Attrattiva
del Magnifico
Da cinque secoli;
attraverso tanto variare, non solo di gusti e di scuole e di
metodi ma addirittura di ere e civiltà, la figura del
Magnifico mantiene uno stimolo di curiosità, un invito alla
indagine che sembrano inesauribili. Pernio del primo
concreto Rinascimento, uomo e principe tutto effettivo ed
effettuale, con l'accento anzi di un borghese o popolano
realismo, si direbbe però che la sua figura nell'ultima
piega mantenga qualcosa dell'ambiguità leonardesca. E anche
le testimonianze dei suoi contemporanei .o dei subito
prossimi, nell'atto stesso che più intendono illuminarlo,
piuttosto lo ombreggiano. In cinquant'anni vengono a dir di
lui il Poliziano e Marsilio Ficino, il Manetti il Condivi e
il Vasari, l'Ammirato il Machiavelli e il Guicciardini..., e
nelle chiese e sulle pareti della sua Firenze i ritratti
suoi sono di mano del Botticelli di Benozzo del Ghirlandaio...:
non c'è altro principe e scrittore al mondo che possa
evocare intorno a sé tanta e così gloriosa testimonianza e
compagnia. Ma si direbbe che anche i molti e così alti e
diversi testimoni abbiano concorso a creare la figura
contrastata di lui. Un critico arrivò davvero a chiedersi se
fu veritiero il ritratto gentile di Benozzo o la testa
camusa e violenta del Ghirlandaio.
Domande e suggestioni soltanto poetiche; ché, almeno quanto
al fisico, doveva esser facile a tutti accordarsi con quanto
riassunse poi il Guicciardini: «fu di statura mediocre, il
viso brutto e di colore nero, pure con aria grave; la
pronunzia e voce rauca e poco grata, perché pareva parlassi
col naso.».
Ma gli interrogativi più pressanti cominciano dopo: fu il
primo e ottimo cittadino della sua città o ne fu il tiranno?
Ebbe mente platonica o epicurea? Fu poeta religioso o
scettico? Naturalista o simbolico? Sembra che negli scritti
del Magnifico, come nei fatti della sua vita privata e
pubblica, si possano trovare prove sufficienti a ciascuno di
questi aspetti. Anche scrittori di natura loro espliciti,
persino il Machiavelli, parlando di lui danno un po'
nell'arcano: « tanto che a considerare, di quello, e la vita
leggera e la grave si vedeva in lui essere due persone
diverse, quasi con impossibile congiunzione aggiunte »; «
tante virtù, ancora che fusse nelle cose veneree
meravigliosamente involto ». Persino il Guicciardini,
dicendo di Lorenzo che fu « libidinoso e tutto venereo e
constante negli amori sua che duravano parecchi anni »,
sembra contraddirsi.
Non ci fu fatto, si può dire, della vita del Magnifico -
dalla congiura dei Pazzi, di cui doveva essere la vittima e
ne ebbe invece il profitto, fino alla morte, che è, secondo
le versioni, la morte cruda del tiranno o la pia morte del
grande e giusto (mox fugis in coelum, così lo vide
incielarsi il fratel suo Poliziano) - quasi non ci fu un
atto suo che, a seconda gli umori e i tempi, o popolareschi
o eroici o estetizzanti o repubblicani o piagnoni, non si
sia prestato a due interpretazioni contrarie.
Per gran tempo storici e biografi sembrarono piuttosto
intenti a rinfocolare questo contrasto che a risolverlo;
moltiplicarono le domande invece di rispondere: destino del
Magnifico era di restare amletico e romanticamente diviso.
Tale il ritratto di lui che prevalse fino al secolo scorso.
E il saggio giovanile del Carducci, del 1859, ne è forse
l'ultimo frutto.
Gli storici della nuova scuola, gli economici, i positivi,
rinunciarono al giuoco dei contrasti, all'esercizio del
bianco e nero, e si rifecero da capo. Lo spunto più fertile
lo trassero anch'essi dal concreto Guicciardini, dove si
dice che le cose fatte da Lorenzo « furono grandissime, e
tanto grandi che recano più ammirazione assai a considerarle
che a udirle... Non si leggerà in lui una difesa bella di
una città, non una espugnazione notabile di un luogo forte,
non uno strattagemma in un conflitto... Ma bene si troverà
in lui tutti questi segni e indizi di virtù che si possono
considerare ed apparire in una vita civile ». È già
tracciata così la strada a considerare Lorenzo non più come
l'enigma del Rinascimento, ma come un principe moderno.
Sotto questa luce, anche quella che gli fu imputata come la
colpa maggiore, il passaggio ch'egli operò nello Stato
fiorentino da libertà a principato, diventa anzi il suo
merito. Visto così molti altri atti della sua vita prendono
aspetto tutto nuovo: se a decidere là guerra e le stragi di
Volterra .ebbero più peso quelle miniere di allume che
l'addotta necessità di un « esempio memorabile », quella di
Volterra fu dunque guerra proficua, politica effettuale. E
la celebre « politica d'equilibrio » del Magnifico, il
giuoco delle alleanze con Milano e Venezia, il papa
intimorito, il re di Napoli in iscacco, e l'essersi fatto,
lui neppure principe e d'un piccolo principato, « ago della
bilancia intra i principi d'Italia »: e quel suo personale
piacere (o accortezza che fosse), di vivere in Firenze da
privato e non da principe, e intanto il forte spendere e
quasi rovinare il banco per dar « lume allo Stato » («e
sonone molto bene contento») ; infine quel suo pronto
intendere e ridurre gli uomini a sé, che ai piagnoni d'ogni
tempo sembrò corruzione, visto modernamente e fuori degli
schemi del Rinascimento, tutto ciò fa di lui un uomo e un
principe nuovo, di virtù, come pure fu detto, borghesi.
Anche il giudizio che si dette di Lorenzo poeta risentì
spesso del pregiudizio sul politico. «Molte volte il tiranno
occupa il popolo in spettacoli e feste acciocché pensi a sé
e non a lui »; questa accusa del Savonarola ai fasti del
tiranno involse anche l'arte personale di Lorenzo. E pare
incredibile sentirne un'eco ancora nel Carducci, che del
poeta non fu poi scarso estimatore: «Prese con la canzone a
ballo a rinfocolar le lascivie... ; e forse abusò la lauda
spirituale a deprimere gli spiriti...; a ciò che tra i
godenti e gli ascetici... potesse egli sicuro e solo
regnare». Che sarebbe poi come dire che il Magnifico tenne
l'ispirazione poetica ai servizi di governo; ma come
crederci?
È da dire piuttosto che quella stessa varietà o molteplicità
di ispirazioni e di temi che mise i critici moralisti in
sospetto, spesso fu più apparente che vera. Nella gran
varietà della poesia medicea e nel graduale passaggio dalle
Rime alle Selve ai Poemetti alle Canzoni alle Laudi, alcune
caratteristiche, le essenziali, quelle che lo fanno poeta,
restano costanti. Gli spiriti e gli spiritelli medioevali
presto cambiano e diventano ninfe e satiri; al Cavalcanti a
Cino al Petrarca si sostituiscono allora Ovidio Tibullo; poi
si risentono in lui le Cacce del Sacchetti, e più vicini il
Pulci, il Boiardo, il Poliziano...; ma viene sempre il
momento in cui Lorenzo si esprime con voce sua. Da prima
furono i desideri e i godimenti sensuali, più scoperti e
indugiati in lui che in altri: «Oh veramente felice e beata
- notte...»; «Non indugiar che 'l tempo passa e vola: -
coperto m'ho di fior vermigli il petto... non sia più chi mi
parli una parola... ultimo fin d'un tremante diletto». Poi
la poesia migliore del Magnifico si incorporerà nelle cose e
ci darà quell'illuminato realismo agreste per cui il
Nencioni poté dire che «Lorenzo, come in pittura il
Ghirlandaio, trascrive la immagine esteriore delle cose con
grafica precisione». L'età dell'oro, l'estate, l'inverno,
l'alluvione, restano le scene più famose di questo poetico
realismo. E sempre, che lieto passar di stagioni e di
animali nelle sue strofe! «Rinforzava il suo canto la cicala
- e 'l mondo ardeva a guisa d'una torcia...». Nelle zone
d'ombra, in terra trascorrono intanto le lepri i bracchi i
veltri i cavriuoli i cervi le volpi; e in aria, gli uccel
bianchi vermigli gialli e nigri; e i pesci sotto i liquidi
cristalli. Poi, alla stagion morta, in terra i rami secchi,
i ghiacci, e in cielo le gru. Spesso con uno strano piacere
icastico nelle parole; un gusto d'incastro, come per
mosaico.
Certamente il Poliziano fu di gran lunga più artista, e il
Boiardo senza confronto più patetico e vero poeta e il Pulci
assai più geniale trovatore e inventore del comico. Si
potrebbe anche dire che, poetando nel loro stesso alone, il
Magnifico stia però a loro come natura e materia ancora
grezza; al suo metallo resta attaccata sempre una più
terrestre ganga; ma proprio da tale terrestrità egli trae
l'accento e il sapore suo.
E s'apre di qui la via a quell'altro e più scoperto realismo
del Magnifico che fu ora idillico e popolaresco, ora ironico
beffardo e caricaturale. Gran piacere di fare sfilare la
brigata degli amici nel giro dei versi; « Luigi Pulci ov'è
che non si sente». E l'osceno canoro Piovano Arlotto, «così
passò il piovano a grande onore»; e il vescovo di Fiesole
tra i Beoni, «lui con la tazza al viso fa coperchio». Nel
disegno di queste brigate, Lorenzo vi ebbe proprio il suo
genio; a volte con un'ironia che oggi direbbero metafisica,
come dove stilizza uomini « maninconici miseri e sottili »;
più spesso con un realismo a tutto tondo che presente il
Berni : «...poi al rinfrescatolo - trovasi ognuno co'
bicchieri a galla».
C'era dunque qualcosa di vero nell'opinione che la musa di
Lorenzo tenesse del politico; ma in diverso o tutt'altro
senso. Il piacere sensuale della vita e il suo realismo
furono di natura fortemente sociale, portati cioè a
rovesciarsi e ad agire sugli altri; infatti gli spiriti più
veri della sua poesia, appena possono, radunano brigata,
scendono in piazza. Lui fu poeta comico e scenico, poeta di
balletti (oggi si direbbe) piuttosto che lirico. E forse
soltanto nelle Canzoni a ballo e nei Carnascialeschi si
mostrò sino in fondo com'era; e lì conciliò il letterario e
il popolare, il mitologico e il reale della sua natura in un
tono tra il sentenzioso e il furbesco che restò singolare.
Lorenzo allora allude e canta, ma non per sé soltanto; per
sé e per tanti. Non per nulla, una sola poesia sua è rimasta
veramente popolare: «Quant'è bella giovinezza...»; dietro la
quale non senti un uomo solo, ma una brigata o una folla. «
Lorenzo - riassume il De Sanctis - non era che lo stesso
popolo; studiato, compreso, realizzato ». In tal senso, ma
solo in questo, lo scrittore fu sempre anche politico. |