Le lettere
dell'Aretino
La tradizione critica dell'Aretino per lo più non ha
preso in considerazione le Lettere come un'opera che
importasse un problema particolare e piuttosto le ha
tenute in conto di un'accozzaglia di documenti privati,
pubblicati per sfacciataggine, ricatto o altro, e tale,
insomma, da utilizzarsi soprattutto a scopo di
documentazione materiale, biografica e psicologica, non
rinunziando a qualche considerazione meravigliata
intorno all'estro aretinesco, di fronte a qualche «pezzo
di antologia» ...
È naturale che, a coloro ai quali sfugge il dialettico
succedersi di opere come le due Commedie, l'Umanità di
Cristo e i Ragionamenti, le Lettere non possano
suggerire gran che e che avendo tali lettori perduto
(per via del fascino della definizione «giornalistica»)
il filo della vicenda letteraria dell'Aretino, siano
condotti a negare lo sviluppo di quella.
È un po' il caso della Nota autorevole di Fausto
Nicolini, apposta alla edizione laterziana del Primo
Libro delle Lettere, in cui si legge, come tutta
opinione circa la genesi dell'opera, che «si pensò dai
giovani che gli bazzicavano in casa, principale, allora,
tra questi Niccolò Franco, e dal suo compare Francesco
Marcolini, di riunirle in volume...», quasi che
l'Aretino, insomma, avesse còlto al volo e poi sfruttato
per tutta la vita, un'idea orecchiata da un compagno di
camorra. Una «idea» alla quale lo conduceva
sensibilmente il corso della intera sua indole e della
sua esperienza di scrittore; una «idea» nella quale poté
specchiarsi e dove noi lo vediamo riflesso in tutta la
sua complessa e non «casuale» umanità.
Ben altra cosa che un tale «si pensò» furono, in ogni
caso, le Lettere e vennero, in ogni caso, alla luce per
più ragioni profonde che povere e transitorie cabale «politico-letterario-umoristiche».
Ragioni di chiarificazione interiore e di progresso, per
le quali l'Aretino prese più viva coscienza della
propria condizione umana e si volse con più coerente
impegno all'impiego del proprio talento...
Un modulo di composizione estremamente elastico,
obbediente per la sua stessa natura alle necessità
immediate della comunicazione, docile all'estro,
elastico al possibile, preventivamente scaricato di
qualsiasi responsabilità di misura, di continuità ed
omogeneità di tono; la lettera, per la sua stessa
variabilità di argomentazione apriva all'Aretino le più
ampie possibilità di sfogo. La sua fantasia
trascorrente, impulsiva, si fa una regola del suo
proprio capriccio, si abbandona al destro delle
occasioni più diverse sulla pagina, breve o lunga, ma
sempre in sé conclusa e giustificata...
Ogni argomento è buono: lo scrivere d'affari, i litigi
privati, la stessa uggiosa pratica di commercio delle
lodi contro doni, e il resto degli affari di bottega
diventano a volte occasioni di divagazione libera e
penetrante. È un discorso continuo col mondo, variato
secondo l'umore e le circostanze, spesso interessato e
capzioso, talvolta grigio e plumbeo, per la poca
limpidezza delle intenzioni dell'autore, ma pur tale che
se un minimo appiglio fornisce il destro o stuzzica la
fantasia, s'apre all'imprevisto del ghiribizzo perfetto
o alla sorpresa ultima della poesia.
«Io con lo stile della pratica naturale, faccio d'ogni
cosa istoria...» che vale come avvertimento tanto pei
momenti di pesante finzione verbalistica quanto per gli
altri, dove la «istoria» è l'aneddoto lavorato a sbalzo,
la sentenza colorita e carica di presentimenti o la
pagina tutta lucente di pura e serena commozione.
Sfocia e trionfa nelle Lettere l'estro improvvisatore
dell'Aretino, la qualità estemporanea della sua
fantasia. E del resto non l'abbiamo già còlto
improvvisamente felice, scattante dalla pagina greve, in
tanti altri momenti delle opere precedenti? Appoggiate
ai ricordi figurativi nella Umanità di Cristo o
garantite dall'ambiente, nelle Commedie e nei
Ragionamenti, le sue pagine migliori le abbiamo sempre
incontrate sotto il segno di una improvvisazione
repentinamente svegliata da uno stimolo fino allora
imprevisto. Ripensiamo alle felici divagazioni del testo
dei Ragionamenti (quelle che, poi, hanno fatto accettare
l'opera per la loro « innocenza » a lettori esigenti e
severi) e a tante altre, minori o quanto meno citate con
minore frequenza. Ripensiamo alle divagazioni che
s'incontrano nell'Umanità di Cristo, o più in là ancora,
al testo delle due commedie, per esempio al prologo del
Marescalco.
L'Aretino non ebbe, certo, dalla natura le qualità del
creatore robusto, capace di sforzi prolungati e di lenti
lavori di perfezionamento, né aveva innato il senso
della disciplina intima della creazione: non si curava
di elaborare e compire le idee, ne aveva anzi fastidio e
la sua impazienza ha sempre segnali caratteristici,
sulla pagina, nelle ripetizioni sforzate e nella
esagerata quantità di parole vuote e sonore. Per contro,
quel muoversi improvvisamente dalla pagina stessa, dal
suo ordine già raggiunto o dal suo disordine e scattar
via con una comparazione più lunga e nuova o col ricordo
d'un bel quadro o per una «capricciosa» novelletta che
urgono d'improvviso e vengono soddisfatti all'istante
senza premeditata economia del discorso, è proprio la
qualità dello stile aretinesco e risponde alla natura
della sua fantasia prodiga di umori, ma irregolare.
La poetica delle Lettere è incentrata, anche
esplicitamente per bocca dell'Aretino, su questa
«estemporaneità» scattante ed umorosa dell'autore, e nel
fatto ch'egli mostri di avere intuito l'intima sua
verità di artista e di essersene fatta una legge
adeguata e una misura, va visto, intanto, il segno
immediato del suo progresso, un indice certo della
originalità della nuova impresa letteraria.
«Far presto e del suo» dice agli inizi e più
immaginosamente verso la fine, sempre durando la
polemica antipedantesca:
«Ma certo è - ripeterà - che quegli che sono poeti da
senno, e non compositori da beffe, dicono alcuna cosa
tal volta che, ancor che sia mirabile e conveniente al
soggetto, non ci han pensato uno iota.
Onde si agguagliano ai fonti, i quali scaturiscono
l'acque vive, limpide e dolci, non sapendo perché né in
che modo».
Abbiamo detto «estemporaneità», dunque, ma non col senso
di una improvvisazione funambolistica e senza motivi
concreti, che si esaurisca nella eco minima di un
qualsiasi rischio verbale. Le Lettere garantiscono
proprio il contrario avendo per misura e regola quella
caratteristica qualità della fantasia aretinesca dalla
quale ricavano tutta la loro durata; né da altro
nacquero che dalla coscienza acquisita dall'Aretino
della sua intima disposizione ricettiva e reattiva:
dall'averla ricuperata e dinamizzata integralmente.
D'altra parte la stessa destinazione pratica ed
immediata di moltissime tra le tremila e trecento
lettere raccolte, è in armonia col carattere di
risoluzione equilibrante che compete all'idea e al
dinamismo della raccolta; anzi v'è un rapporto di
necessità che non può essere dimenticato perché è
essenziale alla comprensione di tutto l'Aretino.
Attività pratica e letteraria si confondono nelle
Lettere e si giustificano a vicenda, l'una è condizione
dell'altra, sono momenti, infine, di una risoluzione
globale della personalità dell'Aretino. La validità
loro, perciò, non può essere affidata alla singola
lettera più o meno bella ma all'opera intera, al suo
pregnante senso di sviluppo. Il singolo « pezzo », tra
l'altro, perde di significato se si trae fuori dalla sua
sede, difficilmente lo si comprende appieno, sfugge,
anzi, la sua più vera misura di episodio non concluso
staticamente in se stesso, ma risolto compiutamente nel
divenire della raccolta.
Nella dialettica delle opposte funzioni dell'esistenza e
dell'arte riposano significato e attualità delle Lettere
di Pietro. |