IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

SEICENTO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL SEICENTO

GLI ELEMENTI DEL BAROCCO

Nel delirio dell'argutezza metaforica, quanto più l'attenzione al vero aspetto e moto dell'universo si fece acuta, né soltanto nella scienza propriamente detta ma anche nelle facoltà intuitive, tanto più l'immaginazione degli scrittori che furon detti marinisti o secentisti ampliò il suo gioco per uscire iperbolicamente dal reale. Ma l'immaginazione per se stessa non è affatto poesia: e nel Seicento fu troppe volte una forma vizio: un compromesso e una dilatazione che consentivano di sconfinare, con ozioso piacere, dagli impegni della realtà, e assecondava la voglia di appisolarsi o almeno stordirsi nel gioco delle balenate parole, dei virtuosi suoni, delle stupite linee: o magari nell'astrologia, nella magia, nell'alchimia, supremo trastullo dell'immaginazione.
In quell'età che molto amò il finto (scale finte, finestre e porte finte, pietre finte, marmi finti, colonne finte, statue finte) si moltiplicarono anche le finte parole: le quali, a parte tutte le inconsistenti metafore e figure, consistono nelle prestese allegoriche, con consapevolissima mistificazione dettate a giustificare forme morali che il testo non comportava anzi contraddiceva ed escludeva. S'aprì allora la gran fiera dei concettini, la cui tradizione passò come ésprit al Settecento per giungere a noi come freddura. S'aprì la gara della bravura immaginosa atta a generare stupore, a fare inarcar le ciglia. Ogni vera immagine è inattesa, e desta cordiale stupore: né mai i marinisti giunsero a dare immagini così direi, astrattamente vive e irreali quanto son quelle di Dante, unendo le qualità di sensi fisici ben disparati (« Io venni in loco d'ogni luce muto: «Mi ripingeva là dove il sol tace»); ma se un Marino dice dell'acqua che è «mammella dei fiori» pensando alla brina, l'animo suo è tutto nella volontà pretenziosa di stupire. Né se uno dice: «Ai bronzi tuoi serva di palla il mondo», pronunzia cosa più arrischiata che il semplice verso: «E naufragar m'è dolce in questo mare» : cose fisicamente imposslbili l'una e l'altra; ma la prima delle due è liricamente falsa indirizzata a stupire con la bravura del concettino : l'altra è liricamente vera, perché non ha altro scopo che la semplice trascrizione d'un affetto interiore: e si sa che la poesia non può essere paragonata sul verosimile del mondo fisico ma sulla genuina coerenza interiore. Non è già che le immagini siano discordanti dall'imitazione della natura: tutte le immagini, essendo sempre spiritualità, superano i riferimenti alle cose reali, anche quando ad esse si richiamano; ma gli è che nei secentisti non c'è l'animo immaginoso; anzi l'esibizione di questo animo, o la finzione: il che sposta radicalmente il tono.

Ecco le antitesi di figura congiungere insieme idee contrastanti, come in un velato gioco filosofico di opposti e una dissimulata dialettica: «Lince privo di lume, Argo bendato, Vecchio lattante e pargoletto antico»; «Sai che fermezza in lei (Venere) può durar poco, Sendo figlia del mar, moglie del foco»; argomenti in barocco, né più né meno: ed hanno la freddezza della macchina scolastica: simulati sillogismi immaginosi fondati su arguzie e stupefazioni di parole o di luci o di suoni...

Può dirsi che il simbolo del Seicento sia il pavone, vistoso, vanitoso e a lungo andare noioso: quello di cui si legge nell'Adone:
 
  Orbe del lume e de la scorta prive
Fuggian le stelle in varie schiere accolte,
E sì come talor per l'ombre estive
Quando l'aria è serena avien più volte,
Sbigottite, tremanti e fuggitive
Per fretta nel fuggir ne cadean molte:
Pavone allora il suo mantel distese,
Ed un gruppo nel lembo alfin ne prese.
Giove, che vide il forsennato e sciocco
Giovane depredar l'auree fiammelle,
Sdegnossi forte e da grand'ira tocco
Gli trasformò repente abito e pelle.
L'orgoglioso cimier divenne un fiocco
E ne la falda gli restar le stelle.
Febo, ché pietà n'ebbe e l'amò tanto,
Per sempre poi gliele stampò sul manto.
 

La parola diventa ipocrita e ad un tempo letterariamente sfrontata. All'arguzia, al concettino s'accompagna una tensione di motivi che tutti presumono di accrescere l'effetto. Non vi sono mezzi termini, ma sempre note altissime, colori abbaglianti, movimenti eccessivi: non dolcezze ma svenevolezze; non sorrisi ma sghignazzamenti: gli organi sempre a canne piene e tutte sugli acuti.
E poiché non v'è una ispirazione centrale che anima di sé l'insieme e colloca ogni cosa al giusto posto, creando i rilievi, qui l'indifferenza del contenuto spirituale consente ed anzi impone di indugiare su ogni particolare, e trattare con un medesimo stile ogni più diversa materia.
Il Seicento marinista, del quale l'Alfieri scrisse che delirava, fu, nonostante la novità sperimentale, un secolo marcio di maturità letteraria: e troppi suoi scrittori, briachi di fermenti libreschi, primo avvelenamento in grande del libro, dopo l'invenzione della stampa, furono letterati e stilisti, piuttosto che poeti o artisti. Miravano a perfezionare con minutissimo e gratuito eroismo le forme per le forme, anzi singoli elementi retorici della forma, dai tropi alle figure propriamente dette, anzi le parti del discorso, si direbbe, una per una, dal verbo all'interiezione; e poi fiato e la dieresi e tutti gli atomi di un verso: e lustravano così ogni cosa fino all'ultima politezza, o che almeno tale a loro malgusto sembrava, servendo con umile compunzione, anche quando facevano gli sdegnosi novatori o coglievan nel segno a rivendicare la vera regola che consiste nel saper rompere a tempo opportuno anche le regole, tutti i precetti delle Poetiche cinquecentesche.

Avevano raccolto «col rampino» o «ronciglio» - son parole del Marino - quanto più di raffinato e sottile si potea leggere nella poesia greca e latina e italiana (di altri popoli poco o nulla, perché tutti eran reputati barbari di fronte alla raffinatezza cartacea della nostra letteratura d'allora) e si compiacevano talvolta di furtarelli puri e semplici, consigliati, del resto, da tutta la Poetica del Cinquecento. Avveniva così che spesso, lavorando d'ornamentazione e di bravura su materia letteraria già consumata, volevano in gara strepitosa superare il modello, o, infine, traevano, dalle complicate letture, bizzarre parafrasi ed amplificazioni concettose. Intorno alla parola (o alla linea e al colore) in sé presa, si affatica così la pedanteria dell'immaginazione, come quella della Poetica, e non è caso che l'Accademia della Crusca sia stata, secondo l'efficace espressione del De Sanctis, il Concilio di Trento della lingua. C'è rapporto profondissimo tra secentismo e cruschismo : tutti e due vizi, di cui l'uno ripete e affina le belle forme isolate, l'altro le espone in vetrina e ne fa un museo.

Francesco Flora

© 2009 - Luigi De Bellis