LA
PROSA DEL BARTOLI
Il Bartoli a volte sembra
proprio che voglia entrare in gara con gli artisti del suo
tempo e sostituirsi, lui artista della parola, al pittore o
all'architetto. Come quando (si pensa anche qui a fratel
Pozzo) vi mostra una delle capricciose prospettive di cui
tanto si compiacevano i signori del tempo:
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Sovviemmi d'aver veduto in un palagio di ricreazione
d'un principe, fra le altre bellissime, una particolar
camera tutta fatta a capriccio di rovine con un nuovo
stile d'architettura che ben potrebbe chiamarsi l'ordine
scomposto, e da adoperarvi non meno ingegno e giudicio
che negli altri; dovendosi dare unità al dissipato,
grazia al deforme, regola allo sconcio, simmetria allo
sconcertato e arte al caso. In entrarvi cagiona orrore e
diletto il vedersi diroccata in sul capo una fabbrica
rovinante, se non che nel cadere, scontratesi a ventura,
come mostra lo strano andamento delle pendenze, l'una
parte slogata con l'altra tutta in pié si sostiene,
posando bizzarramente sopra membra non proprie e pur
così ben adatte che l'occhio, non che risentirsene come
a mostruosità, sommamente gode, trovata una non più
veduta specie di proporzione e di bellezza nella
deformità e nella sproporzione. Io per fermo credo che
chi ne formò il disegno vi studiasse intorno il doppio
più che a una fabbrica ordinata: ma non è da ognuno di
intenderne il magistero. |
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Altrove paragona i sogni
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all'opere del lavorare a grottesco, che tutto è, si può
dire, un musaico di spropositi insieme commessi tanto
più bello quanto le parti sono tolte di più lontano e in
più sciocche forme s'adunano. Spuntar dal gambo d'un
fiore il collo di una gru finito in un capo di scimmia
con quattro corna di lumaca che buttan fuoco; fiorire al
mento d'un vecchio una coda di pavone per barba e una
folta zazzera di coralli, a un altro le braccia viti, le
gambe ellere attorcigliate, gli occhi due lumicini
accesi nel guscio di una conghiglia, il naso un zufolo,
gli orecchi un paio d'ali di pipistrello, e
specchiandosi in una rete si vede dietro risponder
l'immagine d'un mammone; e di cotali fantastiche
bizzarrie quante i dipintori ne sogliono immaginare. Ma
pur anche in ciò ha mestieri di senno, ché, come ogni
albero in ogni albero non s'innesta, così neanche ogni
parte a ogni parte nel grottesco ben si congiunge, e
capriccio vuol essere, non sciocchezza, né vi campeggia
meno la saviezza del giudicio nel disporre che la pazzia
dell'ingegno nell'inventare. |
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Vien fatto di pensare al
Prati dell'Incantesimo, al Victor Hugo del Théàtre en
liberté, ovvero a Théophile Gautier quando in Mademoiselle
de Maupin illustra il teatro fiabesco di Shakespeare; ma il
gioco della fantasia ha qui un non so che di polposo e di
ridanciano che non ci premette di sconfinare di là dal
Seicento, e al Seicento ci riconduce poi il sentenziare del
Bartoli sulla «saviezza del giudicio nel disporre» e la
«pazzia dell'ingegno nell'inventare», che è una vera e
propria ricetta d'ingegnosità secentistica. Questo gusto,
così caratteristico nei secentisti, per il bizzarro e il
mostruoso, fa che il Bartoli si diverta a descrivere gli
animali invisibili che il microscopio rivela:
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... picciolissime membra in tante e così svarianti
maniere accozzate e formate, le più pellegrine e
bizzarre invenzioni di corpi che l'uman capriccio
fantasticando mai simili e tante non ne immaginerebbe...
Chi è tutto capo, e chi non ne ha punto nulla: altri son
tutto ventre; altri l'ànno aggroppato al petto e come un
peso ignobile da trascinarsi sel tiran dietro. I ceffi,
i musi, i grifi han le più scontraffatte apparenze, che
non v'è deliro per febbre a cui la fantasia sognando sì
travisate le stampi. Avete udito descrivere a' poeti le
Arpie, le Stinfalidi, l'Ippogrifi e le Meduse e le Furie
e stetti anche per dire i Demonii? Ve ne ha fra questi
animalucci, che è mercé di Dio non averceli fatti né di
gran corpo né di forma a tutti visibile. Poi de' meglio
stampati ve ne ha, che sembrano chi rinoceronte, chi
orso, chi elefante o lione o pantera o istrice. |
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La fauna è il suo piacere,
e tanto più quanto è deforme. Il ragno, «quella sì
dispregevole bestiola, tutta orrida come un porco spino, e
d'un ceffo orribile come un demonio», non è per lui né così
dispregevole né così orribile che non si fermi a descriverne
da buongustaio l'aspetto grottesco e il maraviglioso
organismo. La rana, che la scienza del tempo faceva nascere
incontanente dal cader d'una gocciola di pioggia estiva
sull'arida polvere, lo riempie di delizioso stupore...
Rivendicato al Bartoli, come spero, il diritto di
cittadinanza estetica che il De Sanctis e i suoi
predecessori gli contestavano o gli limitavano, sarebbe
iniquo riconoscerglielo unicamente per quello ch'egli ha di
comune coi secentisti in genere: il vivace e sensuale
naturalismo, la libera fantasia che si bèa del proprio
gioco, il senso del grottesco e dell'enorme, l'arioso e
balioso esotismo. Sarebbe ingiustizia dire che tutte codeste
qualità il Bartoli le esplica, sì, in opere di argomento
religioso, ma che, in realtà, la religiosità gli è estranea
e l'argomento religioso non altro che un pretesto a dar
libero corso al suo genio e a sfoggiare la sua bravura di
artista lieto dell'arte sua. La verità è che il Bartoli fu
anche lui un poeta della religione, ma per gustare la poesia
religiosa che circola nella sua prosa non bisogna cercarci
quello che non c'è. E i suoi critici del secolo XIX, i quali
più o meno tutti non concepivano altra religiosità che
l'ingenuo misticismo dei Primitivi e dei Francescani e il
fiammeo slancio apostolico d'una Caterina da Siena e d'un
Savonarola o la sublime angoscia d'un Pascal, domandavano al
Bartoli qualche cosa come l'impossibile. Il Bartoli ha la
sensibilità del suo secolo, di un secolo, cioè, così saturo
ormai di umanesimo che ha ridotto al minimo il dissidio tra
materia e spirito, tra natura e grazia. Chi nega che questa
religiosità sia un po' grossa, che possa a volte sembrare
naturalismo senz'altro?
Leggete il cantico di San Francesco d'Assisi, e avete
l'impressione di trovarvi su un'alta montagna, dove il sole
risplende più puro e più bello e l'acqua scorre più limpida
e più intensamente colorati e profumati s'aprono i fiori: la
natura vi si mostra quale fu nel Paradiso terrestre, uscita
appena dalla mano di Dio. Nel Bartoli (occorre dirlo?)
codesto non c'è. Eppure a suo modo egli scioglie l'inno di
grazie al Creatore ed esalta da poeta l'opera dei sette
giorni. Egli è il poeta di quell'ottimismo cristiano che i
Gesuiti opponevano alla dura pietà dei Giansenisti. L'opera
di questo gesuita è come una casa piena di sole, con ariose
finestre e ampie logge aperte sul mondo dei colori e delle
forme: nulla di più diverso dalla chiusa e severa
letteratura giansenistica.
Chi ha negato al Bartoli calore d'affetto, non ha sentito
questo soffio di caldo ottimismo che circola in tutta la sua
opera. Poeta della natura, egli non può darsi pace che quel
Plinio, della cui storia si è tanto giovato per le stie
esplorazioni del mondo animalesco, abbia osato insultar la
natura chiamandola matrigna e non madre dell'uomo; e però
s'affretta a farsi prestare man forte contro Plinio,
«storico pazzo», da due «filosofi savi», Aristotile e
Galeno. Ricordate la descrizione, che ho riferito dianzi
della carnera in apparenza ruinante e le lodi
dell'architetto che la ideò? Ebbene, non è che una
comparazione di cui il Bartoli si serve per dimostrare come
nel mondo esiste, sì, il male, conseguenza della «rovina che
ne fece il peccar d'Adamo», ma che «l'ingegno di Dio» così
efficacemente ripara col bene al male e così sapientemente
dal male trae il bene che il mondo «è pur tuttavia bello e
prova che gran maestro convien dire che sia chi ha dato al
disordine una così ben intesa e regolata disposizione».
Questa è la pura dottrina cattolica, qui non c'è né
molicosmo né giansenismo; ma né Giansenio né Arnauld -
possiamo esserne sicuri - avrebbero usato per questo basso
mondo così sconvolto dal peccato quell'aggettivo «bello» che
è così caratteristico dell'ottimismo bartoliano. |