IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

PARADISO

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 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI PARADISO CANTO VIII°

1 Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
  1 I popoli pagani con loro danno ritenevano che il bel pianeta Venere diffondesse con i suoi raggi l’amore sensuale, volgendosi nel terzo epiciclo;
4 per che non pur a lei faceano onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l'antico errore;
  4 per la qual cosa le genti antiche, chiuse nell’errore del paganesimo, non solo adoravano la dea Venere con sacrifici e con invocazioni accompagnate da voti,
7 ma Dïone onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio,
e dicean ch'el sedette in grembo a Dido;
  7 ma rendevano onore anche a Diana e Cupido, a quella come madre di Venere, a questo come figlio; e raccontavano che Cupido si era seduto in grembo a Didone;
  Secondo la mitologia classica, Venere, dea dell'amore e della bellezza (chiamata Ciprigna perché nata nel mare di Cipro e perché in quest'isola essa era particolarmente venerata), aveva la sua sede nel terzo cielo. Temo epiciclo: gli astronomi medievali, per spiegare le diverse posizioni assunte dai pianeti, ritenevano che ciascuno si muovesse, oltre che da oriente verso occidente, anche da occidente verso oriente, in un cerchio minore, il cui centro cadeva sulla circonferenza del primo (epiciclo: cerchio su cerchio). Mentre secondo gli antichi il pianeta Venere diffondeva, con la sua influenza, l'amore sensuale nel mondo, secondo il pensiero medievale esso dà origine a un amore benefico e positivo. Infatti gli intelletti motori del terzo cielo, "naturati de l'amore del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno d'amore, dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso per lo quale le anime di qua giuso s'accendono ad amore, secondo la loro disposizione. E perché li antichi s'accorsero che quello cielo era qua giù cagione d'amore, dissero Amore essere figlio di Venere" (Convivio II, V, 13-14). A quest'ultimo, come a Diana, che generò Venere da Giove, gli antichi estendevano le preghiere e i sacrifici offerti in onore della dea della bellezza. Riguardo a Cupido, Dante ricorda quanto narra Virgilio nell'Eneide ( I, 657-722 ): Venere inviò Cupido, sotto le sembianze del piccolo Ascanio, figlio di Enea, a sedere in grembo alla regina Didone, per infiammarla d'amore per l'eroe troiano.
10 e da costei ond' io principio piglio
pigliavano il vocabol de la stella
che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.
  10

e da Venere, dal nome della quale inizio questo canto, trae il nome la stella che il sole contempla come un innamorato ora mentre essa si trova alle sue spalle, ora mentre si trova davanti a lui.

  Il pianeta Venere, a causa del suo doppio movimento, alla sera appare dietro il sole (con il nome di Espero), al mattino davanti ad esso (con il nome di Lucifero). Riguardo al verso 12, molti critici considerano il sole soggetto, altri complemento oggetto. La prima interpretazione è quella più esatta dal punto di vista astronomico e quella più aderente alla situazione poetica, la quale, in tal modo, viene a trasformare in senso fantastico l'elemento scientifico, umanizzando l'immagine dei due astri nel rapporto affettivo fra Venere e il Sole.
13 Io non m'accorsi del salire in ella;
ma d'esservi entro mi fé assai fede
la donna mia ch'i' vidi far più bella.
  13 Io non mi accorsi di salire in esso; ma mi resi conto di esservi giunto quando vidi la mia donna farsi più bella.
16 E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand' una è ferma e altra va e riede,
  16 E come nella fiamma si vede la scintilla, e come in due voci (che, cantando insieme, sembrano una sola) si distingue l’altra voce, se una sta ferma su una nota e la seconda si alza e si ad bassa,
19 vid' io in essa luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne.
  19 così nella luce del pianeta Venere scorsi altre luci muoversi in giro più o meno veloci, in proporzione, credo, alla maggiore o minore intensità della loro visione di Dio.
22 Di fredda nube non disceser venti,
o visibili o no, tanto festini,
che non paressero impediti e lenti
  22 Da una fredda nube non discesero mai venti, visibili o no, tanto veloci, che non apparissero ritardati (nel loro procedere) e lenti
25 a chi avesse quei lumi divini
veduti a noi venir, lasciando il giro
pria cominciato in li alti Serafini;
  25 a chi avesse veduto quelle luci divine affrettarsi verso di noi interrompendo la danza circolare prima iniziata nel cielo degli alti Serafini;
  Secondo la scienza medievale di derivazione aristotelica i venti si formano quando i vapori caldi e secchi, salendo nella terza regione dell'aria, si scontrano con le nubi fredde. I venti visibili sarebbero i fulmini e le stelle cadenti, e quelli invisibili i venti propriamente detti. Secondo alcuni interpreti, invece, i primi rappresenterebbero i venti che spostano le nubi nel cielo e sollevano la polvere in terra. Gli alti Serafini sono le intelligenze motrici del Primo Mobile, il nono cielo, quello più vicino all'Empireo. Le anime che si sono staccate dall'Empireo per scendere nel terzo cielo hanno cominciato la loro danza nel Primo Mobile, perché è il primo corpo celeste dotato di movimento dopo il ciel sempre quieto (Paradiso 1, 122).
28 e dentro a quei che più innanzi appariro
sonava 'Osanna' sì, che unque poi
di rïudir non fui sanza disiro.
  28 e all’interno di quelle luci che apparvero davanti alle altre risuonava la parola “Osanna” con tanta dolcezza, che mai poi rimasi senza il desiderio di riudire quel canto.
31 Indi si fece l'un più presso a noi
e solo incominciò: «Tutti sem presti
al tuo piacer, perché di noi ti gioi.
  31 Poi una di queste si avvicinò di più a noi ed essa sola cominciò a parlare: “Tutti siamo pronti a soddisfare ogni tuo desiderio, affinché tu tragga da noi motivo di gioia.
34 Noi ci volgiam coi principi celesti
d'un giro e d'un girare e d'una sete,
ai quali tu del mondo già dicesti:
  34 Noi ci muoviamo con il coro angelico dei Principati nello stesso cerchio e con lo stesso movimento eterno e con lo stesso desiderio di Dio;
37 'Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete';
e sem sì pien d'amor, che, per piacerti,
non fia men dolce un poco di quïete».
  37 ad essi tu un tempo, quando eri nel mondo, ti rivolgesti con questa canzone: “Voi che ‘stendendo il terzo ciel movete”; e siamo così pieni d’amore, che, per compiacerti, non ci sarà meno dolce (rispetto alla danza e al canto) fermarci un poco (con te)”.
  I Principati sono le intelligenze angeliche che presiedono al terzo cielo, dove si trovano le anime che in terra, per influsso di Venere, sentirono con particolare intensità l'amore. Trascinate dapprima al male, esse seppero poi indirizzare questa loro inclinazione verso il bene. " Voi che 'intendendo il terzo ciel movete" (voi che solo con la vostra intelligenza fate muovere il terzo cielo) è la prima canzone del Convivio ed è commentata nel secondo libro, Tuttavia lì era riferita ai Troni, mentre nel Paradiso, Dante, secondo la gerarchia celeste attribuita al grande scrittore mistico greco del V secolo, lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, pone nel terzo cielo i Principati.
40 Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
a la mia donna reverenti, ed essa
fatti li avea di sé contenti e certi,
  40 Dopo che i miei occhi si furono rivolti a Beatrice per chiedere umilmente il permesso di parlare, ed ella li rese paghi e certi del suo consenso,
43 rivolsersi a la luce che promessa
tanto s'avea, e «Deh, chi siete?» fue
la voce mia di grande affetto impressa.
  43 ritornarono allo spirito che con tanta generosità si era offerto (di soddisfare ogni mio desiderio ), e le mie parole, pronunciate con tono di profondo affetto, furono: “Deh, chi siete?”
46 E quanta e quale vid' io lei far piùe
per allegrezza nova che s'accrebbe,
quando parlai, a l'allegrezze sue!
  46 Come lo vidi farsi più grande in ampiezza e fulgore per il nuovo gaudio che, quando gli rivolsi la parola, si aggiunse a quello che già provava come anima beata!
49 Così fatta, mi disse: «Il mondo m'ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe.
  49 Diventato più luminoso, mi disse: “ Il mondo mi ebbe poco tempo con se; e se fossi vissuto di più, si sarebbe evitato molto male, che invece avverrà.
52 La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia dintorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
  52 La letizia, che si diffonde intorno a me e mi ricopre come fossi un baco fasciato dal suo bozzolo, mi nasconde ai tuoi occhi.
55 Assai m'amasti, e avesti ben onde;
che s'io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.
  55 Assai mi amasti, e ben ne avesti ragione, perché se io fossi rimasto (più a lungo) in terra, ti avrei mostrato molto più che le fronde del mio affetto (offrendoti anche i suoi frutti) .
58 Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch'è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m'aspettava,
  58 Mi aspettavano come loro signore a tempo debito (dopo la morte di mio padre) la Provenza, che si stende lungo la riva sinistra del Rodano a sud del luogo in cui esso riceve le acque del Sorga,
61 e quel corno d'Ausonia che s'imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
  61 e quella parte d’Italia fatta a modo di corno che protende i suoi borghi di Bari, Gaeta e Catona a partire dal punto nel quale il Tronto e il Verde sfociano in mare.
  Carlo Martello passa in rassegna le terre che un giorno avrebbero dovuto essere sue, rimpiangendo con voce accorata non il fiore degli anni o la potenza di cui non poté godere, ma il bene che egli non poté compiere per i suoi popoli (e se più fosse stato, molto sarà di mal, che non sarebbe: fin dal l'inizio la sua figura è apparsa ripiegata su questa dolorosa meditazione) e per coloro che gli furono cari (s'io fossi giù stato, io ti mostrava di mio amor pia oltre che le fronde). "La splendida rassegna... di tutte le terre che gli destinavano la loro corona, a lui arridenti nel fascino incantevole delle loro città, dei loro fiumi, dei loro promontori, dei loro vulcani e dei loro mari, non muove da vana ostentazione, né è soltanto un espediente per il palesamento della sua persona, ma vuole riuscire soprattutto una dimostrazione convincente dei limiti che avrebbe potuto raggiungere la sua volonterosa operosità di regnante, non meno che la sua regale magnificenza verso Dante, qualora esse avessero potuto esercitarsi..." (Rossi-Prascino) Dopo la Provenza lo sguardo di Carlo Martello si volge al regno di Napoli, visto come un triangolo i cui punti estremi sono costituiti da Bari (a est), Gaeta ( a ovest), Catona ( a sud). S'imborga: molti critici intendono "ha come borghi", e quindi "ha come punti estremi", altri, invece, accettano l'interpretazione del Buti: "s'incittadinesca, e hae per borghi, cioè per cittadi', poiché " borgo " ha come significato originario quello di "città". Altri interpreti hanno pensato che " borgo " significa in questo momento "castello" , " fortezza", ricordando che anche Catona un tempo costituiva una grande piazzaforte come Bari e Gaeta. Il Liri o Garigliano e il Tronto segnavano il confine fra il regno napoletano e il Lazio e le Marche.
64 Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che 'l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.
  64 Mi risplendeva già sulla fronte la corona d’Ungheria, la terra che il Danubio bagna dopo essere uscito dal territorio germanico.
67 E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
  67 E la bella Sicilia, che si vela di caligine nel tratto di costa fra il capo Passaro e il capo Faro presso il golfo di Catania, che è investito dallo scirocco più che da altri venti,
70 non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
  70 non per colpa di Tifeo ma per le emanazioni sulfuree del terreno, avrebbe tuttora atteso i suoi re legittimi, che sarebbero discesi attraverso me da Cario e da Rodolfo,
73 se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: "Mora, mora!".
  73 se il malgoverno, che sempre rattrista i popoli soggetti, non avesse mosso la popolazione di Palermo a ribellarsi al grido: “Morte, morte (ai Francesi)!”
  La geografia medievale, seguendo le affermazioni di Orosio, riteneva che l'Italia si protendesse da nord-ovest a sud-est e fosse bagnata a sud-ovest dal mar Tirreno e a nord-est dall'Adriatico, con il quale veniva confuso il mar Jonio, Può stupire che il Poeta rappresenti tutta la costa orientale della Sicilia ( chiamata, con termine greco, Trinacria per le sue tre punte ) avvolta da una densa nebbia, ma Dante potrebbe riferire le informazioni esagerate di chi, stando sulla riva calabrese, ha visto per qualche giorno quella parte della Sicilia annebbiata dal fumo dell'Etna in attività. Tuttavia, come sempre, quando è possibile, Dante preferisce sostituire la spiegazione scientifica (emanazioni sulfuree) del fenomeno naturale a quella offerta dalla fantasia o dal mito. Così respinge la leggenda, raccolta da Ovidio (Metamorfosi V, 352,356) e da Virgilio (Eneide III, 570-582), secondo la quale quei vapori sarebbero causati dall'agitarsi del gigante Tifeo, che, dopo essere stato fulminato da Giove, fu sepolto sotto l'Etna. La bella Trinacria non poté essere governata né da Carlo Martello né dai suoi figli, discendenti per parte di padre da Carlo I d'Angiò e per parte di madre da Rodolfo I d'Asburgo, la cui figlia Clemenza era andata sposa a Carlo Martello nel 1287, quando entrambi erano ancora fanciulli. Infatti il dominio angioino nell'isola ebbe termine con la rivolta popolare dei Vespri Siciliani (marzo 1282) contro il malgoverno di Carlo I, allorché, narra il Villani (Cronaca VII, 61), il popolo di Palermo corse " ad armarsi gridando: "Muoiano i Franceschi" ". Dante, pur non legittimandola, non condanna la ribellione violenta contro la autorità, quando questa opprime il popolo. Inoltre egli non ebbe mai una parola di lode per gli Angioini, da lui sempre accusati di avidità e di ingiustizie. Cosi, pur salvando Carlo I (cfr. Purgatorio VII, 113) forse per la sua liberalità, non cessò mai, come in questo caso, di mettere in rilievo i molteplici aspetti negativi della sua azione di governo. Mentre lo sguardo di Carlo Martello dominava, nella gloria del cielo di Venere, tutte le terre sulle quali avrebbe dovuto regnare, la sua visione del mondo si incideva con la chiarezza e la calma profonda di chi contempla le cose ad una ad una, nella lontananza di una raggiunta serenità. Ma quando egli prende in esame la situazione della sua famiglia e dei suoi popoli, muta il tono della voce e le sue parole si alzano per accusare e deplorare: l'anima che si era presentata inebriata d'amore divino (verso 38), partecipante della vita dei Principi celesti (versi 34-35), emette un giudizio senza appello sulla sorte della sua dinastia, dà sfogo al proprio sdegno con accenti severi e solenni, assurge alla dignità dell'exemplum, diventando simbolo del monarca ideale che incarna " valore " e " cortesia", che si oppone alla mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti 73-74).
76 E se mio frate questo antivedesse,
l'avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse;
  76 E se mio fratello prevedesse le conseguenze del malgoverno, già allontanerebbe da se l’avida povertà dei Catalani, perché non gli potessero nuocere;
79 ché veramente proveder bisogna
per lui, o per altrui, sì ch'a sua barca
carcata più d'incarco non si pogna.
  79 poiché bisogna veramente che da parte sua, o da parte altrui, si provveda affinché il suo regno già gravato (dalla sua cupidigia) non venga oppresso da nuovi pesi.
  L'ammonimento di Carlo Martello, che si trasforma in amara profezia (e se...), è rivolto al fratello Roberto, che successe al padre Carlo II sul trono di Napoli nel 1309. L'avara povertà di Catalogna: Roberto d'Angiò, con il fratello Lodovico, visse dal 1288 al 1295 in Catalogna come ostaggio presso il re d'Aragona per riscattare il padre Carlo II, che era stato sconfitto e fatto prigioniero nella battaglia navale di Napoli del giugno 1284 ( cfr. Purgatorio XX, 79 ) . Qui fece amicizia con molti nobili e cavalieri catalani; ritornato a Napoli, li condusse con se, assegnando loro incarichi civili e militari (cfr. Villani - Cronaca VIII, 82; IX, 39; X, 17) nei quali essi mostrarono tutta la loro ingorda cupidigia.
82 La sua natura, che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
che non curasse di mettere in arca».
  82

La sua indole, che derivo avara da antenati liberali e generosi, avrebbe bisogno di funzionari tali che non si preoccupassero soltanto di riempire le loro borse”.

  Non è possibile riferire la natura larga al padre di Roberto, Carlo II d'Angiò, che Dante, attraverso l'invettiva di Ugo Capeto, ha già accusato di avidità (cfr. Purgatorio XX, 80-81 ); occorre quindi pensare agli antichi rappresentanti della dinastia angioina. Dal contrasto tra la nobiltà di un tempo e la corruzione del presente il discorso acquisisce una forza ideale: la visione di Carlo Martello non sembra più limitarsi ai mali della sua famiglia, perché attraverso l'avara povertà di Catalogna e la sua mala segnoria l'accusa si rivolge alla degradazione morale-politica ( i due termini in Dante sono sempre sinonimi) del tempo.
85 «Però ch'i' credo che l'alta letizia
che 'l tuo parlar m'infonde, segnor mio,
là 've ogne ben si termina e s'inizia,
  85 “Poiché io credo che la profonda gioia che mi danno le tue parole, o mio signore, in Dio, principio e termine di ogni bene,
88 per te si veggia come la vegg' io,
grata m'è più; e anco quest' ho caro
perché 'l discerni rimirando in Dio.
  88 tu la veda con la stessa chiarezza con la quale io la sento in me, tale gioia mi è più gradita; e mi è cara anche per un altro motivo, perché tu la vedi guardando direttamente in Dio (cosi come fanno tutti i beati).
  I versi 88-90 non possono essere considerati una ripetizione di quanto è già stato affermato nei tre precedenti, perché il Poeta, dopo essersi compiaciuto che Carlo Martello veda la sua alta letizia in Dio con la stessa chiarezza e completezza di chi prova quel sentimento, si compiace che essa sia veduta proprio attraverso Dio.
91 Fatto m'hai lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m'hai mosso
com' esser può, di dolce seme, amaro».
  91 Mi hai reso felice, ma ora chiarisci un mio dubbio, poiché, con le tue parole, mi hai spinto a chiedermi in che modo da un seme dolce possa derivare un frutto amaro (cioè: in che modo possano discendere da una nobile stirpe rappresentanti degeneri)".
94 Questo io a lui; ed elli a me: «S'io posso
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
terrai lo viso come tien lo dosso.
  94 Io gli dissi queste cose; ed egli mi rispose: “ Se riuscirò a dimostrarti una verità fondamentale, tu potrai volgere gli occhi all’oggetto della tua domanda così come ora gli volgi le spalle (cioè: capirai il problema del quale, per il momento, non riesci a renderti conto).
97 Lo ben che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi.
  97

Dio, il Bene che muove e rende lieti i cieli attraverso i quali tu sali, fa si che la sua provvidenza diventi, in questi grandi corpi celesti, virtù (capace di influire sul mondo sottostante).

  I versi 97,111 possono essere considerati una breve appendice alla teoria delle influenze celesti da Dante svolta nel canto secondo del Paradiso. Data la premessa (la provvidenza divina si trasforma nei cieli in virtù operante), la conclusione è evidente: gli effetti prodotti dai corpi celesti con le loro influenze sono voluti e guidati da Dio, e tendono ad un fine giusto e razionale, stabilito ab esterno dalla volontà divina. Da questa conclusione Carlo Martello dedurrà una verità particolare: il fine dell'uomo, fissato da Dio, è la convivenza sociale (versi 115-116) . Alcune battute di questo dialogo fra l'anima beata e il Poeta "tenderebbero a dar movimento scenico alla dissertazione dottrinale", ma lo schematismo delle domande e delle risposte "non trasforma, come avviene di solito in questa cantica, il freddo raziocinare in dramma dell'intelletto, cui partecipa il sentimento" (Pézard).
100 E non pur le nature provedute
sono in la mente ch'è da sé perfetta,
ma esse insieme con la lor salute:
  100 Nella mente divina, di per se perfetta, non solo si provvede all’esistenza delle molteplici nature terrene, ma anche a quanto è loro utile:
103 per che quantunque quest' arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
sì come cosa in suo segno diretta.
  103 per tale motivo tutto ciò che è generato dall’influenza dei cieli è disposto secondo un fine prestabilito da Dio, come una freccia lanciata verso il suo bersaglio.
106 Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi effetti,
che non sarebbero arti, ma ruine;
  106 Se così non fosse, i cieli che tu attraversi produrrebbero effetti tali, che non sarebbero opere ordinate e razionali, ma disordine e distruzione;
109 e ciò esser non può, se li 'ntelletti
che muovon queste stelle non son manchi,
e manco il primo, che non li ha perfetti.
  109 tuttavia ciò e impossibile, se le intelligenze motrici di questi cieli non sono difettose, e se non è difettoso il primo intelletto (Dio), che, in questo caso, non le avrebbe create perfette.
112 Vuo' tu che questo ver più ti s'imbianchi?».
E io: «Non già; ché impossibil veggio
che la natura, in quel ch'è uopo, stanchi».
  112 Vuoi che ti illumini maggiormente questa verità che ti ho enunciata?” Ed io: “No certamente, perché so che è impossibile che la natura venga meno al fine che si è prefissa”.
115 Ond' elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
per l'omo in terra, se non fosse cive?».
«Sì», rispuos' io; «e qui ragion non cheggio».
  115 Perciò egli rispose: “Ora dimmi: sarebbe peggio per l’uomo sulla terra, se non vivesse in convivenza con gli altri? “Sì” risposi, “e di questa verità non chiedo dimostrazione”.
118 «E puot' elli esser, se giù non si vive
diversamente per diversi offici?
Non, se 'l maestro vostro ben vi scrive».
  118 “E potrebbe l’uomo essere cittadino (cioè far parte di un’organizzazione civile), se ciascuno nel mondo non vivesse in condizione diversa (rispetto a quella degli altri ), esercitando funzioni diverse? No certo, se Aristotile, il vostro maestro, vi insegna esattamente.”
  Aristotile, "maestro de l'umana ragione" (Convivio IV, II, 16) e "dignissimo di fede e d'obedienza" (Convivio IV, VI, 5 ), afferma in molti passi delle sue opere che l'uomo è creato non per vivere isolatamente, ma per fare parte di un consorzio civile, nel quale occorre, quindi, non solo una differenziazione di attitudini naturali, ma anche una differenziazione di compiti e uffici. Tale posizione di Aristotile, fatta propria da tutta la Scolastica, ritorna frequentemente in Dante (Convivio IV,IV, 1-2; IV, XXVII, 3; Monarchia I, V; II, VI).
121 Sì venne deducendo infino a quici;
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:
  121 Cosi venne svolgendo le sue deduzioni fino a questo punto poi concluse: “ Dunque (se gli uomini devono assumersi compiti differenti) è necessario che ( in ciascuno di voi) siano diverse le attitudini dalle quali siete indotti a compiere uffici diversi:
124 per ch'un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l'aere, il figlio perse.
  124 per la qual cosa uno nasce (con l’attitudine del legislatore, come) Solone, e un altro (con quella del condottiero, come) Serse, uno (con la vocazione del sacerdote, come) Melchisedech e un altro (con quella dell’arte, come) Dedalo, l’artefice che, volando nell’aria, perse il figlio.
  Solone fu un famoso legislatore ateniese (c. 638 - c. 558 a. C.); Serse, figlio di Dario re dei Persiani, nel V secolo a. C. guerreggiò a lungo con i Greci; Melchisedech, re di Salem, fu il sacerdote che benedisse Abramo (Genesi XIV, 18 sgg.); Dedalo (ritenuto nel Medioevo il più grande artista dell'antichità) fu rinchiuso da Minosse, re di Creta, nel labirinto; da li fuggi dopo aver costruito ali di cera per se e per il figlio Icaro. Ma quest'ultiimo si avvicinò troppo al sole: le ali di cera si sciolsero e il giovinetto precipitò in mare (cfr. Inferno XVII, 109-lll).
127 La circular natura, ch'è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l'un da l'altro ostello.
  127 Con il loro movimento circolare i cieli, che imprimono nelle creature il suggello della loro influenza, svolgono saggiamente la loro opera (distribuendo fra gli uomini attitudini diverse), ma (nel fare ciò) non distinguono tra casa e casa, tra famiglia e famiglia.
130 Quinci addivien ch'Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.
  130 Di qui accade che Esaù si differenzia da Giacobbe già al momento del concepimento, e che Romolo discende da un padre di così umile condizione, che se ne attribuisce la paternità a Marte.
  Esaù e Giacobbe, per quanto gemelli, furono molto diversi fra di loro, perché l'uno fu di indole bellicosa, l'altro di carattere mite. I Romani, per nobilitare la nascita di Romolo, il cui padre era ignoto, diffusero la credenza che egli fosse stato generato dal dio Marte.
133 Natura generata il suo cammino
simil farebbe sempre a' generanti,
se non vincesse il proveder divino.
  133 La natura dei figli sarebbe sempre simile a quella dei padri, se la provvidenza divina (per mezzo delle influenze celesti) non vincesse (la naturale tendenza per cui il figlio assomiglia al padre).
136 Or quel che t'era dietro t'è davanti:
ma perché sappi che di te mi giova,
un corollario voglio che t'ammanti.
  136 Ora la verità che tu non vedevi ti è davanti agli occhi: ma affinché sappia che mi è dolce intrattenermi con te, voglio aggiungerti un corollario.
139 Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sé, com' ogne altra semente
fuor di sua regïon, fa mala prova.
  139 Sempre la disposizione naturale, se trova discordanti da se le condizioni esterne, fa cattiva prova, come ogni seme che venga gettato in un terreno non adatto.
142 E se 'l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente.
  142 E se il mondo laggiù tenesse conto delle inclinazioni poste dalla natura in ciascuno e le seguisse, avrebbe sempre gente valente (adatta, cioè, ad eseguire i compiti affidati dalle influenze celesti).
145 Ma voi torcete a la religïone
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch'è da sermone;
  145 Ma voi costringete alla vita religiosa chi è nato per la vita militare, ed eleggete re chi è adatto a far prediche:
148 onde la traccia vostra è fuor di strada».   148 per questo il vostro cammino è fuori della retta via”.
  Fate re di tal ch'e da sermone: tutti i commentatori antichi sono concordi nel ritenere questo verso un'allusione da parte di Carlo Martello al fratello Roberto diventato re di Napoli nel 1309. Egli diede cattiva prova in campo politico, ma divenne famoso, al suo tempo, per cultura letteraria e teologica.

 

© 2009 - Luigi De Bellis