IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

SEICENTO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL SEICENTO

LA PROSA DEL BARTOLI

Il Bartoli a volte sembra proprio che voglia entrare in gara con gli artisti del suo tempo e sostituirsi, lui artista della parola, al pittore o all'architetto. Come quando (si pensa anche qui a fratel Pozzo) vi mostra una delle capricciose prospettive di cui tanto si compiacevano i signori del tempo:
 
 

Sovviemmi d'aver veduto in un palagio di ricreazione d'un principe, fra le altre bellissime, una particolar camera tutta fatta a capriccio di rovine con un nuovo stile d'architettura che ben potrebbe chiamarsi l'ordine scomposto, e da adoperarvi non meno ingegno e giudicio che negli altri; dovendosi dare unità al dissipato, grazia al deforme, regola allo sconcio, simmetria allo sconcertato e arte al caso. In entrarvi cagiona orrore e diletto il vedersi diroccata in sul capo una fabbrica rovinante, se non che nel cadere, scontratesi a ventura, come mostra lo strano andamento delle pendenze, l'una parte slogata con l'altra tutta in pié si sostiene, posando bizzarramente sopra membra non proprie e pur così ben adatte che l'occhio, non che risentirsene come a mostruosità, sommamente gode, trovata una non più veduta specie di proporzione e di bellezza nella deformità e nella sproporzione. Io per fermo credo che chi ne formò il disegno vi studiasse intorno il doppio più che a una fabbrica ordinata: ma non è da ognuno di intenderne il magistero.

 

Altrove paragona i sogni
 
 

all'opere del lavorare a grottesco, che tutto è, si può dire, un musaico di spropositi insieme commessi tanto più bello quanto le parti sono tolte di più lontano e in più sciocche forme s'adunano. Spuntar dal gambo d'un fiore il collo di una gru finito in un capo di scimmia con quattro corna di lumaca che buttan fuoco; fiorire al mento d'un vecchio una coda di pavone per barba e una folta zazzera di coralli, a un altro le braccia viti, le gambe ellere attorcigliate, gli occhi due lumicini accesi nel guscio di una conghiglia, il naso un zufolo, gli orecchi un paio d'ali di pipistrello, e specchiandosi in una rete si vede dietro risponder l'immagine d'un mammone; e di cotali fantastiche bizzarrie quante i dipintori ne sogliono immaginare. Ma pur anche in ciò ha mestieri di senno, ché, come ogni albero in ogni albero non s'innesta, così neanche ogni parte a ogni parte nel grottesco ben si congiunge, e capriccio vuol essere, non sciocchezza, né vi campeggia meno la saviezza del giudicio nel disporre che la pazzia dell'ingegno nell'inventare.

 

Vien fatto di pensare al Prati dell'Incantesimo, al Victor Hugo del Théàtre en liberté, ovvero a Théophile Gautier quando in Mademoiselle de Maupin illustra il teatro fiabesco di Shakespeare; ma il gioco della fantasia ha qui un non so che di polposo e di ridanciano che non ci premette di sconfinare di là dal Seicento, e al Seicento ci riconduce poi il sentenziare del Bartoli sulla «saviezza del giudicio nel disporre» e la «pazzia dell'ingegno nell'inventare», che è una vera e propria ricetta d'ingegnosità secentistica. Questo gusto, così caratteristico nei secentisti, per il bizzarro e il mostruoso, fa che il Bartoli si diverta a descrivere gli animali invisibili che il microscopio rivela:
 
 

... picciolissime membra in tante e così svarianti maniere accozzate e formate, le più pellegrine e bizzarre invenzioni di corpi che l'uman capriccio fantasticando mai simili e tante non ne immaginerebbe... Chi è tutto capo, e chi non ne ha punto nulla: altri son tutto ventre; altri l'ànno aggroppato al petto e come un peso ignobile da trascinarsi sel tiran dietro. I ceffi, i musi, i grifi han le più scontraffatte apparenze, che non v'è deliro per febbre a cui la fantasia sognando sì travisate le stampi. Avete udito descrivere a' poeti le Arpie, le Stinfalidi, l'Ippogrifi e le Meduse e le Furie e stetti anche per dire i Demonii? Ve ne ha fra questi animalucci, che è mercé di Dio non averceli fatti né di gran corpo né di forma a tutti visibile. Poi de' meglio stampati ve ne ha, che sembrano chi rinoceronte, chi orso, chi elefante o lione o pantera o istrice.

 

La fauna è il suo piacere, e tanto più quanto è deforme. Il ragno, «quella sì dispregevole bestiola, tutta orrida come un porco spino, e d'un ceffo orribile come un demonio», non è per lui né così dispregevole né così orribile che non si fermi a descriverne da buongustaio l'aspetto grottesco e il maraviglioso organismo. La rana, che la scienza del tempo faceva nascere incontanente dal cader d'una gocciola di pioggia estiva sull'arida polvere, lo riempie di delizioso stupore...

Rivendicato al Bartoli, come spero, il diritto di cittadinanza estetica che il De Sanctis e i suoi predecessori gli contestavano o gli limitavano, sarebbe iniquo riconoscerglielo unicamente per quello ch'egli ha di comune coi secentisti in genere: il vivace e sensuale naturalismo, la libera fantasia che si bèa del proprio gioco, il senso del grottesco e dell'enorme, l'arioso e balioso esotismo. Sarebbe ingiustizia dire che tutte codeste qualità il Bartoli le esplica, sì, in opere di argomento religioso, ma che, in realtà, la religiosità gli è estranea e l'argomento religioso non altro che un pretesto a dar libero corso al suo genio e a sfoggiare la sua bravura di artista lieto dell'arte sua. La verità è che il Bartoli fu anche lui un poeta della religione, ma per gustare la poesia religiosa che circola nella sua prosa non bisogna cercarci quello che non c'è. E i suoi critici del secolo XIX, i quali più o meno tutti non concepivano altra religiosità che l'ingenuo misticismo dei Primitivi e dei Francescani e il fiammeo slancio apostolico d'una Caterina da Siena e d'un Savonarola o la sublime angoscia d'un Pascal, domandavano al Bartoli qualche cosa come l'impossibile. Il Bartoli ha la sensibilità del suo secolo, di un secolo, cioè, così saturo ormai di umanesimo che ha ridotto al minimo il dissidio tra materia e spirito, tra natura e grazia. Chi nega che questa religiosità sia un po' grossa, che possa a volte sembrare naturalismo senz'altro?

Leggete il cantico di San Francesco d'Assisi, e avete l'impressione di trovarvi su un'alta montagna, dove il sole risplende più puro e più bello e l'acqua scorre più limpida e più intensamente colorati e profumati s'aprono i fiori: la natura vi si mostra quale fu nel Paradiso terrestre, uscita appena dalla mano di Dio. Nel Bartoli (occorre dirlo?) codesto non c'è. Eppure a suo modo egli scioglie l'inno di grazie al Creatore ed esalta da poeta l'opera dei sette giorni. Egli è il poeta di quell'ottimismo cristiano che i Gesuiti opponevano alla dura pietà dei Giansenisti. L'opera di questo gesuita è come una casa piena di sole, con ariose finestre e ampie logge aperte sul mondo dei colori e delle forme: nulla di più diverso dalla chiusa e severa letteratura giansenistica.

Chi ha negato al Bartoli calore d'affetto, non ha sentito questo soffio di caldo ottimismo che circola in tutta la sua opera. Poeta della natura, egli non può darsi pace che quel Plinio, della cui storia si è tanto giovato per le stie esplorazioni del mondo animalesco, abbia osato insultar la natura chiamandola matrigna e non madre dell'uomo; e però s'affretta a farsi prestare man forte contro Plinio, «storico pazzo», da due «filosofi savi», Aristotile e Galeno. Ricordate la descrizione, che ho riferito dianzi della carnera in apparenza ruinante e le lodi dell'architetto che la ideò? Ebbene, non è che una comparazione di cui il Bartoli si serve per dimostrare come nel mondo esiste, sì, il male, conseguenza della «rovina che ne fece il peccar d'Adamo», ma che «l'ingegno di Dio» così efficacemente ripara col bene al male e così sapientemente dal male trae il bene che il mondo «è pur tuttavia bello e prova che gran maestro convien dire che sia chi ha dato al disordine una così ben intesa e regolata disposizione». Questa è la pura dottrina cattolica, qui non c'è né molicosmo né giansenismo; ma né Giansenio né Arnauld - possiamo esserne sicuri - avrebbero usato per questo basso mondo così sconvolto dal peccato quell'aggettivo «bello» che è così caratteristico dell'ottimismo bartoliano.

Pietro Paolo Trompeo

© 2009 - Luigi De Bellis