Margutte e Morgante
Margutte e Morgante sono
due personaggi che si completano l'uno con l'altro; Morgante
è la forza animalesca, piena di millanteria, che finisce col
rasentare la buffoneria da taverna. Comincia con lui quell'ingrandimento
iperbolico della realtà naturale che riesce ad una
caricatura della forza fisica, come avverrà in Rabelais per
Pantagruel, la cui giumenta allaga con una sua enorme «
pisciata » più che da cavalla, da inusitato mostro, il campo
nemico; anche Morgante fa da riparo all'esercito, di cui è
ospite, con la lingua lunga due miglia. Morgante è dunque un
millantatore; discutendo con Orlando, dice che se lui
potesse andare all'inferno scoderebbe Minosse, e farebbe un
sorso di Flegetonte e un boccone di Flegias. Egli è un uomo
di taverna, un buon compagnone, che si abbandona volentieri
al suo grosso buonumore e ha bisogno di far ridere e di chi
lo faccia ridere, sia pure con motti equivoci e bassi, e con
doppi sensi di turpe gusto. Margutte gli somiglia, ma con
questa differenza, che egli è un debole ed ha le furberie e
le doti proprie dei deboli. Morgante può essere forte, ma
anche bonario, leale, mansueto; Margutte invece ricorre
sempre alle doppie armi e solo se ne scagiona confessandole
tutte col suo grosso scetticismo. Certo, quello che
impressiona e che autorizza a dire che il Pulci è un po' il
Rabelais del Quattrocento, è l'ingrandimento mostruoso di
tutte le cose. Si ricorderà una larga bevuta che i due
furfanti fanno ad una fontana, alla quale si dissetava un
liocorno; poiché il liocorno aveva l'aria di mostrarsi
infastidito, Morgante lo uccide col suo battaglio. Poi
accende il fuoco, percotendo il battaglio su un macigno,
quasi si trattasse d'un semplice acciarino. Il loro convito
è una delle scene più plebee e più spassose, sempre nei
limiti del plebeo, che il Pulci ci abbia descritto. Margutte
rimane digiuno, poiché Morgante fa sette bocconi per uno del
suo compagno; alla fine, il gigante-aborto scoppia ed
esclama:
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Per
Dio, tu mangeresti una balena!
Non è cotesta gola mai ristucca;
Io ti vorrei per mio compagno avere
A ogni cosa, eccetto ch'al tagliere
(c. XIX, st. 195). |
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Come si spiegano cotesti
ingrandimenti di persone e di cose, quali poi confluiranno
in Pantagruel e Gargantua del Rabelais? Si è tanto parlato
di cicli cavallereschi, e si è tanto ripetuto che il Pulci
ha conciliato insieme racconti del ciclo picaresco, e
maccaronico, non tanto per il latino deformato, né per
l'estroso italiano, o l'estroso fiorentino, quanto per lo
spirito completamente nuovo con cui vengono interpretate le
vicende degli eroi. Per Matteo Maria Boiardo si può parlare
di poema cavalleresco, ed egli può essere inserito nella
tradizione dei vecchi cicli (si tratta della poesia di un
nostalgico), e potrebbe essere considerato il precursore sui
generis di Ludovico Ariosto; ma per il Pulci, egli è
soltanto l'annunziatore di una poesia che avrà la più larga
espansione con Merlin Cocai e con Rabelais. Sono i poemi
della crisi religiosa del secolo, quando si combatte pro e
contro la fede tradizionale. Il gusto del gigantesco che c'è
in questi scrittori non è, come si ama ripetere, il gusto
delle immaginazioni infantili, che si compiacciono del
grandioso e del mostruoso: invece è il gusto dello
straordinario, col quale si comincia a fare confidenza,
donde quell'avvento di buffoneria che investe tutte le
invenzioni, che non è caricatura, ma non è nemmeno la pia
credulità e maraviglia di una volta.
Cotesto ingrandimento paradossale del mondo è già un segno
della liberazione dalla concezione medievale: l'uomo ha
forze infinite, che confinano con quelle della natura
stessa, e il mondo umano si viene confondendo col mondo
naturale. I giganti medievali, come quelli di Dante, sono le
vittime della loro stessa ambizione; il loro è un peccato,
un delitto contro la divinità, una forma di prevaricazione.
Nembrot paga il fio del «mal coto» della torre di Babele,
onde nacque la confusione dei linguaggi; e per pena egli
parla una lingua che i due peregrini non intendono.` «Raphel
may amech zabì almì». Queste sono parole accozzate, che
difficilmente riusciamo a decifrare: alla bocca di Nembrot
non si convengono più dolci salmi. Anche Efialte, che osò
dare prove di forza contro Giove, non muove più quelle
braccia che si erano levate empiamente contro gli dèi e che
ora sono legate dalle ritorte: solo Anteo, che per esser
nato troppo tardi non partecipò alla pugna di Flegra, ha la
possibilità di usare un linguaggio umano. Però anche egli
mostruosamente misura ben cinque canne senza la testa, ed è
ridotto a fare da vettore laggiù nell'inferno, e trasporta
difatti Virgilio e Dante lievemente al fondo, per tornare a
levarsi in su come albero in nave. Direbbe qualche grosso
parodista moderno, o qualche interprete troppo
comico-realista alla Francesco D'Ovidio, che Anteo è una
specie di montacarichi, quali usano oggi nei grandi
alberghi. Epico è il ricordo della Garisenda, quando un
nuvolo vada sopra di essa, e la torre pende in senso
opposto. Dante ha saputo esprimere in una immagine mirabile
questa grandezza paurosa di Anteo, senza però riconoscergli
alcun che di divino o di diabolico; nel poeta del Trecento
il gigante è come domato dalla potenza di Dio, e quindi
legittimato nel mondo degli inferi, e subito si direbbe
quasi « catalogato » nella serie dei ministri della divina
giustizia. Qui nel Pulci il bestiale Margutte e il bestiale
Morgante sono più umanizzati, o meglio sono più
naturalizzati, sicché le loro imprese hanno qualcosa di
spettacoloso, ma senza mortificazione e pena, e tutt'al più
c'è la loro morte, che è sempre colorita come una catastrofe
comica. Sono le forze della natura, che si sprigionano
attraverso cotesti giganti, prese nella giusta
considerazione dal nuovo e spregiudicato poeta.
A un certo punto Morgante confessa apertamente la sua
mastodontica fame, e ricorre ad una immagine grandiosa, che
lo fa poeta:
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Disse
Morgante: Io vedea la fame
in aria come un nuvol d'acqua pregno,
e certo una balena con lo squame,
avrei mangiato senza alcun ritegno,
overo un liofante con l'ossame;
io rido che tu vai leccando legno. |
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Cotesto ingrandimento
paradossale è riconosciuto legittimo dall'uomo nuovo
dell'Umanesimo, ma l'uomo nuovo non può trattenere lo stesso
un risolino sulle labbra, e crea allora una specie di
chiaroscuro, tra il gigante Morgante, tutt'affatto bestiale,
e Margutte, che si è imbestialito soltanto per metà:
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Disse
Margutte: se tu ridi, e io piango
che con la faine in corpo mi rimango. |
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La tapineria di Margutte
mette quasi in comico risalto la mostruosità di Morgante. La
natura viene riconosciuta, ma al momento stesso è derisa o
sorrisa: lo scetticismo pulciano, e meglio si direbbe lo
scetticismo dell'umanista non solo investe il vecchio mondo
religioso, ma penetra di sé anche il mondo nuovo, pur in
gran parte inesplorato.
Come finiscono questi due mostri? Morgante, andando verso
Bambillona, cioè verso Babilonia, difende insieme i paladini
e tutta la comitiva da una grossa balena, immettendole nella
bocca il suo famoso battaglio. Spezzatosi l'albero della
nave, non si perde d'animo, e fa come antenna delle braccia,
e riattacca la vela, e dà modo che la nave possa proseguire.
Poi egli muore per il morso di un granchiolino. Margutte
muore dal ridere forte, come una bombarda che scoppi,
vedendo una bertuccia calzare i suoi usatti. Altre numerose
invenzioni testimoniano di questo ambiguo sdoppiamento del
Pulci.
Quale è il pensiero nascosto di queste nostre analisi
rapsodiche del Poema di Morgante? a Innanzi tutto, abbiamo
avuto la preoccupazione di rompere i vecchi schemi, fissati
dal Rajna e dai manualisti che gli sono succeduti; poi si è
voluto accennare al tentativo di formulazione di un nuovo
ciclo, che si potrebbe chiamare picaresco, o che dal più
celebre autore francese si potrebbe dire rabelesiano, o dal
più celebre autore italiano, folenghiano. Ma invero non si
tratta di un ciclo rabelesiano o folenghiano o picaresco; si
tratta soltanto della varia civiltà dell'Umanesimo, che
variamente si riflette nei poemi cavallereschi eroicomici
fino alla Marfisa Bizzarra di Carlo Gozzi nel tardo
Settecento, in cui scompare l'ultima traccia verbale della
letteratura cavalleresca. Storia unitaria della materia
cavalleresca o paracavalleresca, ma invero storia
diversissima, diversamente individuata dagli autori singoli:
Luigi Pulci non è colui che ha fuso insieme i racconti del
ciclo carolingio e del ciclo brettone, soltanto è l'autore
originalissimo che nella seconda metà del '400 ha rotto i
termini della vecchia letteratura cavalleresca del Medioevo,
e ha iniziato il canto delle varie avventure intellettuali,
che avranno tono e ritmo diverso, fino alla fine del
Settecento, in poemi o componimenti che continueranno a
dirsi per la materia cavallereschi. |