Poliziano tra Orfeo e Stanze
La presenza di un'arte
raffinatissima, sorretta da una cultura squisita e un po'
preziosa, spiega quel che di decorativo e di esteriormente
leggiadro permane anche nelle parti più belle delle opere
volgari: essa costituisce il limite della poesia di
Poliziano, ma anche il punto di partenza essenziale e
necessario... Quello che il Poliziano rappresenta è il mondo
del mito, che lo studio dei poeti classici ha fatto
risorgere, che si ravviva nel fuoco di una fantasia
commossa: mondo ormai definito e immutabile, che le nostre
piccole passioni non valgono a turbare (anzi neppure a
incrinarne il levigato splendore), mondo senza possibilità
di modificazioni e di svolgimenti, senza storia e senza
dramma.
Il poeta non narra, ma contempla, e in quell'estasi di
contemplazione trova la sua pace. Uscendo fuori dalle pagine
dei vecchi codici le creature dei miti riprendono lineamenti
e colori e tornano ad intessere le traine delle loro ben
note vicende: le avvolge un'atmosfera di divina e
lontanissima perfezione; e i loro gesti e le loro parole si
svolgono secondo norme prestabilite e fuori del tempo,
liberate da ogni senso di passione, tradotte in puri ritmi
di eterna bellezza. Venere risorge dalle acque del mare
tutta soffusa di una voluttà senza tormento, ricinta di un
alone di letizia che da lei propaga a tutte le cose
circostanti, accogliendole in una luce immota e come sospesa
in un attimo di grazia, statua essa stessa assai più che
donna, e pur statua vibrante di rattenuto calore. La gentile
paura di Europa, il trepido lamento di Arianna, le chiome
sciolte e le dolenti grida di Proserpina rapita, l'indolente
sorriso di Galatea rivivono in atteggiamenti di immutabile
grazia, dai quali esula ogni contenuto materiale di
sofferenza e di inquietudine: immagini d'incanto che il
poeta contempla rapito. Così il mondo dei miti ritorna nelle
ottave del Poliziano, non rifatto a nuovo da uno scrittore
che ne rielabori secondo la sua indole la materia
sentimentale, ma neppure riecheggiato con gusto erudito e
puramente archeologico da un dotto curioso e un po' arido,
sì rievocato dalla nostalgia di un poeta che in esso
riconosce l'espressione eterna del suo ideale di bellezza,
lo splendido rifugio della sua fantasia, lontano dagli
ardori e dai turbamenti terrestri.
Con lo stesso sapore di favola remota e in sé perfetta, se
pur con minore impegno e minore potenza di poesia, il
Poliziano riprende uno dei miti più densi di passione
tragica e di significati intellettuali, nell'Orfeo:
rinunziando cioè a questa complessità di spunti e a quella
tragedia e attribuendo alla trama la levità di un fregio
decorativo. Anche qui infatti il tono della rappresentazione
esclude ogni urto e conflitto di sentimenti, né tiene alcun
conto della coerenza e del progredire delle situazioni
psicologiche. Il processo dell'azione non conosce altra
regola all'infuori del ritmo in cui si succedono le singole
figurazioni nello sguardo estatico del poeta. Euridice
rinnova, nell'aspetto nelle parole nel gesto, la trasognata
grazia di Simonetta. L'ansia amorosa d'Aristeo si attenua
nelle musicali cadenze di un'elegia. Il supplizio di Orfeo
si placa nella turbinosa, ma pur ritmica e frenata, ebbrezza
delle baccanti. Così il dramma si risolve senza residui in
un idillio, appena sottolineato da un senso di vaga e quasi
inconsapevole mestizia: il senso della «bellezza snella» che
fugge rapida, dell' «età persa» che non si rinnova mai più.
Ma, a paragone delle pagine ora esaminate, l'episodio di
Simonetta raggiunge un tono di poesia più alto e appare
veramente come il capolavoro del Poliziano: non tanto per
l'apparente novità della materia, qui non più attinta
direttamente al contenuto della cultura e della letteratura,
quanto piuttosto per l'atteggiamento del poeta, che è
diverso e più intimamente commosso. Perché se, nel regno di
Venere e nell'Orfeo, il Poliziano fa rivivere,
ricontemplandolo con immediata simpatia, il mondo divino dei
miti; Simonetta è quel mondo stesso che discende per breve
ora dal suo Olimpo, e s'accosta alla nostra pochezza e alla
nostra tristizia, e illumina per un istante del suo
splendore, trasfigurandole, le povere e squallide cose di
quaggiù, ma per un istante solo, ché subito scompare,
rendendoci più acuta e insopportabile la coscienza della
nostra miseria. Veramente quando Simonetta si mostra, tutta
la foresta le ride intorno, l'aere si fa ameno, una nuova
dolcezza scende dai begli occhi e dal viso nel cuore di chi
la contempla. È come se Venere stessa ritornasse a
percorrere le vie dei mortali, riempiendo gli animi di
stupore e d'incanto: perché nell'aspetto regale, e come
assorto in un suo segreto sogno, della bella ninfa è il
senso di una divinità in sé soddisfatta e felice, cui non
appesantiscono neppure i riferimenti a una realtà
biografica, del resto così vaga e lontana. Nulla di umano
sembra possa giungere fino a lei e turbare la sua stupenda
serenità; eppur basta la sua presenza solo a irradiare di
una nuova luce serena uomini e cose. Ma quando Simonetta
s'allontana, « con atto di amorosa grazia adorno », allora
si lamentano i boschi e piangono gli augelli e fin l'erba
verde « sotto i dolci passi » viene via via assumendo colori
più cupi e tristi. Nell'animo di Julio rimasto solo sorge,
su dal fondo stesso di quell'estasi non mai provata, un
ignoto dolore: « e par che 'l cor del petto se gli schianti,
E che del corpo l'alma via si fugga... ». La perfetta
immagine di bellezza, che si era mostrata per un momento ai
nostri occhi, è dileguata, e con essa quella gioia, quella
luce, che avevamo sperato di possedere per sempre. Sul mondo
già silenzioso può ora ridiscendere la notte, mentre dalla
valle cimmeria escono le torme dei negri sogni.
Così nell'episodio di Simonetta il Poliziano dà
l'espressione più alta e definitiva al sentimento diffuso
della sua età; perché insieme con l'anelito, che è alla
radice di tutta la cultura umanistica, verso un mondo ideale
di bellezza classica, canta anche quel che di raggiungibile
è in questo ideale, e di estremamente fragile e fallace,
donde la malinconia che accompagna in ogni tempo quell'anelito
e gli conferisce una commozione più intensa. Il motivo della
bellezza che fugge, così caro a tutti i poeti del
Quattrocento, dal Pontano al Sannazzaro, dal Magnifico al
Boiardo, ritorna qui, come già nella ballata delle rose, con
voce più calda e dolente, più acutamente nostalgica. E, in
quanto incarna questo motivo, Simonetta attinge, unica forse
tra le creature del Poliziano, a quel valore di simbolo, in
virtù del quale soltanto le figure suscitate dalla fantasia
dei poeti acquistano un significato più alto e una vita
perenne. |