dio se non passando attraverso la verità
rivelata, qui simboleggiata da Beatrice) è tradotto in
una corpulenta immagine (onde a pigliarmi fece Amor la
corda) alla quale è stata spesso rivolta l'accusa di
barocchismo o di eccessiva "materialità" (Vandelli) nel
momento in cui i belli occhi si fanno specchio e quasi
veicolo della figura di Dio. Tuttavia appare evidente,
nel Poeta, l'intenzione di rilevare, con tali vigorosi
mezzi espressivi (attinti al linguaggio dell'amor
cortese), la realtà della propria visione, rievocata
"nel solco di una estatica e pur netta indicazione
memoriale (così la mia memoria si ricorda)". (Frattini) |
13 |
E com' io mi
rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben s'adocchi, |
|
13 |
E quando mi volsi a guardare e i miei occhi furono
colpiti da ciò che appare in quel cielo (volume; cfr.
canto XXIII, verso 112), ogni qualvolta si fissi bene lo
sguardo nel suo giro, |
16 |
un punto
vidi che raggiava lume
acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume; |
|
16 |
vidi un punto che
irradiava una luce così potente, che l’occhio, che esso
abbaglia deve chiudersi a causa della forte intensità di
tale luce; |
19 |
e quale
stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca. |
|
19 |
e anche la
stella che dalla terra appare più piccola, sembrerebbe
grande come la luna, se fosse posta accanto ad esso come
(nel cielo) una stella è collocata accanto all’altra. |
|
Prima di giungere all'Empireo, dove si potrà contemplare
nella sua vera sede e nella sua totale compiutezza la
corte celeste, tutti i beati si sono ordinatamente
presentati a Dante e Beatrice: anche Cristo e la Vergine
sono già apparsi e a loro il Poeta ha consacrato il
trionfo del cielo Cristallino. Restavano ancora da
vedere, preliminarmente - secondo la sapiente
costruzione del paradiso dantesco - Dio e gli angeli.
Non era certo impresa facile quella di conferire una
figurazione concreta all'Essere infinito e agli esseri
immateriali di numero infinito. Il Poeta avrebbe potuto
rappresentare un lume di dimensioni straordinarie,
straordinarie anche in confronto di quello di Cristo,
che pure accendeva di sé migliaia di lucerne
sottostanti. "Sarebbe stato pur sempre - obietta il
Vandelli - qualcosa d'inadeguato a Dio, poiché avrebbe
dato subito l'impressione di quella quantitas dimensiva
ch'è dei corpi materiali e si deve escludere dalla
persona di Dio, e per le sue stesse proporzioni sarebbe
riuscito stupefacente, piuttosto che grandioso e
suscitatore di ammirazione. Del pari un gran lume
superno dì cui addirittura non si scorgessero i
contorni, diffondentesi per tutto e su tutti... sarebbe
stato immagine... adatta nell'Empireo ch'è tutto amore e
luce divina. Poiché dunque il molto grande, il molto
esteso non erano in alcun modo figurazioni acconce,
Dante ricorse all'estremo opposto; e, convertendo in
rappresentazione diretta quel che era un termine di
confronto usato spesso e volentieri dai teologi per
chiarire l'essenza e gli attributi della divinità, la
raffigurò come un punto." Il punto matematico, infatti,
come afferma Dante stesso nel Convivio (Il, XIII, 27),
"per la sua indivisibilitade è immensurabile". Cfr.
anche San Tommaso (Summa Theologica I, III, 7; XI, 3;
Commentarium de Coelo et Mundo I, II, 3). Nell'immagine
- idea del punto, il quale è al di là di ogni
possibilità di misura umana e materiale, ma dal quale si
genera ogni spazio materiale l'infinita realtà di Dio
trova la sua significazione più efficace, mentre
l'aggiunta giunta - rispetto alla formula teologica - di
un secondo elemento, l'intensa luminosità, conferisce a
questa creazione tutta una suggestione di poesia. |
22 |
Forse
cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che 'l dipigne
quando 'l vapor che 'l porta più è spesso, |
|
22 |
Forse non più distante di quanto si vede l’alone
circondare l’astro (luce: il sole o la luna) che lo
produce o lo illumina, quando il vapore che forma tale
alone è più denso, |
25 |
distante
intorno al punto un cerchio d'igne
si girava sì ratto, ch'avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne; |
|
25 |
così un cerchio di fuoco girava intorno al punto
luminoso tanto velocemente, che avrebbe superato anche
il moto del cielo che più rapido si volge intorno alla
terra. |
|
Intorno al punto divino si volgono, come cerchi
concentrici in un tripudio di luce e di movimento, i
nove cori angelici. Il primo - quello dei Serafini -
appare vicinissimo a Dio, così come l'alone,
specialmente quando è formato da vapori molto densi,
circonda da vicino la sua sorgente luminosa, il sole o
la luna. Quel moto che più tosto il mondo cigne è il
Primo Mobile o cielo Cristallino la cui velocità supera
quella di tutti gli altri cieli (cfr. Paradiso I, 123;
XIII, 24; XXVII, 99). |
28 |
e questo era
d'un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. |
|
28 |
E questo (cerchio) era
circondato da un secondo, e questo da un terzo, e poi il
terzo dal quarto, il quarto dal quinto, e poi il quinto
dal sesto. |
31 |
Sopra
seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che 'l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto. |
|
31 |
Al di fuori del sesto
seguiva il settimo così esteso ormai in larghezza, che
l’arcobaleno sarebbe troppo stretto per poterlo
contenere anche se costituisse (invece di un arco) un
circolo intero. |
|
L'arcobaleno, nella mitologia classica, è rappresentato
dalla figura di Iride, che reca sulla terra i messaggi
di Giunone (cfr. Paradiso XII, 12). |
34 |
Così
l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch'era
in numero distante più da l'uno; |
|
34 |
Concentrici come i
precedenti e sempre più larghi seguivano l’ottavo e il
nono; e ciascuno si muoveva con velocità decrescente , a
seconda che il suo numero d’ordine fosse più o meno
distante dall’unìtà (cioè dal primo cerchio); |
37 |
e quello
avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s'invera. |
|
37 |
ed aveva una fiamma più
limpida il cerchio che era meno lontano dal punto
luminoso, perché, credo, (essendo più vicino a Dio)
tanto più riceve la sua verità. |
|
Nella misura in cui si allontanano dal divino punto, i
nove cerchi concentrici aumentano la loro grandezza e
diminuiscono la loro velocità e la loro luminosità, così
che il primo è il più veloce (versi 26-27), il più
piccolo (è come un alone intorno a quel centro, (versi
21-25) e il più splendente (versi 37-39).
Alla base della grandiosa sistemazione cosmologica del
canto XXVIII è una struttura geometrica tradotta in pure
intuizioni di luce e di movimento. Il Poeta, che ha
concentrato in Satana e nel suo regno tutto il peso, la
corpulenza e l'immobilità della materia, tenta la prima
sintesi della visione di Dio, escludendo totalmente la
materia (Dio è rappresentato da un punto, gli angeli da
cerchi), proponendo il trionfo del più spirituale degli
elementi, la luce, e accentuando la potenza di quello
che è il simbolo principale della vita, il movimento.
Per questo, l'astratto rigore geometrico della
costruzione (dopo il punto, il cerchio, anzi nove
cerchi, osservati uno per uno, con matematica
precisione) si risolve in una "figurazione viva e
concreta, che, pur mantenendosi nel campo del simbolo,
si presenta con piena nitidezza di contorni agli occhi
della nostra fantasia. I riferimenti all'alone (versi
22-24) e all'arcobaleno (versi 32-33), illustrando
singoli aspetti, concorrono all'effetto della visione
complessiva" (Rossi-Frascino).
I versi iniziali del canto XXVIII propongono, con una
evidenza quanto mai felice, la caratteristica dominante
nella visione dantesca dell'infinito: la mancanza di
quelle descrizioni vaghe, indeterminate, incomposte che
sono così frequenti nei mistici medievali. L'infinito,
nella terza cantica, non è incommensurato, non dilaga
fantasmagoricamente nel mare abbagliante della luce, non
si risolve nell'annichilimento dello spirito - sul piano
della resa artistica - e nell'affannosa ricerca di
approssimazioni analogiche: "L'infinito è tutto presente
al Poeta, che lo domina e lo possiede, non ne è
posseduto" (Santini). Egli provvede a precisare in
un'immagine l'immensità di Dio, come, durante l'ascesa
attraverso i primi otto cieli, si è preoccupato di
determinare i confini delle singole sfere e di misurare
l'infinità degli spazi. Ma proprio in questo linguaggio
preciso e fermo, in questa sicura risolutezza stilistica
è da cercarsi il primo germe di poesia.
Ai versi 22-24, precisi ma appesantiti da circostanziate
osservazioni scientifiche, si contrappone il veloce
ritmo delle due terzine seguenti, nelle quali non solo
si manifesta il vorticoso tripudio dei cori angelici, ma
si palesa anche la gioiosa rapidità con la quale lo
sguardo del Poeta percorre i luminosi cerchi. Il
Montanari e il Momigliano si soffermano in modo
particolare sui versi 28-30. Il primo giudica che in
"questa terzina Dante ha raggiunta una prodigiosa
impressione di girare veloce con i mezzi apparentemente
più poveri: l'insistere nell'elenco concatenato dei
numeri ordinali", mentre per il secondo la musica di
questi versi "dà un ritmo mistico ad un'immaginazione
matematica". |
40 |
La donna
mia, che mi vedëa in cura
forte sospeso, disse: «Da quel punto
depende il cielo e tutta la natura. |
|
40 |
La mia donna, che mi vedeva assorto in
un grave dubbio, disse: «Da quel punto dipendono il
cielo e tutta la natura. |
|
Dopo quel credo in cui si palesava la certezza del
Poeta, si profila, "quasi per un suggestivo contrappunto
nella struttura dei canto" (Frattini), un pesante dubbio
(cura forte), perché, anche di fronte alla più alta
manifestazione di paradiso finora apparsagli, Dante non
abbandona il suo atteggiamento abituale, per il quale la
mente si raccoglie per penetrare il senso più profondo
dei fenomeni contemplati.
Ciò, che provoca in lui questo attimo di smarrimento è
la constatazione che mentre i cieli girano tanto più
veloci quanto più distano dal centro (la terra), qui i
cori angelici si muovono più rapidamente nella misura in
cui sono più vicini al loro centro (il punto luminoso di
Dio). La lucida e compiuta spiegazione di Beatrice ai
versi 41- 42, traduce un passo di Aristotile (Metafisica
XII, 7), dopo aver sostituito al termine “principio”,
usato dal filosofo greco, il termine punto (il quale
informa di concretezza visibile l'astratta formula
filosofica, in armonico accordo con l'immagine prima
presentata) ed aver aggiunto a natura l'aggettivo tutto,
che, come è stato concordemente notato da tutti i
critici, acquisisce vigore all'espressione. |
43 |
Mira quel
cerchio che più li è congiunto;
e sappi che 'l suo muovere è sì tosto
per l'affocato amore ond' elli è punto». |
|
43 |
Osserva quel cerchio che gli è più
vicino; e sappi che il suo moto è così veloce per
l’amore ardentissimo da cui è stimolato». |
46 |
E io a lei:
«Se 'l mondo fosse posto
con l'ordine ch'io veggio in quelle rote,
sazio m'avrebbe ciò che m'è proposto; |
|
46 |
Ed io: «Se le sfere della terra e dei
cieli fossero disposte nell’ordine che io vedo in questi
cerchi angelici, la spiegazione data mi avrebbe
soddisfatto; |
49 |
ma nel mondo
sensibile si puote
veder le volte tanto più divine,
quant' elle son dal centro più remote. |
|
49 |
ma nel mondo sensibile si possono vedere
i cieli tanto più veloci e infiammati di amore divino,
quanto più sono lontani dal loro centro (la terra). |
52 |
Onde, se 'l
mio disir dee aver fine
in questo miro e angelico templo
che solo amore e luce ha per confine, |
|
52 |
Perciò, se il mio desiderio deve essere
appagato in questo mirabile e angelico cielo che ha per
confine solo l’Empireo, cielo fatto di amore e di luce, |
|
Al di sopra del Primo Mobile non c'è più
alcuna sfera materiale, ma solo l'Empireo, il cielo
fatto di amore e di luce perché sede di Dio. |
55 |
udir
convienmi ancor come l'essemplo e l'essemplare
non vanno d'un modo,
ché io per me indarno a ciò contemplo». |
|
55 |
è necessario che io sappia anche come
mai il modello non corrisponda alla sua copia, perché
inutilmente cerco di capirlo con le mie sole forze». |
|
Dante nei versi 46-57 specifica chiaramente il dubbio
che Beatrice, con la sua risposta (versi 41-45), non ha
risolto. Egli osserva una contraddizione (cfr. nota ai
versi 40-42) fra l'ordine e il movimento del mondo
sensibile e l'ordine e il movimento di quello
sovrasensibile, dal quale il primo dipende, secondo la
precedente affermazione di Beatrice (versi 41-42). In
queste quattro terzine, dove la dottrina secondo cui il
mondo materiale ha il suo archetipo nel mondo spirituale
è di derivazione platonica, il discorso, che "muove da
una piana considerazione ipotetica [se 'l mondo fosse
posto] cui si contrappone una salda prospettica
cosmografica [versi 49-51] ... improvvisamente si
accresce di tensione, eppure il pathos non ha nulla di
trasmodante, di effuso, ma si equilibria nel giro
perfetto della visione, scandita con forza tranquilla
nei due endecasillabi che danno il senso di un'infinita,
chiarissima vastità, come di un alito radioso di Dio:
... in questo miro e angelico templo che solo amore e
luce ha per confine..." (Frattíni). |
58 |
«Se li tuoi
diti non sono a tal nodo
sufficïenti, non è maraviglia:
tanto, per non tentare, è fatto sodo!». |
|
58 |
«Se le tue dita non sono
capaci di sciogliere un tale nodo, non c’è da
meravigharsi; tanto esso è diventato rigido e
resistente, poiché nessuno ha mai tentato di
scioglierlo!» |
61 |
Così la
donna mia; poi disse: «Piglia
quel ch'io ti dicerò, se vuo' saziarti;
e intorno da esso t'assottiglia. |
|
61 |
Così parlò la mia donna;
poi disse: «Ascolta attentamente quello che ti dirò, se
vuoi saziarti; ed esercita acutamente il tuo ingegno
intorno alle mie parole. |
64 |
Li cerchi
corporai sono ampi e arti
secondo il più e 'l men de la virtute
che si distende per tutte lor parti. |
|
64 |
I cerchi materiali (i
cieli) sono più o meno ampi o stretti in proporzione
della maggiore o minore virtù che si diffonde in tutte
le loro parti. |
67 |
Maggior
bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
s'elli ha le parti igualmente compiute. |
|
67 |
Quanto più grande è la
virtù, tanto più grande è il benefico influsso che essa
vuole esercitare; quanto più grande è un corpo
materiale, tanto più grande è il benefico influsso che
può ricevere, purché sia perfetto in tutte le sue parti. |
70 |
Dunque
costui che tutto quanto rape
l'altro universo seco, corrisponde
al cerchio che più ama e che più sape: |
|
70 |
Dunque questo cielo (il
Primo Mobile) che trascina con il suo movimento tutto
quanto il resto dell’universo, corrisponde al coro
angelico (quello dei Serafini) che è più infiammato
d’amore e illuminato di sapienza. |
73 |
per che, se
tu a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che t'appaion tonde, |
|
73 |
Per tale motivo, se tu
misuri la virtù, non l’apparente dimensione dei cori
angelici, |
76 |
tu vederai
mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
in ciascun cielo, a süa intelligenza». |
|
76 |
vedrai la mirabile
corrispondenza di ciascun cielo a ciascuna intelligenza
angelica, corrispondendo i cieli maggiori alle maggiori
virtù angeliche e i cieli minori alle minori virtù». |
|
All'ansiosa incertezza dell'uomo di fronte ad
un'apparente disarmonia fra realtà sensibile e realtà
spirituale è efficace contrappunto la logica
serratissima del ragionamento di Beatrice, che svolge,
articolandola sullo sfondo di una più vasta dinamica
celeste, la concezione da Dante esposta nel Convivio
(Il, III) a proposito del Primo Mobile. Nei nove cieli
fisici la grandezza dipende dalla quantità di virtù che
essi ricevono dalle loro intelligenze motrici (gli
angeli) e che trasmettono, a loro volta, nel mondo
sottostante. In altre parole: nella materia l'ampiezza è
proporzionale all'importanza e all'efficacia
dell'oggetto. Poiché i cori angelici, quanto più
possiedono la virtù ricevuta da Dio, tanto più tendono a
diffonderla, la conclusione che ne deriva è evidente: il
cielo più grande è governato dal coro angelico più
importante e più vicino a Dio, cioè dal coro angelico il
cui cerchio appare più piccolo (versi 22-27), perché
"per il puro spirito il minimo di estensione è
l'espressione della maggiore dignità" (Montanari). Così
il cielo più piccolo sarà guidato dalla gerarchia
angelica meno dotata di virtù, quindi più lontana da Dio
e, di conseguenza, più ampia nel suo cerchio (versi
31-33). Perciò la corrispondenza dei cieli ai cori
angelici che imprimono il movimento e una determinata
caratteristica a ciascuna sfera avviene su un piano
immateriale, mediante un rapporto di virtù, non di
misure spaziali. |
79 |
Come rimane
splendido e sereno
l'emisperio de l'aere, quando soffia
Borea da quella guancia ond' è più leno, |
|
79 |
Come l’aria rimane luminosa e limpida,
quando Borea (il vento di tramontana) soffia da quella
parte da cui spira più temperato, |
|
Nell'iconografia medievale i quattro venti principali
(spiranti dai quattro punti cardinali) venivano
rappresentati con facce umane in atto di soffiare dal
centro e dai lati. I venti che si sprigionano dalle due
parti laterali di Borea (il maestrale da nord-ovest e il
grecale, da nord-est) sono più temperati rispetto a
quello centrale, il vento di tramontana. |
82 |
per che si
purga e risolve la roffia
che pria turbava, sì che 'l ciel ne ride
con le bellezze d'ogne sua paroffia; |
|
82 |
per cui viene spazzata e
dissolta la nebbia che prima offuscava il cielo, in modo
che esso risplende con le sue bellezze in ogni parte (paroffia:
letteralmente significa "parrocchia"), |
85 |
così fec'ïo,
poi che mi provide
la donna mia del suo risponder chiaro,
e come stella in cielo il ver si vide. |
|
85 |
così avvenne in me, dopo
che la mia donna mi ebbe offerto la sua chiara risposta,
ed io vidi (si vide: fu vista; sottinteso: da me) la
verità con la stessa chiarezza con cui si vede una
stella brillare nel cielo. |
88 |
E poi che le
parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro. |
|
88 |
E dopo che il suo discorso
fu concluso, i cerchi angelici sprigionarono faville
come fa il ferro incandescente. |
91 |
L'incendio
suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla. |
|
91 |
Ogni scintilla (cioè: ogni
angelo) continuava a girare con il suo cerchio
infuocato; e il loro numero era così alto da inoltrarsi
nelle migliaia più che la progressiva duplicazione degli
scacchi. |
|
Dante, accettando la posizione tradizionale della Chiesa
(cfr. anche Convivio Il, V, 5; San Tommaso - Summa
Theologica I, CXII, 4), afferma che il numero degli
angeli supera quello che si otterrebbe moltiplicando per
due progressivamente i 64 riquadri di una scacchiera (il
totale sarebbe costituito da venti cifre). Secondo una
leggenda orientale, l'inventore degli scacchi chiese al
re di Persia, come ricompensa, un chicco di grano per la
prima casella, due per la seconda, quattro per la terza
e così via, in proporzione geometrica fino alla
sessantaquattresima casella. Troppo tardi il re si
accorse che tutto il grano del suo regno non sarebbe
stato sufficiente a mantenere la promessa fatta. |
94 |
Io sentiva
osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne' quai sempre fuoro. |
|
94 |
Udivo (gli angeli) cantare osanna
rispondendosi da cerchio a cerchio, al punto fisso (Dio)
che (appagando ogni loro desiderio) li mantiene, e li
manterrà sempre, nelle sedi nelle quali sono sempre
stati. |
|
L'immagine di un cielo nebbioso rasserenato da un
tiepido vento primaverile (versi 78-84) e dello
scintillio delle stelle nella volta celeste (verso 87),
ha concluso la parte dei canto dedicata ad una
problematica teologica ardua e sottile, impegnata a
risolvere in armoniosa unità il contrasto tra terra e
cielo, materia e spirito. La mente - che ha disegnato
l'immensa costruzione di due universi rovesciati, l'uno
irraggiantesi da cerchi più piccoli a cerchi più grandi,
l'altro da cerchi più grandi a cerchi più piccoli, e
l'ha vista dipendere, in virtù dell'amore, dall'unico
principio divino - riposa ora nella verità e contempla,
nel vortice dei cori angelici intorno al punto fisso, il
miracolo dell'infinito molteplice e dinamico e
dell'infinito Uno, immobile ed eterno. E' un'immensa
polifonia orchestrata in nove versi (88~96). Nei primi
tre l'improvviso "sfavillare" (suggestivamente preparato
dal verso precedente: come stella in cielo il ver si
vide), crea subito l'immagine di una viva incandescenza
ruotante intorno al punto divino, accentuata dal fitto
rispondersi di tre verbi di uguale significato (disfavilla...
balle... sfavillavo). Nella seconda terzina
all'intensità dello sfavillio si aggiunge il senso della
sua infinità (sottolineato dal neologismo s'immilla).
Infine la luce si esalta nel canto, che rimbalzando di
coro in coro crea l'impressione di immense distanze,
mentre negli ultimi due versi la visione si raccoglie
nella fissità di quel punto intorno al quale gravitano,
da sempre e allo stesso modo, le infinite faville
angeliche. Siamo di fronte ad una poesia che è pura
contemplazione della vita universale dell'Essere, ad una
poesia nella quale "il pensiero della realtà metafisica
si è fatto lirica, contemplazione". (Montano) |
97 |
E quella che
vedëa i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
t'hanno mostrato Serafi e Cherubi. |
|
97 |
E Beatrice,
che vedeva i dubbi che si agitavano nella mia mente (a
proposito della disposizione delle gerarchie angeliche),
disse: «I primi due cerchi sono quelli dei Serafini e
dei Cherubini. |
100 |
Così veloci
seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son soblimi. |
|
100 |
Essi
(girando) così veloci seguono il vincolo d’amore che li
lega a Dio (i suoi vimi: questo termine deriva dal
latino vímen, " legame "), per essere simili a Dio
quanto più possono; e tanto più possono (assomigliarGli)
quanto più si elevano nella contemplazione (rispetto a
tutte le altre creature), |
103 |
Quelli altri
amori che 'ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che 'l primo ternaro terminonno; |
|
103 |
Le altre sostanze
angeliche che girano intorno alle prime due, sono
chiamate Troni di Dio, per la qual cosa furono destinati
a chiudere la prima terna. |
|
Nel canto IX, verso 62, Dante ha presentato i Troni come
la gerarchia angelica onde refulge a noi Dio giudicante,
perché su di essi si riflette la maestà di Dio giudice.
'l primo ternaro: le
nove intelligenze angeliche sono distinte in tre
gerarchie di tre ordini ciascuna. |
106 |
e dei saper
che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto. |
|
106 |
E devi sapere che questi
tre ordini godono di una beatitudine proporzionata alla
profondità della loro visione di Dio, visione nella
quale ogni intelletto trova pace. |
109 |
Quinci si
può veder come si fonda
l'esser beato ne l'atto che vede,
non in quel ch'ama, che poscia seconda; |
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109 |
Da quanto ho detto si può
capire come la beatitudine si fonda sulla vista (di
Dio), non sull’amore, che è una conseguenza (di tale
visione); |
112 |
e del vedere
è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede. |
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112 |
e la visione è in
proporzione del merito, il quale nasce dalla grazia
divina e dalla buona volontà (con cui essa è accolta):
così si procede di gradino in gradino (dalla grazia alla
volontà, dalla volontà al merito, dal merito alla
visione, dalla visione all’amore). |
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Nei versi 106-114 Dante espone, in accordo con San
Tommaso (Summa Theologica I, II, III, 1- 8; III, suppl.,
XCII, 1- 3), la dottrina, già trattata nel canto XIV,
sull'essenza della beatitudine. Fondamento di questa non
è l'amore, ma la visione di Dio, la quale, in un secondo
tempo, produce l'amore. La intensità di questa visione
dipende dal merito della creatura e questo, a sua volta,
è un effetto della grazia di Dio e della buona volontà
con la quale gli uomini cooperano. Molto efficace la
seguente osservazione del Vandelli: "E' tutto un freddo
e sottile ragionamento; ma nel bel mezzo di esso ci
sorprende un verso mirabile, e veramente dantesco nel
vero in che si queta ogni intelletto, una delle più
concettose e degne perifrasi di Dio, della cui essenza
si coglie e si esprime qui uno degli aspetti più
importanti per le creature intellettuali: solo nella
visione di Dio l'intelletto può appagare la tormentosa
sete naturale di quella verità, che in Dio è tutta, e
solo in Lui, e ab aeterno". |
115 |
L'altro
ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia, |
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115 |
La seconda terna (o gerarchia), che
così fiorisce in questa eterna primavera celeste che
l’autunno non priva di foglie, |
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La costellazione dell'Ariete è visibile di notte
(notturno) durante la stagione autunnale dal 21
settembre al 21 ottobre, quando il sole sorge in
congiunzione con la Libra, che nello Zodiaco occupa la
zona diametralmente opposta a quella dell'Ariete. |
118 |
perpetüalemente 'Osanna' sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s'interna. |
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118 |
canta (sberna: era il
verbo usato per indicare il canto degli uccelli alla
fine dell’inverno) il suo eterno "Osanna" con tre
melodie che risuonano nei tre ordini angelici da cui
(questa terna) è formata. |
121 |
In essa
gerarcia son l'altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l'ordine terzo di Podestadi èe. |
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121 |
In questa gerarchia si
trovano le altre intelligenze angeliche: prima le
Dominazioni, e poi le Virtù; il terzo ordine è quello
delle Potestà. |
124 |
Poscia ne'
due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l'ultimo è tutto d'Angelici ludi. |
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124 |
Poi nei due penultimi cori
tripudianti si volgono i Principati e gli Arcangeli;
l’ultimo è tutto costituito dagli Angeli festanti. |
127 |
Questi
ordini di sù tutti s'ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano. |
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127 |
Questi ordini in alto
contemplano tutti Dio, e in basso esercitano il loro
influsso (sui cieli sottostanti), in modo che ciascun
coro è attratto verso Dio, e attrae a sé (le cose
sottostanti). |
130 |
E Dïonisio
con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com' io. |
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130 |
Dionigi l’Areopagita si
dedicò alla contemplazione di questi ordini con tanto
desiderio (di pervenire alla verità), che li chiamò e li
distinse come ho fatto io ora (che ne ho conoscenza
diretta). |
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Dionigi l'Areopagita (cfr. Paradiso X, nota relativa
alla terzina 115) il Medioevo attribuiva l'opera De
coelesti hierarchia, nella quale è presentato
l'ordinamento dei cori angelici seguito da San Gregorio
Magno nella Homelía XXXIV, ed esposto ora da Dante.
Successivamente nel Convivio (II, V, 6) Dante aveva
fatto propria la disposizione, fissata da San Gregorio
Magno (Moralia in Job XXXII, 48): Serafini, Cherubini,
Potestà; Principati, Virtù, Dominazioni; Troni,
Arcangeli, Angeli). |
133 |
Ma Gregorio
da lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise. |
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133 |
Ma San Gregorio Magno
espresse poi una diversa opinione; per la qual cosa
sorrise di se stesso non appena conobbe la verità
arrivando in questo cielo. |
136 |
E se tanto
secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch'ammiri:
ché chi 'l vide qua sù gliel discoperse |
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136 |
E non voglio che tu ti
stupisca se un mortale ha potuto rivelare in terra una
verità così misteriosa, perché gli fu rivelata da colui
(San Paolo) che la poté contemplare quassù |
139 |
con altro
assai del ver di questi giri». |
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139 |
insieme con molte altre
verità riguardanti questi cieli». |
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Dionigi, nel capitolo del De coelesti hierarchia,
dichiara che l'ordinamento dei cori angelici gli fu
rivelato da San Paolo, dopo che questo era stato rapito
in mistica contemplazione al terzo cielo (cfr. Inferno
II, 28-30).
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