LA
POESIA DEL CAMPANELLA
Accanto alla poesia, tutta
spiegata ed elaborata, di Torquato Tasso, un'altra se n'era
levata in Italia, incondita ma vigorosa, come di un fra
Jacopone dei nuovi tempi, quella di Tommaso Campanella. Al
Tasso il prigioniero nei castelli di Napoli rammentava che,
se belle erano le parole di Dante e del Petrarca, più
salutare era il «fuoco de' lor petti», e che egli, Tasso,
fuor di dubbio raggiungeva e trapassava quei due nel dire,
ma, «per le sue ali», il cuore non sentiva « ergersi al
cielo e punger di giuste ire » . Era il contrasto della
poesia sacra verso quella terrena e mondana, della
religiosità quale dramma interiore, nel suo divenire e
affermarsi, verso la religiosità statica e presupposta,
della religione propriamente detta verso l'ortodossa pietà e
devozione; e insieme il contrasto e il dispregio del
profeta, dell'apostolo, del combattente verso l'uomo
sensitivo e sentimentale e contemplativo. Lo spirito
contemplativo, e la congiunta virtù formatrice e plastica,
sono spesso soverchiati nel Campanella dal suo impeto di
veggente e di uomo d'azione, tutto intento a inculcare la
sua fede, ad affermare e ragionare i suoi concetti, a
battere con le sue aspre rampogne e i suoi feroci sarcasmi;
e perciò egli è spesso non solo rude ma rozzo, non carezza i
suoi fantasmi come fa l'artista, non s'indugia a ricercare
la forma nuova e bella, ma si accontenta di parole e forme
prosaiche, e sforza la forma e va innanzi, e adatta il suo
nuovo pensare e sentire in moduli tradizionali. Per altro,
l'afflato poetico investe e trascina tutti i suoi versi;
l'animo altamente commosso, la mente rapita, li generano; e
la schiettezza di questa genesi è già nel fatto che il
Campanella, che distendeva in trattati la sua metafisica e
cosmologia, e la sua filosofia razionale e reale, e in
chiari programmi le sue proposte sociali e politiche, non si
appagava della prosa didascalica per dir quel che gli
riempiva il petto ed era portato a cantarlo. Ma non c'è solo
nei suoi versi il generale afflato lirico, la poesia diffusa
e come in potenza, perché, di volta in volta, egli condensa
e rappresenta, crea l'immagine, scolpisce la statua, colora
il quadro; e vede il sole che chiama a festa novella ogni
segreta cosa, languida, morta e pigra, e al cui lume sereno
sorgono d'ime radici le verdi cline, e che tira le virtù
ascose nei tronchi d'alberi a prole soave, e risolve le
gelide vene ascose in acqua pura, che sgorga lieta rigando
la terra; e il sapiente, che, perseguitato, grandeggia e
opera più largamente, gli si figura come il fuoco che, «più
soffiato, più s'accende, Poi vola in alto e di stelle
s'infiora». Anche drammatizza il suo interiore tumulto come
nella «salmodia metafisicale», in cui l'atroce,
l'insoffribile tormento a cui egli è sottoposto nel carcere,
e il suo ineluttabile convincimento di filosofo che nel
mondo tutto sia bene e bello, e che l'individuo col suo
dolore e con la morte concorra a quest'armonia di bontà e di
bellezza, cozzano tra loro, e pure egli non si attenta mai a
porsi contro la verità che la ragione gli dimostra con
ferrea logica, la verità che, in quel patire, è un uscir dal
patire, è il pensiero che vieta la disperazione e induce
all'accettazione e rassegnazione. Per un momento, la carne,
che è in lui, vorrebbe che il suo male fosse almeno
mitigato, ed egli abbozza una preghiera alla Possanza, Senno
e Amore, a Dio, perché «truovi rimedio alcun che rallentarmi
Possa la pena ria O 'l dolce crudo amor di vita trarmi». Ma
subito si riprende, scorge l'irragionevole e arbitrario che
è nella sua preghiera, e restaura in sé stesso la verità per
un momento vacillante: «Senza lutto se fosse, senza senso
Sarian le cose e senza godimento, Né l'un contrario l'altro
sentirebbe, Né ci saria tra lor combattimento Né
generazione, e 'l caos immenso La bella distinzione
assorbirebbe. E pur nel pulito che mutar si debbe La cosa,
uop'è che senta, perché all'altra Resista...». Il suo
strazio è necessario, il suo rifugio è solo nel vero, in
questo cielo che s'apre nella terra stessa. |