POETI MINORI DEL TRECENTO
Il Trecento è
caratterizzato, a paragone del secolo precedente (in
cui. acquista un rilievo predominante l'esperienza della
lirica d'amore, dai siciliani agli stilnovisti, riflessa
in forma consapevole nella dottrina del De vulgari
eloquentia), dalla straordinaria pluralità e varietà
delle voci in cui si esprime il sentimento di una
cultura letteraria assai più complessa e insieme più
dispersiva e obbediente a molte sollecitazioni
discordanti. Tre grandi nomi, consacrati in un canone a
buon diritto tradizionale, segnano i momenti essenziali
di questa cultura; ma appunto, con la loro grandezza,
accentuano a dismisura il distacco e la povertà delle
esperienze minori; mentre, con la loro successione,
sottolineano la complessità di cui si è detto,
l'irrequietezza e il rapido trasmutarsi dei riflessi
culturali e letterari di una struttura sociale, che in
un breve giro di anni vede un po' in tutta la penisola
frantumarsi le istituzioni comunali, disgregarsi il
sistema dei rapporti economici ad esso corrispondente,
costituirsi le signorie e i principati, prepararsi
insomma, con varie alternative e attraverso lotte aspre,
e non senza discontinuità cronologiche determinate da
specifiche situazioni locali, quello che sarà per secoli
l'assetto relativamente stabile della società italiana e
della sua cultura. Un'età, dunque, per eccellenza, di
transizione; segnata da alcune fortissime personalità di
orgogliosi pionieri e capostipiti della civiltà moderna,
e da una folla di tentativi e di esperimenti, in cui si
rispecchia la vita difficile, contraddittoria, irta di
delusioni e di utopie, di un mondo che si dibatte nella
travagliosa ricerca di un nuovo ordine politico morale
ed intellettuale.
Intendere questo travaglio significa infine rendersi
conto di quel fenomeno storico complesso e bifronte, che
si suol designare, rispetto allo svolgimento della
cultura, col termine di umanesimo, e al quale si
riconnette non a caso, nella secolare tradizione
storiografica, per quanto si riferisce all'Italia
almeno, un'alterna vicenda di valutazioni discordanti:
ora disposte a ritrovarvi le premesse e i fondamenti
della grande lezione rinascimentale e della sua funzione
europea; ora, soprattutto nella critica ottocentesca e
romantica, portate piuttosto a puntualizzare in esso
l'inizio o il sintomo di una crisi, di un'involuzione
profonda della società italiana e l'espressione, se non
proprio la causa, del mancato sviluppo di una cultura
nazionale autonoma. La chiave per un'interpretazione più
persuasiva dell'umanesimo, che risolva in un nesso
dialettico questo contrasto di valutazioni, sta forse
proprio in uno studio più attento del Trecento italiano;
perché è proprio nell'Italia del secolo XIV che si
elabora primamente il volto della moderna civiltà
dell'Europa; ma questa scoperta di una nuova prospettiva
culturale ed umana viene a coincidere anche con
l'esaurirsi di un promettente rigoglio di civiltà
politica e reca con sé il germe di quella dolorosa
scissione, caratteristica di tutta la storia italiana
per secoli, tra la coscienza politica e la vita
intellettuale e morale, fra il cittadino e lo scrittore.
L'umanesimo, in quanto invenzione di una nuova tavola di
valori culturali ed umani che polemicamente si
contrappone al medioevo ascetico e feudale, è invero la
coscienza, fatta esplicita e chiara, della civiltà
borghese dei Comuni: la scoperta dell'iniziativa
dell'uomo creatore dei suoi beni e della sua fortuna;
l'esaltazione dell'intelligenza e dell'astuzia mondana,
della potenza e della ricchezza terrena, e anche delle
umane passioni, della dignità dei sentimenti e del loro
complesso caratterizzarsi; donde l'esigenza del realismo
narrativo e del lirismo introspettivo nella letteratura,
dell'antiscolasticismo nella filosofia, e nell'etica una
più spregiudicata attenzione alla casistica dei valori
sociali e individuali; l'avvento insomma di una
concezione laica della vita, legata a interessi
concreti, consapevole delle sue forze, inizialmente
ottimistica, esuberante e avida di progresso. Ma nel
momento stesso in cui questa nuova coscienza umanistica
perviene in Italia alla sua maturità, già. la struttura
sociale, in cui essa si era venuta elaborando, è entrata
in una fase di decadenza, ha iniziato il suo processo di
disgregazione e s'avvia a una rapida rovina. La
rivoluzione politico-economica, che ha la sua
espressione nel Comune italiano, recava nel suo seno
anche il germe di questo capovolgimento delle
prospettive culturali, che giunge alla sua pienezza,
dopo una lenta elaborazione sotterranea, nella civiltà
trecentesca, nelle opere dell'Alighieri, del Boccaccio e
del Petrarca; ma questa raggiunta maturità si rivela fin
dal principio tormentata e intimamente scissa, ha lo
splendore troppo acceso e un po' fragile di un fiore
sradicato che consuma in un effimero fervore le sue
linfe superstiti (e non darà frutto); il fastigio
supremo di una civiltà viene così a coincidere con i
primi segni della decadenza, in un'atmosfera di decoro e
di raffinatezza, che prepara da lontano i trionfi
dell'accademia e della pedanteria filologica. Interpreti
e attori al tempo stesso di questa vicenda
contraddittoria, in cui si celebra il nascimento di una
grande cultura moderna, del suo splendore, del suo
orgoglio polemico e delle ragioni del suo imminente
declino, sono i protagonisti della civiltà italiana
trecentesca...
Dante, Boccaccio, Petrarca additano i momenti più
importanti, le fasi di un trapasso, di una
trasformazione radicale delle strutture politiche, dei
costumi, delle concezioni del mondo. In essi
l'esperienza culturale attinge a quel supremo rigore che
caratterizza le punte più consapevoli e riflesse di una
civiltà. I minori del Trecento sono invece lontanissimi
da un rigore siffatto, come pure da quello piuttosto
scolastico, ma pur sempre indice di una vicenda
intellettuale cosciente delle sue direttive e dei suoi
limiti, che aveva guidato e regolato i progressi
dell'attività letteraria del secolo XIII. Essi
presentano un quadro più vario, ma più incerto, più
difficile ad affermarsi, più dispersivo e più ibrido, in
cui galleggiano i residui inerti di una cultura già
spenta e ridotta a bagaglio di formule astratte, ma
anche affiorano a tratti voci nuove, più facili e
cordiali.
Guardate i lirici, ad esempio. Ciò che più spicca, a
paragone della coerenza della scuola dai siciliani allo
stil novo, è proprio il carattere estremamente empirico
dei loro tentativi, la loro riluttanza ad accettare un
sistema preciso di schemi contenutistici e di
linguaggio, la prontezza con cui obbediscono di volta in
volta alle suggestioni più disparate dell'ambiente:
insomma una cultura ed un gusto tipicamente informi. Se
nei primi anni del secolo registriamo una fioritura di
mediocri rimatori che riecheggiano dall'esterno
l'insegnamento degli stilnovisti, con una totale
incapacità per altro di adesione sostanziale; se per
contro negli ultimi decenni del Trecento, in un clima di
stanchezza e di esaurimento, fiorisce l'illusione
arcaicizzante ed erudita dei letterati intenti a
risuscitare il fascino di quella lirica preziosa, su un
piano meramente verbale di più o meno decorosa
accademia; ciò che conta è piuttosto l'apporto di una
folla di piccoli maestri, dei quali è assai più arduo
definire un'immagine e un'impronta stilistica, e la cui
importanza consiste forse soltanto nell'immediatezza con
cui riflettono i dati di una cultura disgregata e
ibrida, adattandoli alle mediocri esigenze della loro
incerta e torbida biografia da Fazio degli Uberti al
Correggiaio, dal Vannozzo ad Antonio da Ferrara, da
Giannozzo Sacchetti a Simone Serdini, dal Bonichi al
Faitinelli ed al Pucci, dal Soldanieri al Donati e al
Prudenzani. Non a caso alcune di queste figure sono
estremamente vaghe e sfuggenti alle ricerche del
filologo; e quando anche i dati documentari son
sufficienti a permetterci di stabilire con esattezza i
limiti dei singoli canzonieri, il risultato non ci
appare perciò meno inconsistente per l'affiorare di una
molteplicità di elementi contraddittori, che non
riescono ad assestarsi, caso per caso, in una fisionomia
unitaria.
Ciò che conta è la varietà grande, dall'uno all'altro,
degli spunti e dei motivi d'ispirazione; e in tutti la
presenza di una sollecitazione autobiografica immediata
e di una continua occasionalità dei temi, e insieme
l'esigenza di un vario sperimentare di forme e di
tecniche e di linguaggi, aperto tutto in una volta agli
echi della grande tradizione trovadorica e dantesca,
alla suggestiva novità del lirismo petrarchesco, alle
eleganze fiorite della poesia musicale, al < parlato»
incisivo e mordente dell'Angiolieri, al gusto dei
suggerimenti popolareschi, allo squallido mitologismo
ornamentale dei grammatici preumanisti. Senza dire che
poi tutte queste ed altre reminiscenze e maniere, non
solo si succedono, ma si alternano, si intersecano, si
mescolano di continuo in uno stesso autore, talora in un
solo componimento. Si tratta per lo più non di poesia,
ma di letteratura: di una letteratura per altro
irrequieta e mobilissima, che attraversa zone intense, e
solo verso il finire del secolo approda ai malinconici
esercizi di un generico squallore. Non diversamente,
nella sezione dei poemi allegorici e didattici, vedete
come dal serio impegno dei testi più antichi si passi
solo a poco a poco al modo dispersivo e tutto esterno
degli esempi più tardivi, in cui l'allegoria è poco più
che un gioco e un pretesto per accogliere e legare alla
meglio una somma di minute esperienze di vita, e più
spesso di letteratura.
Non è luogo qui di indugiare in una descrizione dei nomi
e dei testi singoli (a ciò sopperiscono abbastanza le
notizie introduttive ai diversi canzonieri o poemi o
gruppi di liriche). Basterà, dopo aver riconosciuto
questo frantumarsi degli elementi di una cultura
letteraria in una moltitudine di esperienze individuali,
e talora nell'ambito persino di una singola esperienza,
dar rilievo alle figure e ai fatti più salienti: oltre i
rimatori già ricordati (e il fenomeno, che essi
incarnano, di un allargarsi e ramificarsi capillare
degli interessi letterari in tutte le parti della
pensiola) all'alba del secolo, la pungente fantasia
satirica e mimica dell'autore del Fiore, la robusta vena
gnomica e l'infinita curiosità di Francesco da Barberino;
più tardi, la pubblicistica un po' pettegola, ma arguta
schietta e fantasiosa di un Pucci; e, con essa, che è
forse l'apporto più importante e significativo, la
dovizia inconsueta dei testi popolari e semipopolari.
Cantári, serventesi, laudi e rappresentazioni sacre,
frottole, strambotti, favole e proverbi: è tutta una
ricca letteratura, che rappresenta la maggior somma di
invenzioni e di modi veramente nuovi in questa poesia
minore trecentesca, e, soprattutto nei cantàri, oltreché
la più fertile di schiette, se pur tenui emozioni
poetiche, anche la più attiva, in quanto è quella che
maggiormente opera a svincolare anche la letteratura
ufficiale dagli schemi del passato, ad aprirle nuove
vie, ad offrirle temi inusitati e fecondi. Anche questo
rilievo inconsueto, che acquista nel Trecento la
letteratura popolare, ci aiuta a definire meglio gli
aspetti minori di una civiltà caratterizzata appunto dai
segni della molteplicità, della varietà, dell'estremo
empirismo dei tentativi e dei linguaggi; il che comporta
anche, nonostante tutto, il senso di una più larga
apertura, di una più varia ricchezza, e cioè
l'affacciarsi almeno potenziale, di una problematica
letteraria più duttile e in parte più moderna, più
promettente, che per altro, nel trionfo dell'ideale
umanistico (che tende sempre più a svincolarsi dalle sue
origini e ad affermarsi nella sua astratta assolutezza)
era destinata a rimanere da noi senza proseguimento e
sviluppo. |