IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

Quattrocento

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL QUATTROCENTO

Margutte e Morgante

Margutte e Morgante sono due personaggi che si completano l'uno con l'altro; Morgante è la forza animalesca, piena di millanteria, che finisce col rasentare la buffoneria da taverna. Comincia con lui quell'ingrandimento iperbolico della realtà naturale che riesce ad una caricatura della forza fisica, come avverrà in Rabelais per Pantagruel, la cui giumenta allaga con una sua enorme « pisciata » più che da cavalla, da inusitato mostro, il campo nemico; anche Morgante fa da riparo all'esercito, di cui è ospite, con la lingua lunga due miglia. Morgante è dunque un millantatore; discutendo con Orlando, dice che se lui potesse andare all'inferno scoderebbe Minosse, e farebbe un sorso di Flegetonte e un boccone di Flegias. Egli è un uomo di taverna, un buon compagnone, che si abbandona volentieri al suo grosso buonumore e ha bisogno di far ridere e di chi lo faccia ridere, sia pure con motti equivoci e bassi, e con doppi sensi di turpe gusto. Margutte gli somiglia, ma con questa differenza, che egli è un debole ed ha le furberie e le doti proprie dei deboli. Morgante può essere forte, ma anche bonario, leale, mansueto; Margutte invece ricorre sempre alle doppie armi e solo se ne scagiona confessandole tutte col suo grosso scetticismo. Certo, quello che impressiona e che autorizza a dire che il Pulci è un po' il Rabelais del Quattrocento, è l'ingrandimento mostruoso di tutte le cose. Si ricorderà una larga bevuta che i due furfanti fanno ad una fontana, alla quale si dissetava un liocorno; poiché il liocorno aveva l'aria di mostrarsi infastidito, Morgante lo uccide col suo battaglio. Poi accende il fuoco, percotendo il battaglio su un macigno, quasi si trattasse d'un semplice acciarino. Il loro convito è una delle scene più plebee e più spassose, sempre nei limiti del plebeo, che il Pulci ci abbia descritto. Margutte rimane digiuno, poiché Morgante fa sette bocconi per uno del suo compagno; alla fine, il gigante-aborto scoppia ed esclama:

  Per Dio, tu mangeresti una balena!
Non è cotesta gola mai ristucca;
Io ti vorrei per mio compagno avere
A ogni cosa, eccetto ch'al tagliere
(c. XIX, st. 195).
 

Come si spiegano cotesti ingrandimenti di persone e di cose, quali poi confluiranno in Pantagruel e Gargantua del Rabelais? Si è tanto parlato di cicli cavallereschi, e si è tanto ripetuto che il Pulci ha conciliato insieme racconti del ciclo picaresco, e maccaronico, non tanto per il latino deformato, né per l'estroso italiano, o l'estroso fiorentino, quanto per lo spirito completamente nuovo con cui vengono interpretate le vicende degli eroi. Per Matteo Maria Boiardo si può parlare di poema cavalleresco, ed egli può essere inserito nella tradizione dei vecchi cicli (si tratta della poesia di un nostalgico), e potrebbe essere considerato il precursore sui generis di Ludovico Ariosto; ma per il Pulci, egli è soltanto l'annunziatore di una poesia che avrà la più larga espansione con Merlin Cocai e con Rabelais. Sono i poemi della crisi religiosa del secolo, quando si combatte pro e contro la fede tradizionale. Il gusto del gigantesco che c'è in questi scrittori non è, come si ama ripetere, il gusto delle immaginazioni infantili, che si compiacciono del grandioso e del mostruoso: invece è il gusto dello straordinario, col quale si comincia a fare confidenza, donde quell'avvento di buffoneria che investe tutte le invenzioni, che non è caricatura, ma non è nemmeno la pia credulità e maraviglia di una volta.
Cotesto ingrandimento paradossale del mondo è già un segno della liberazione dalla concezione medievale: l'uomo ha forze infinite, che confinano con quelle della natura stessa, e il mondo umano si viene confondendo col mondo naturale. I giganti medievali, come quelli di Dante, sono le vittime della loro stessa ambizione; il loro è un peccato, un delitto contro la divinità, una forma di prevaricazione. Nembrot paga il fio del «mal coto» della torre di Babele, onde nacque la confusione dei linguaggi; e per pena egli parla una lingua che i due peregrini non intendono.` «Raphel may amech zabì almì». Queste sono parole accozzate, che difficilmente riusciamo a decifrare: alla bocca di Nembrot non si convengono più dolci salmi. Anche Efialte, che osò dare prove di forza contro Giove, non muove più quelle braccia che si erano levate empiamente contro gli dèi e che ora sono legate dalle ritorte: solo Anteo, che per esser nato troppo tardi non partecipò alla pugna di Flegra, ha la possibilità di usare un linguaggio umano. Però anche egli mostruosamente misura ben cinque canne senza la testa, ed è ridotto a fare da vettore laggiù nell'inferno, e trasporta difatti Virgilio e Dante lievemente al fondo, per tornare a levarsi in su come albero in nave. Direbbe qualche grosso parodista moderno, o qualche interprete troppo comico-realista alla Francesco D'Ovidio, che Anteo è una specie di montacarichi, quali usano oggi nei grandi alberghi. Epico è il ricordo della Garisenda, quando un nuvolo vada sopra di essa, e la torre pende in senso opposto. Dante ha saputo esprimere in una immagine mirabile questa grandezza paurosa di Anteo, senza però riconoscergli alcun che di divino o di diabolico; nel poeta del Trecento il gigante è come domato dalla potenza di Dio, e quindi legittimato nel mondo degli inferi, e subito si direbbe quasi « catalogato » nella serie dei ministri della divina giustizia. Qui nel Pulci il bestiale Margutte e il bestiale Morgante sono più umanizzati, o meglio sono più naturalizzati, sicché le loro imprese hanno qualcosa di spettacoloso, ma senza mortificazione e pena, e tutt'al più c'è la loro morte, che è sempre colorita come una catastrofe comica. Sono le forze della natura, che si sprigionano attraverso cotesti giganti, prese nella giusta considerazione dal nuovo e spregiudicato poeta.
A un certo punto Morgante confessa apertamente la sua mastodontica fame, e ricorre ad una immagine grandiosa, che lo fa poeta:

  Disse Morgante: Io vedea la fame
in aria come un nuvol d'acqua pregno,
e certo una balena con lo squame,
avrei mangiato senza alcun ritegno,
overo un liofante con l'ossame;
io rido che tu vai leccando legno.
 

Cotesto ingrandimento paradossale è riconosciuto legittimo dall'uomo nuovo dell'Umanesimo, ma l'uomo nuovo non può trattenere lo stesso un risolino sulle labbra, e crea allora una specie di chiaroscuro, tra il gigante Morgante, tutt'affatto bestiale, e Margutte, che si è imbestialito soltanto per metà:

  Disse Margutte: se tu ridi, e io piango
che con la faine in corpo mi rimango.
 

La tapineria di Margutte mette quasi in comico risalto la mostruosità di Morgante. La natura viene riconosciuta, ma al momento stesso è derisa o sorrisa: lo scetticismo pulciano, e meglio si direbbe lo scetticismo dell'umanista non solo investe il vecchio mondo religioso, ma penetra di sé anche il mondo nuovo, pur in gran parte inesplorato.
Come finiscono questi due mostri? Morgante, andando verso Bambillona, cioè verso Babilonia, difende insieme i paladini e tutta la comitiva da una grossa balena, immettendole nella bocca il suo famoso battaglio. Spezzatosi l'albero della nave, non si perde d'animo, e fa come antenna delle braccia, e riattacca la vela, e dà modo che la nave possa proseguire. Poi egli muore per il morso di un granchiolino. Margutte muore dal ridere forte, come una bombarda che scoppi, vedendo una bertuccia calzare i suoi usatti. Altre numerose invenzioni testimoniano di questo ambiguo sdoppiamento del Pulci.
Quale è il pensiero nascosto di queste nostre analisi rapsodiche del Poema di Morgante? a Innanzi tutto, abbiamo avuto la preoccupazione di rompere i vecchi schemi, fissati dal Rajna e dai manualisti che gli sono succeduti; poi si è voluto accennare al tentativo di formulazione di un nuovo ciclo, che si potrebbe chiamare picaresco, o che dal più celebre autore francese si potrebbe dire rabelesiano, o dal più celebre autore italiano, folenghiano. Ma invero non si tratta di un ciclo rabelesiano o folenghiano o picaresco; si tratta soltanto della varia civiltà dell'Umanesimo, che variamente si riflette nei poemi cavallereschi eroicomici fino alla Marfisa Bizzarra di Carlo Gozzi nel tardo Settecento, in cui scompare l'ultima traccia verbale della letteratura cavalleresca. Storia unitaria della materia cavalleresca o paracavalleresca, ma invero storia diversissima, diversamente individuata dagli autori singoli: Luigi Pulci non è colui che ha fuso insieme i racconti del ciclo carolingio e del ciclo brettone, soltanto è l'autore originalissimo che nella seconda metà del '400 ha rotto i termini della vecchia letteratura cavalleresca del Medioevo, e ha iniziato il canto delle varie avventure intellettuali, che avranno tono e ritmo diverso, fino alla fine del Settecento, in poemi o componimenti che continueranno a dirsi per la materia cavallereschi.

Luigi Russo

© 2009 - Luigi De Bellis