SVOLGIMENTO DEL
BAROCCO
Uno svolgimento del barocco
c'è indubbiamente, ma è. spesso tutt'altro che rigoroso e
consapevole: c'è in esso la livellatrice superficialità che
è il limite di quella cultura seria e viva (e perciò in
movimento) ma non profonda e come tale rivoluzionaria sempre
a mezzo. Il barocco ha avuto due o tre momenti di maggiore
vivacità polemica e di maggior consapevolezza della propria
poetica, le iniziali battaglie contro il Petrarchismo o la
speculazione del Tesauro; ma più spesso (e si pensi poi alla
scarsezza di notizie su alcuni marinisti minori) è stato più
grigio e incerto anche in certe sue autocritiche, quella per
esempio di tipo moraleggiante, di aspirazione a poesia non
solo piacevole che pure forma uno dei filoni centrali del
gusto secentesco e in cui si legano quasi indistricabilmente
seri impegni morali e di poetica, ipocrisie
contro-riformistiche e luoghi comuni di divagazione
accademica.
Va poi calcolata per il secondo barocco una perdita di
mordente polemico (che magari convive con l'audacia di
alcune ricerche concrete) e talvolta un ripiegarsi, di
fronte al prevalere della nuova cultura prearcadica, verso
interessi eruditi che con quella nuova cultura permettevano
una più facile saldatura. Penso agli argomenti prevalenti
nelle ultime lettere del carteggio Aprosio; non più, come
per esempio all'epoca del suo soggiorno nel Veneto e dei
rapporti con lo Zazzeroni, grandi scambi di versi e di
giudizi di poesia, ma per lo più richieste di notizie
bibliografiche e d'altre informazioni e un'egual atmosfera
di reciproche lodi e cortesia (dove naturalmente va fatta la
tara all'uso cerimoniosoiperbolico del secolo) siano i
corrispondenti i tardo-barocchi napoletani (Meninni,
Batista, ecc.) o i prearcadi fiorentini (Rodi, Marchetti,
ecc.) che erano in atteggiamento ben critico verso quel
gusto di cui all'epoca delle polemiche per l'Adone l'Aprosio
era stato tra i più rabbiosi apologeti. V'è infine, a
rendere più difficile l'indagine, il piacere di mimetizzarsi
di molti di questi scrittori, quasi « arguto » gioco di
alibi (vedi 9 diffuso protestare contro gli eccessi
metaforici proprio da chi in pratica di quegli eccessi è
amantissimo) ; e infine una tendenza, scettica e ben sulla
linea di altre forme d'arida superficialità del secolo, a
ridurre conflitti di poetica a dispute per ragioni private,
personali. Proprio Federico Meninni, p. es., che pure nel
suo Ritratto del Sonetto e della Canzone così lucidamente
aveva disegnato la storia barocca della nostra lirica (tre
tempi in continuo progresso, l'ultimo, il migliore,
iniziatosi con il Marino) e insieme aveva anche indicato sia
pure in forma un po' esterna (ancor in nuovo stile non si ha
perfetta poesia moral-religiosa) l'aspirazione a una
letteratura non solo piacevole propria dell'ultimo barocco,
parlando con l'Aprosio del Pallavicino, spiegava
l'avversione di questi per il Marino e la derivatane
simpatia per lo Stigliani, l'antico nemico dell'Aprosio, non
con una opposizione di poetica (come in realtà si trattava:
e, nelle sue forme moderate, così importante), ma con
inimicizie extraletterarie della Compagnia di Gesù, cui il
Pallavicino apparteneva, per il Marino autore di sonetti
berneschi contro un padre dell'Ordine. Per questa
dispersività della cultura barocca, l'indagine sulle fasi
del secentismo presenta due pericoli: che non si notino
atteggiamenti che hanno invece una loro serietà e autonomia;
e - pericolo non meno grave - che il ricercatore sia portato
a prestare qualcosa di suo alle vicende sempre un po'
eludenti dei marinisti e a creare stacchi, relazioni,
passaggi in realtà inesistenti o esistenti solo nella
particolare, minore, dimensione di tanta cultura barocca.
Qualche attenzione a relazioni di secentisti tra loro, a
loro reazioni di fronte all'antimarinismo aveva prestato il
Belloni; ed è questa senz'altro la parte più utile oggi del
suo per altri rispetti così poco illuminante Seicento; ma lo
studioso applicava criteri un po' esterni e meccanici, in
prevalenza solo contenutistici, i meno adatti cioè per
seguire nelle loro intricate pieghe queste sottili vicende.
Si veda per esempio il caso del Preti, in cui il Belloni,
sottovalutando (e secondo me a torto) la Salmace perché
giovanile, rilevava soprattutto le preoccupazioni
moralitiche per poi farle coincidere senz'altro pur
nell'apparente adesione entusiastica al Marino, con un
implicito antimarinismo. Ma in realtà il discorso che va
fatto per questo marinista è più complesso e non può essere
ridotto alla dialettica pudore - non pudore del Belloni. In
esso credo bisogna tener conto proprio della Salmace, quella
Salmace così popolare tra i contemporanei. C'è nel Preti
indubbiamente un'interpretazione restrittiva del Marinismo,
una scelta nell'esempio del Maestro dei toni più idillici,
voluttuosi, quelli che invece sentiranno meno i marinisti
più moderni, scelta non riducibile a predilezione per pudico
contenuto, ma tutta animata da una richiesta di
decorativismo voluttuoso (il bel corpo di Ermafrodito) ed
eleganza proprio secondo l'immagine tradizionale del
«delicato Preti» e secondo certe significative lodi dei
contemporanei...
Entro questi limiti l'adesione al barocco è però completa
con un'abbandono pieno al piacere delle belle immaginazioni
(ancora la Salmace: il gran monte, sette giorni e notti di
amore di Mercurio e Venere, il paesaggio con il fiume e il
lago, la ninfa «vaga sol di se stessa», il bagno di
Ermafrodito), con gusto di struggimenti e sospiri, ma senza
gli echi profondi del Tasso, non solo per minor vena ma
anche per diversa poetica di solo dolci suoni, raffinate e
calme figurazioni, tutta più soddisfatta ed esterna; una
tipica forma di primo barocco, con certe simpatie per
l'antico (vedi la tesi della lettera al Lamberti) con lo
stesso prevalere dei toni fastoso-idillici del Marino, ma
con minori ricerche che nel Maestro d'audacia verbale e di
figurazioni realistiche...
L'interpretazione edonistica della lezione mariniana (quella
oltre tutto che permetteva un più completo apprezzamento dei
valori letterari dell'opera sua) resta di moltissimi tra i
marinisti, ma più spesso con interesse maggiore che nel
Preti per le novità stilistiche del maestro, con più forte
stacco dai miti idillici rinascimentali, l'idillio ampio e
canoro tendendo a mutarsi in scenetta graziosa (in
utilizzazione-travisazione anche di eleganze prebarocche,
Tasso e Chiabrera) o in prezioso particolare.
Su questa linea sta uno dei migliori tra i Marinisti, quel
Fontanella, la predilezione crocianaper il quale trova
conferma nei giudizi dei due recenti antologisti...
Aperto a tutte le novità indicate dal Marino, e capace
pertanto (come non è capace il Preti) della violenza
stilistica dei sonetti per la siccità, abbondante, non
sobrio da buon barocco (a certi intoppi però del suo stile
non darei soverchia importanza e il facile ricorso segnalato
dal Ferrero a certi aggettivi «bello» etc. riporterei a una
maniera secentistica generale di cui ha già parlato il
Calcaterra), il Fontanella sa però enunziare alle più grosse
ambizioni, e mantenere la sua ispirazione in un inondo
minore, gentile e «vivo», in cui ha modo di mostrare appieno
le sue native qualità. Tutte le sue cose più riuscite (Alla
Lucciola, A un Ruscello, Alle lagrime, Nenia cantata dalla
sua donna, Amorosa vendemmia, I piaceri della Villa, Il
fiore della Margherita, ecc.), hanno come ali loro respiro
breve: «poesiole» vien voglia di chiamarle. Certi accenni
meno piacevoli, di alcune poesie religiose moraleggianti
ch'erano nella antologia del Croce e giustamente non sono
state riprese dal Getto e dal Ferrero, o i versi finali che
il Ferrero sente «frigidi e convenzionali» della bella Si
detestano le delizie del secolo presente, riconfermano il
suo imbarazzo di fronte a temi più alti. «Piacevole», ma con
una raffinatezza con una levità galante e sensibile, nuova
rispetto al turgore del «piacevole» mariniano, più moderna
(vedi la garbata pointe finale di Al velo che copriva il
petto di sua donna, più barocchetta che barocca); non poeta
che molto poteva dare e non diede, ma riuscito «poeta
minore». Sicché quell'aura giovanile che (a parte la
immatura scomparsa dello scrittore) è indubbiamente nelle
sue poesie, mi pare derivare non da immaturità di mezzi
espressivi, ma proprio da questa qualità dolce e leggera
della sua ispirazione, dalla sua particolare interpretazione
del marinismo («un suo tono galante - dice il Flora - in cui
il barocco si fa lieve e appena ridente»). Un elemento tra
l'altro della sua poetica di cui sembra dare conferma la
lettera di prefazione alle sue rime che opportunamente il
Getto pubblica: «Le vergini di Parnaso come innamorate
donzelle più volentieri gradiscono la vaghezza de' giovani
che la severità degli attempati».
Ma esistono nel barocco anche forti spinte centrifughe che
divengono più vive nella seconda metà del secolo, man mano
che più lontana si fa l'atmosfera lussuosa
post-rinascimentale in cui erano fioriti i miti mariniani, e
su cui si riflette anche la presenza del filone della lirica
chiabreresco-testiana e le discussioni con i teorici
moderato-barrocchi.
C'è una linea che, in un certo stacco dal contenuto
sentimentale del Marino, punta tutta la sua attenzione sulle
novità artistiche di lui, adoperandole con intenti più
autonomi, meno ornamentali. È una tendenza che si riflette
anche sui concreti giudizi sull'opera del Marino, di cui di
preferenza si sottolinea il magistero d' «arte», così come
avevano fatto gli apologeti di lui nella polemica contro il
Carli, nel 1614, quando ancor forti erano le resistenze
della vecchia letteratura, e come non avevano fatto i
difensori del 1630, all'epoca del massimo trionfo mariniano,
che preferivano inebriarsi dei fiori dell'Adone, della sua
straordinaria capacità di piacere. Insistenza sull' «arte»
del Marino che contrasta poi fortemente con l'elogio fatto
dal prebarocco Chiabrera che è tutto impostato invece sulla
ricchezza «di natura» del poeta dell'Adone, tema che sarà in
parte ripreso in Arcadia. Agli insegnamenti d' «arte» del
Marino s'uniscono quelli, del barocco fortemente concettista,
emblematico e meno scorrevolmente facondo, più rappreso
dell'eloquenza secentista (e si pensa all'amore
dell'espressioni sode e allusive, alle proteste contro l'asiatismo
di quel F. F. Frugoni pur così prolisso), mentre più audace
si fa la ricerca di temi rari e difficili: si giunge così al
gusto del Lubrano, che ha indubbiamente una autonoma
impronta e nel quale in questo senso è giusto vedere con il
Getto «il culmine della esperienza barocca».
Ma l'insoddisfazione verso il contenuto del Marino opera
anche in un altro senso: stimola nuovi contatti con poesia
precedente (con il Tasso grave), mescola ricerche
marinistiche con altre di tipo moderato-barocco (Testi
ricordato dal Ferrero per il Pers). Per sentire la
differenza di questi due esiti delle spinte moraleggianti
entro il barocco sono ben utili due passi accostati dal
Getto come esempi di «aspetti squallidi e funesti»
sottolineati da secentisti «nella considerazione di vicende
storiche»; l'audacia allucinata del Lubrano («lungi da busti
lor teschi infelici Fer diadema funesto a' tetti infami»)
ben si distingue dal tono più discorsivo e fermo (di «virile
malinconia» parla il Getto) del Pers («Per le vie già
frequenti e per le piazze Già strepitose alto silenzio
intorno E strana solitudine s'ammira»).
Ciro di Pers che ha anche altri toni nel suo repertorio, ma
in cui quello grave prevale senz'altro, è veramente la voce
più sicura e misurata del barocco moraleggiante, ora, pur
nell'uso di comuni strumenti stilistici, una originalità che
in qualche modo doveva avvertire (anche se è difficile
individuare nell'amor secentesco dell'elogio il giudizio
meditato) il prefatore dell'edizione delle Poesie, Venezia,
1677, quando parlava di lui come di «Unico cigno di Pindo» e
assicurava il lettore che egli avrebbe fatto con quel libro
«acquisto della più nobil gioia, di cui possa pregiarsi il
poetico mondo». Non farei nel suo caso la distinzione che fa
il Ferrero tra liriche civili e moraleggianti, testiane -
«decorose ed eloquenti» - e rime concettistiche, più
schiette; in realtà il Pers sembra, variamente
intrecciandole, adoperare le due maniere come strumenti
prefabbricati al servizio di una realtà sua, non di rado nei
componimenti marinistici sviluppando oltre il capriccio
concettistico un suo più fondo discorso e adoperando
positivamente le movenze eloquenti del moderato barocco per
dilatare i suoi temi di meditazione (più seri forse di
quelli testiani anche se poi non sempre articolati) fuor
dalla tipica misura del sonetto morale, ponendosi in questo
senso su posizioni in parte post-barocche, anche se alla sua
eloquenza manca poi il preciso impegno di regolarità di uno
scrittore della Prearcadia barocchetta, di lui men vario ma
(non solo per gli argomenti civili ma per la grigia e
aristocratica pensosità) a lui affine, il Filicaia, che quel
preciso impegno ricavava da esperienze al Pers estranee: più
vivo contatto con la grande tradizione toscana e apertura
attraverso i suoi corrispondenti letterati-scienziati a
gusto di chiarezza e ordine della nuova cultura.
Entro questi limiti il Pers è un tipico esempio del naturale
sfociare (altrove occorreranno salti; di qui le famose «
conversioni » degli arcadi) di certo barocco in forme
prearcadiche barocchette, senza soluzione di continuità.
Anche per il Pers, di cui è giusto apprezzare l'intensità di
alcuni momenti lirici, i riferimenti del Ferrero a poesia di
molto posteriore (ancora: preromantici e Alfieri) pur in
parte stimolanti, appaiono cercati un po' troppo lontano:
quel fermento di più moderna sensibilità che è nel migliore
Pers potrà sboccare in direzione preromantica solo
attraverso uno svolgimento più graduato e in primo luogo
attraverso quell'Arcadia solenne, che nella tensione eroica
dei suoi esponenti migliori (non il più spento Filicaia ma
il Giudi e i letterati di primo settecento
petrarchesco-guidiani) anche se spesso più velleitaria del
più realizzato Pers, rappresenta tuttavia una fase di
sensibilità di lui più moderna.
Infine, anche in una personalità più isolata dalle linee
centrali della evoluzione del gusto barocco, nel Dotti...,
l'attenzione individuizzante si rivela utile...
La lettura delle liriche del Dotti conferma senz'altro
l'impressione che hanno avuto i due antologisti, di
un'originale energia (e qualche cosa d'interessante dovrebbe
venir fuori da un più minuto studio sulla vita, relazioni di
questo scrittore): una interpretazione del concettismo
robusta, sonante (si veda l' «arguzia grave» finale del
sonetto Uomo povero e nemici prepotenti, utilizzazione
nuova, meno sottilmente intellettualistica, d'un bisticcio:
«Alla mia povertà che non s'atterra Se manca l'oro a
procurar la pace Non manca il ferro a proseguir la guerra»:
o il sonetto riportato solo dal Getto, Passando a nuoto il
torrente Scrivia nel fuggire dal castello di Tortona, in cui
il paragone concettistico tra Cesare che sfida il mare e il
poeta che sfida il fiume, non raggela l'impeto del grido
iniziale «V'ho pur infranti, o ceppi!» ma lo svolge fino
alla gagliarda, e pur a suo modo «arguta», chiusa «Trofeo
maggior del tuo trionfo spero Che se varchiam de l'acque il
sen profondo, lo per la libertà tu per l'impero Val più la
libertà che tutto il mondo»); un linguaggio più aperto pur
nei bisticci in cui sentimenti più moderni (si pensi tra
l'altro che il Dotti è vissuto tra secondo seicento e primo
settecento, 1642-1713) facilmente s'inseriscono. |