La prosa latina del Quattrocento
Si aprono, a proposito
della prosa latina, due questioni strettamente connesse e
che sembrano in qualche modo, già nella loro impostazione,
venir contrastando con quei caratteri stessi che si sono
voluti definire: come, infatti, parlare della « umanità » di
una produzione che si serviva di una lingua che nessuno
ormai usava e che, dunque, già nel mezzo espressivo poneva
come suo canone l'imitazione; in che modo una letteratura
mimetica, ricalcata sui modelli «ciceroniani», poteva
oltrepassare i limiti dell'erudizione? Ma i due gravi
problemi, del latino umanistico e della imitazione classica,
già tanto dibattuti, hanno ormai offerto anche l'avvio a una
soluzione.
Quanto infatti si obbietta intorno all'uso del latino, in
luogo del volgare e ad una presunta frattura che si
opererebbe rispetto alla tradizione trecentesca, deve essere
corretto con l'osservazione che i generi di prosa a cui ci
riferiamo - orazioni, trattati, epistole politiche, dialoghi
dottrinali - avevano sempre fatto uso del latino. Non è
quindi esatto dire che da un presunto uso del volgare si
torna al latino; è vero invece che al latino medievale
definito barbarico, e cioè goto o parigino, si oppone un
altro latino che si determina e si definisce rispetto ai
modelli classici. Il quale latino, che si dichiara - come
dice esplicitamente il Platina - integrato da tutta la più
feconda tradizione postciceroniana, ivi compresi i Padri
della Chiesa, intende rivendicare i diritti di una lingua
nazionale romana contro l'universalità di un gergo
scolastico (lo stile parigino), ed innanzitutto nel campo di
una produzione costantemente espressa in latino. Giustamente
il De Sanctis sottolineava la frase del Valla che proclama
lingua nostra il latino vero, che si contrappone al
latinogotico dell'uso medievale. La quale « nostra lingua
romana » degli umanisti, che si precisa con caratteri propri
così rispetto al latino classico come a quello barbaro, va
vista per quello che essa veramente è, anche rispetto al
volgare: « un nuovo latino, in cui la complessità antica
cede il posto alla scioltezza moderna ». Il latino degli
umanisti, lingua veramente viva che aderisce in pieno ad una
cultura affermatasi attraverso una consapevolezza critica
che si collocava chiaramente nel tempo definendo i propri
rapporti così col mondo antico come con il Medioevo; il
latino dei grandi umanisti, lungi dal rappresentare una
battuta d'arresto o un momento di involuzione, si colloca
nella storia stessa del volgare. «Il latino insegnava al
volgare l'eleganza la misura la forza e l'eloquenza, e il
volgare imprimeva negli scritti latini degli umanisti le
leggi del suo andamento piano, della sua sintassi sciolta,
dei suoi trapassi intuitivi, della sua eloquenza interiore»
. Fra il latino, in cui si rispecchia pienamente tutto un
atteggiamento culturale, e il volgare v'è una collaborazione
che del resto si traduce quasi materialmente nel fatto che
gli autori spesso scrivono l'opera loro in latino e in
italiano. Non sempre si è posto mente al fatto che dal
Manetti al Ficino gli stessi trattatisti, siano pur
filosofi, stendono anche in volgare le loro meditazioni. E
come il loro latino è davvero una lingua loro, così il
volgare che adoperano non è per nulla oppresso da una
imitazione artificiosa di modelli classici.
Giungiamo così a quello che forse è il punto più delicato ad
intendersi dell'atteggiamento di questi quattrocentisti:
l'imitazione degli antichi. Che la posizione assunta dagli
umanisti rispetto agli autori classici sia alimentata da una
preoccupazione storica e critica; che essi siano dei
filologi desiderosi innanzitutto di comprendere gli autori
del passato nelle loro reali dimensioni e nella loro
situazione concreta: è cosa ormai in complesso pacifica. Ora
già questo definisce il senso di quella imitazione, che
indica un atteggiamento molto caratteristico. L'Accolti
dichiarerà nettamente la parità di valore tra i nuovi autori
e i classici. Poliziano nella polemica col Cortesi, che è un
testo capitale, confuterà tutte le istanze del
ciceronianismo, e proclamerà il valore di un'intera
tradizione afferrata nel suo sviluppo, rivendicando il senso
di tutto il periodo più tardo della letteratura romana («
neque autem statim deterius dixerimus quod diversum sit »).
Ma dirà soprattutto l'enorme distanza fra una poesia che
fiorisce come libera creazione su una cultura meditata e
fatta proprio sangue, e l'imitazione pedestre - illa poetas
facit, haec simias.
L'Umanesimo fu in questa singolare «imitazione-creazione»,
come l'ha chiamato il Russo: umanità fatta consapevole
attraverso il rapporto stabilito con gli altri uomini
nell'operoso sforzo di raggiungere una sempre più alta forma
di vita. Di qui, appunto, il particolare carattere delle sue
più felici espressioni letterarie.
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