MONTALE DAGLI "OSSI DI SEPPIA"
ALLE "OCCASIONI"
Sommariamente, il problema
critico costituito dalla poesia
di Eugenio Montale si può porre,
e cioè risolvere, nei termini
seguenti:
Gli Ossi di Seppia, più che
svolgere un sentimento di
non-esistenza, perpetuano un
non-sentimento; e questa
mancanza di sentimento vive
fuori d'una dialettica, produce
scarse proteste, pallide
ribellioni (se non in termini
pratici); più che farsi sentire
essa stessa, incoraggia
l'inerzia. La realtà rimane
assolutamente esterna agli
interessi del poeta, e ogni
sforzo linguistico volto a
riconoscerne volontariamente
l'esistenza conferma quella
trascendenza in modo
irrimediabile. È una situazione
dell'ordine gnoseologico,
negativa; che rende improbabile
la nascita delle liriche
effettive, cioè di sentimenti
concreti discorsi nella loro
articolazione dialettica. A
rompere quest'eccezione
occorrerà che l'inazione e
l'indifferenza appaiano beni
minacciati, o dalla tentazione
perpetua del viaggio (Portovenere)
o da un pericolo esterno
(Arremba sulla strinata proda).
Salvataggi, come si vede, di
breve stagione. La vera salute
(nell'ordine del concreto, e
però nella lirica) della poesia
di Montale è, sempre fuori da
questo mondo, presente e
distrutto, nel sospetto d'un
altro mondo, autentico e
interno, o magari «anteriore» e
«passato». Così si propone
l'istanza d'un diverso, sia
pure, primitivamente, come
impossibilità di rinnovamento
dell'istante buono (Tento e
bandiere, Cigola la carrucola
del pozzo); sia pure, d'altra
parte, che la difficoltà
interpretativa dell'indizio di
grazia separi l'interpretazione
dall'indizio e frammentariamente
lo degradi a sensazione (I
limoni); o che l'impossibilità
di variazione prevalga con la
sua andatura sull'indizio di
salvezza, e la poesia spetti a
quel tema d'invariabilità,
sempre appunto in quanto
minacciata (Arsenio). In un
caso-limite si parte addirittura
dalla vita misteriosa,
congetturabile per una sola
traccia (Delta). È a questo
punto, un po'dopo gli Ossi, che
comincia veramente l'arte di
Montale come autoidentificazione
perfetta dei suoi motivi: ogni
sua lirica consisterà, da
allora, nella definizione d'un
fantasma che abbia la
possibilità di liberare il mondo
nascosto. Poiché s'è rinunziato
a qualsiasi variazione, cioè a
qualsiasi «futuro», il fantasma
liberatore potrà anche
presentarsi, metaforicamente,
come «ricordo». Ricordo,
frattanto, che rischia di
fallire perennemente alla sua
missione, non durando oltre
l'istante. E così la stessa
«descrizione»
dell'impossibilità, pur
graduandosi di «meno-poesia»
rispetto a quella fulgurazione
conoscitiva, è tuttavia la
garanzia storica di quell'istantaneità:
la poesia di Montale viene a
riconoscersi per una previsione
o divinazione del passato, con
tutto quello che di aleatorio
importano simili sostantivi. In
questa creazione ex novo del
passato la poesia di Montale si
definisce ormai con rigorosa
coerenza, e porge l'esempio
paradigmatico ma estremo d'una
scrittura «in principio» tutta
esorbitante dal dono, che a
furia d'interno lavoro riesce a
strappare, e più esattamente: a
fabbricare la grazia.
Se, contro ogni consuetudine
recensora, ci siamo permessi
d'anticipare questa «position de
théses» (così, del resto, talune
riviste scientifiche esigono dai
collaboratori che premettano un
riassunto alle loro memorie), è
che non potevamo rinunciare a
una ricerca analitica, rispetto
alla quale quelle tesi avranno
talora una funzione di «lemma».
Esegeticamente, in effetti, la
«seconda» maniera di Montale,
cioè nient'altro che il Montale
esplicito e maturo, è tutta un
«lemma» rispetto agli Ossi, e di
questo primum ideale la nostra
indagine risentirà in ogni
punto. Dalla premessa dovrebbe
anche uscire già chiaro come una
fenomenologia della poesia di
Montale conduca immediatamente a
un giudizio di valore.
Fenomenologia da riconoscersi
puntualmente, d'altra parte,
poiché le liriche posteriori
agli Ossi, o diciamo alla Casa
dei doganieri, frammentate in
più riviste, costituiscono il
più bell'inedito critico delle
lettere contemporanee (non
italiane soltanto).
La principale costante nella
carriera di Montale è che poesia
e nonpoesia in lui non sono
contigue, ma strettamente
interdipendenti e complementari.
Mai l'impressione che uno stesso
tema potesse riuscirgli e non
riuscirgli, secondo il capriccio
delle circostanze; bensì
l'opposta perentoria, che quanto
non è a fuoco giustifichi perché
è a fuoco il resto, in certo
modo addirittura lo squalifichi
nel momento in cui da sé si
documenta per assenza di tema.
In altre parole, un tema a
Montale dovrà necessariamente
andar bene; e basterà
identificarlo in una conoscenza
precisa. Oggi che in Montale il
nucleo ispirativo tende a
coincidere con l'istante di
grazia gnoseologica (ed
eudemonologica), ne risulta
contratta anche la non-poesia,
in quel minimo di durata (attesa
e provocazione della grazia,
amaro addio) che fa la base da
cui sorge il momento liberatore.
E precisiamo meglio: quella
disperazione che promuove
l'ebbrezza è già partecipe
dell'ebbrezza, è una
disperazione privilegiata, e non
più una semplice disperazione di
fondo, uniforme e atona; così
l'«antefatto» della visione
tende a sfuggire alla sua sorte
d'esser recitato dal cronista
anziché cantato dal visionario,
evade dalla durata psicologica
verso la poesia. In Punta del
Mesco un primo tempo («tutto è
uguale») ha un tono troppo
basso, un soverchio eccesso di
calma, per non far prevedere
l'eccezione; il tempo definitivo
(«brancolo nel fumo, ma...»)
esaspera il rischio della
ricerca quando l'attesa è già
vittoria:
|
Vedo il sentiero che
percorsi un giorno
come un cane inquieto;
lambe il fiotto,
s'inerpica tra i massi e
rado strame
a tratti lo scancella. E
tutto é uguale .
............................................
Polene che risalgono e
mi portano
qualche cosa di te. Un
tràpano incide
il cuore sulla roccia -
schianta attorno
più forte un rombo.
Brancolo nel fumo,
ma rivedo: ritornano i
tuoi rari
gesti e il viso che
aggiorna al davanzale,
mi torna la tua infanzia
dilaniata
dagli spari! |
Anche la disperazione sfugge
insomma allo «stato d'animo», e
la nonpoesia di Montale è,
semplicemente, lo «stato
d'animo»: quello «stato» che
domina negli Ossi. Le sue
carenze espressive sono
nient'altro che carenze
teoretiche, anteriori al
linguaggio; o insomma
impossibilità generale di
linguaggio. Partenza razionale,
negli Ossi almeno, e per ciò
stesso volontaria : uno «stato»
non può continuare ad attestarsi
se non per un atto
d'ostinazione. Ed era
prevedibile che gli sforzi più
coscienti dell'autore per
sfuggire allo «stato» dovessero
essere nell'ordine volontario:
quelli cioè di rilevare con
ferocia analitica gli elementi
della natura esterna. Quegli
elenchi e quella nomenclatura
degli Ossi, quella riproduzione
spaziale («Pure colline
chiudevano d'intorno - marina e
case; ulivi le vestivano - qua e
là disseminati come greggi...
Tra macchie di vigneti e di
pinete, - petraie si scorgevano
- calve e gibbosi dorsi di
collinette...»: attenzione
esagerata, come in vista di
qualcosa che per ora non accadrà
affatto) sono una dichiarata
prova di sfiducia nella natura;
un archivio, non un'evocazione;
e non v'è «più linguaggio», «più
espressione» che nell'inerzia.
Si notino addirittura, a
testimonianza dello sforzo, i
vocaboli lessicalmente impropri,
semplici approssimative
onomatopee: le tinnanti scatole,
la favilla d'un tirso, il
torbato mare. Lo spettacolo
rimane trascendente rispetto al
testardo contemplatore, si
tratti d'una felicità umana
bruta ch'egli stesso dovrà
limitarsi a enunciare come
staccata (l'Esterina di
Falsetto, della razza idiota
degli eletti), o d'un frammento
di natura che il cuore cerca
invano d'interiorizzare (Corno
inglese). In quest'ultimo
esempio, sintomaticamente,
l'ammirazione fiduciaria per le
cose non tangibili, separate,
mobili sopra il mondo solido che
pure sfugge, si chiude in
parentesi, «(Nuvole in viaggio,
chiari - reami di lassù! D'alti
Eldoradi - malchiuse porte!)»:
nella tempesta, fenomeno insomma
anormale, già il mondo fisico si
sdoppia.