GABRIELLO CHIABRERA
Tutta questa produzione
lirica, uscita dal ritorno umanistico ai classici e dal
rinsaldamento della personalità del Rinascimento, andrà
guardata non con a fronte l'ideale d'una poesia in cui un
sentimento si crei intorno la commossa e pur conclusa
risonanza della parola che si fa canto ma come
un'espressione a volta a volta agitata ed eloquente di
un'umanità che esprime per essa il suo ideale di vita: come
oratoria e non come poesia. Un'oratoria il cui continuo
pericolo, ma anche spesso evitato, è di finire letteratura:
ma che talora, spesso, ha una voce sua.
Guardiamo Chiabrera: in lui tutto il gusto dell'età sua:
nelle canzoni, mitologia avant toute chose: ma anche Bibbia,
come voleva Tasso e come aveva fatto Herrera per Lepanto e
come farà Filicaia per Vienna; la vita contemporanea, levata
al livello dell'antico ha un'esaltazione eroica in cui
l'umano perde ogni original forma di vita e si disfa nel
mito.
Spigoliamo:
|
Viva perla dei fiumi,
Dora, che righi umìl la nobil reggia,
ove eterna fiammeggia
bella virtù de' più splendidi lumi,
ed ove ai cari suoi
addita il sol degl'immortali eroi. |
|
È la poesia che canta
l'eroe: tutto ciò che di contingente possa esserci è nel
titolo a Emanuele Filiberto: ma qui nella canzone non c'è e
non può esserci che la « virtù » che mostra ai suoi cari il
« sole » degli eroi. Il poeta finora è lontano: è un elogio
anonimo, è la voce della gente, della nazione, che par quasi
accennarsi nel ricordo della Dora.
E veramente l'ingresso del poeta è trionfale:
|
come saetta al segno
al dolce suon de' tuoi cristalli io volo:
né taciturno il volo
porto dentro i confin del tuo gran regno;
ma scelsi aurea corona
inimica di morte in Elicona. |
|
È il poeta che sa che il
canto fa immortali
|
...
il bel fior della gloria,
domatrice del tempo e degli affanni,
sfavilla in quelle cime,
ove poca orma piè mortale imprime. |
|
Poesia che si allontana
orgogliosamente dal volgo e si ritira in un cielo più
veramente suo.
E spontanea, naturale ricorre alla memoria la lontana
impresa mitologica:
|
Ma
pur viltà non prese
il cavalier che di Medea fu sposo;
ei di rapir bramoso
del sacro Frisso il peregrino arnese,
sparse le vele ardite
per gl'inospiti campi d'Anfitrite. |
|
Non è il passato che
risorge nostalgico dai secoli più lontani o dalla fantasia
dell'uomo al desiderio del poeta: è il passato in cui il
presente si riconosce più vivamente sé stesso, perché più
grande. Guardate: i colori dell'impresa di Giasone non sono
quelli della poesia che risogna (audacia dei lontani mari:
sono quelli della grandezza stessa dell'eroe d'oggi:
«bramoso», «le vele ardite», «gli inospiti campi».
Nonostante tutti i precetti pindarici confessati,
volutamente e ingenuamente confessati nell'Autobiografia e
nel Vecchietti, nel Geri, nell'Orzalesi, nel Bamberini, i
suoi dialoghi dell'arte poetica, in Chiabrera il richiamo
del mito è sempre momento dell'elogio: un trapasso di motivi
per cui si esaltano, dicendole di eroi lontani, le virtù
dell'eroe d'oggi.
Un critico che di Chiabrera s'è occupato a lungo, Mannucci,
ha creduto di poter trovare confessata la fondamentale
falsità di questa lirica in talune parole
dell'Autobiografia: «Di Pindaro si meravigliò, e prese
ardimento di comporre alcune cose a sua somiglianza».
Ma è che qui siamo proprio al centro di una poetica
umanistica, per cui l'arte è soprattutto fatta di studio e
di volontà: non sarebbe difficile riconoscere lo stesso
spirito nella Deffence et illustration de la langue
francoise di Du Bellay: e facile addirittura richiamare
Dante con la sua distinzione, cui teneva ad oltranza, di
coloro che verseggiano «caso » e coloro che scrivono «arte».
E la confessione non può significare quel che vuole Mannucci,
per la poesia: è l'orgoglio più bello del poeta questo di
aver voluto e di aver saputo quel che la sua poesia attuava.
Intorno a nobili eroi e a grandi gesta la canzone eroica di
Chiabrera è sempre elogio:
|
Nobile pianta altera
svelta da' nembi, e doma
sul fior di primavera;
forte sostegno e rocca alta di Roma,
folgoreggiata a terra
con lagrimevol guerra. |
|
È Fabrizio Colonna morto
navigando in Ispagna per la guerra del Portogallo: non manca
qualche commozione nel trapasso tra la gloria passata e la
misera fine: con un che di epicamente sonante anche in
questa non grande morte: «folgoreggiata», come i Titani
nell'assalto al cielo. E talora esaltazione piena, sonante:
|
Chi
dunque meta, o Livian, prescrive
nel ciel di Marte al tuo gran nome alato,
se tu raccogli altero
dalle sventure i vanti,
né più che al verno antica rupe alpina,
a sorte avversa il tuo valor consente?
Te dentro il sangue, te nell'armi ardente,
quasi orribile tuon, fama descrive;
te l'alta Senna inchina,
te il Parto faretrato,
te dell'Istro nevoso ancor tremanti
i gorghi, e i gorghi del superbo Ibero. |
|
Ecco la terra e il mare che
s'inchinano dinanzi all'eroe che passa: l'insistenza dei
richiami ai più lontani paesi, e Francia e Oriente e
Ungheria e Spagna, si associa e si fonde con quello di
Bartolomeo Alviano, il generale veneziano di Agnadello e
Marignano: «Te,... te,... te».
Con che io non voglio oppormi né a Carducci né a De Sanctis,
che si incontrarono a riconoscere in Chiabrera un letterato
dalle velleità pindariche in un'età che di pindarico nulla
ebbe, né a Croce che ha trovata arida e stentata la sua
«maggiore» poesia: ma vorrei solo che ci si potesse in
qualche modo render ragione del come Leopardi riuscisse
a sentire così il Chiabrera : «Fu ardito caldo veemente
urtantesi nelle dose, ardito nelle voci nelle locuzioni
nelle costruzioni, nel trarre dal greco e latino le forme
così de' sentimenti... come delle parole». |