IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

MONTALE DAGLI "OSSI DI SEPPIA" ALLE "OCCASIONI"

 

 

Sommariamente, il problema critico costituito dalla poesia di Eugenio Montale si può porre, e cioè risolvere, nei termini seguenti:

Gli Ossi di Seppia, più che svolgere un sentimento di non-esistenza, perpetuano un non-sentimento; e questa mancanza di sentimento vive fuori d'una dialettica, produce scarse proteste, pallide ribellioni (se non in termini pratici); più che farsi sentire essa stessa, incoraggia l'inerzia. La realtà rimane assolutamente esterna agli interessi del poeta, e ogni sforzo linguistico volto a riconoscerne volontariamente l'esistenza conferma quella trascendenza in modo irrimediabile. È una situazione dell'ordine gnoseologico, negativa; che rende improbabile la nascita delle liriche effettive, cioè di sentimenti concreti discorsi nella loro articolazione dialettica. A rompere quest'eccezione occorrerà che l'inazione e l'indifferenza appaiano beni minacciati, o dalla tentazione perpetua del viaggio (Portovenere) o da un pericolo esterno (Arremba sulla strinata proda). Salvataggi, come si vede, di breve stagione. La vera salute (nell'ordine del concreto, e però nella lirica) della poesia di Montale è, sempre fuori da questo mondo, presente e distrutto, nel sospetto d'un altro mondo, autentico e interno, o magari «anteriore» e «passato». Così si propone l'istanza d'un diverso, sia pure, primitivamente, come impossibilità di rinnovamento dell'istante buono (Tento e bandiere, Cigola la carrucola del pozzo); sia pure, d'altra parte, che la difficoltà interpretativa dell'indizio di grazia separi l'interpretazione dall'indizio e frammentariamente lo degradi a sensazione (I limoni); o che l'impossibilità di variazione prevalga con la sua andatura sull'indizio di salvezza, e la poesia spetti a quel tema d'invariabilità, sempre appunto in quanto minacciata (Arsenio). In un caso-limite si parte addirittura dalla vita misteriosa, congetturabile per una sola traccia (Delta). È a questo punto, un po'dopo gli Ossi, che comincia veramente l'arte di Montale come autoidentificazione perfetta dei suoi motivi: ogni sua lirica consisterà, da allora, nella definizione d'un fantasma che abbia la possibilità di liberare il mondo nascosto. Poiché s'è rinunziato a qualsiasi variazione, cioè a qualsiasi «futuro», il fantasma liberatore potrà anche presentarsi, metaforicamente, come «ricordo». Ricordo, frattanto, che rischia di fallire perennemente alla sua missione, non durando oltre l'istante. E così la stessa «descrizione» dell'impossibilità, pur graduandosi di «meno-poesia» rispetto a quella fulgurazione conoscitiva, è tuttavia la garanzia storica di quell'istantaneità: la poesia di Montale viene a riconoscersi per una previsione o divinazione del passato, con tutto quello che di aleatorio importano simili sostantivi. In questa creazione ex novo del passato la poesia di Montale si definisce ormai con rigorosa coerenza, e porge l'esempio paradigmatico ma estremo d'una scrittura «in principio» tutta esorbitante dal dono, che a furia d'interno lavoro riesce a strappare, e più esattamente: a fabbricare la grazia.
Se, contro ogni consuetudine recensora, ci siamo permessi d'anticipare questa «position de théses» (così, del resto, talune riviste scientifiche esigono dai collaboratori che premettano un riassunto alle loro memorie), è che non potevamo rinunciare a una ricerca analitica, rispetto alla quale quelle tesi avranno talora una funzione di «lemma». Esegeticamente, in effetti, la «seconda» maniera di Montale, cioè nient'altro che il Montale esplicito e maturo, è tutta un «lemma» rispetto agli Ossi, e di questo primum ideale la nostra indagine risentirà in ogni punto. Dalla premessa dovrebbe anche uscire già chiaro come una fenomenologia della poesia di Montale conduca immediatamente a un giudizio di valore. Fenomenologia da riconoscersi puntualmente, d'altra parte, poiché le liriche posteriori agli Ossi, o diciamo alla Casa dei doganieri, frammentate in più riviste, costituiscono il più bell'inedito critico delle lettere contemporanee (non italiane soltanto).

La principale costante nella carriera di Montale è che poesia e nonpoesia in lui non sono contigue, ma strettamente interdipendenti e complementari. Mai l'impressione che uno stesso tema potesse riuscirgli e non riuscirgli, secondo il capriccio delle circostanze; bensì l'opposta perentoria, che quanto non è a fuoco giustifichi perché è a fuoco il resto, in certo modo addirittura lo squalifichi nel momento in cui da sé si documenta per assenza di tema. In altre parole, un tema a Montale dovrà necessariamente andar bene; e basterà identificarlo in una conoscenza precisa. Oggi che in Montale il nucleo ispirativo tende a coincidere con l'istante di grazia gnoseologica (ed eudemonologica), ne risulta contratta anche la non-poesia, in quel minimo di durata (attesa e provocazione della grazia, amaro addio) che fa la base da cui sorge il momento liberatore. E precisiamo meglio: quella disperazione che promuove l'ebbrezza è già partecipe dell'ebbrezza, è una disperazione privilegiata, e non più una semplice disperazione di fondo, uniforme e atona; così l'«antefatto» della visione tende a sfuggire alla sua sorte d'esser recitato dal cronista anziché cantato dal visionario, evade dalla durata psicologica verso la poesia. In Punta del Mesco un primo tempo («tutto è uguale») ha un tono troppo basso, un soverchio eccesso di calma, per non far prevedere l'eccezione; il tempo definitivo («brancolo nel fumo, ma...») esaspera il rischio della ricerca quando l'attesa è già vittoria:
 

  Vedo il sentiero che percorsi un giorno
come un cane inquieto; lambe il fiotto,
s'inerpica tra i massi e rado strame
a tratti lo scancella. E tutto é uguale .
............................................
Polene che risalgono e mi portano
qualche cosa di te. Un tràpano incide
il cuore sulla roccia - schianta attorno
più forte un rombo. Brancolo nel fumo,
ma rivedo: ritornano i tuoi rari
gesti e il viso che aggiorna al davanzale,
mi torna la tua infanzia dilaniata
dagli spari!


Anche la disperazione sfugge insomma allo «stato d'animo», e la nonpoesia di Montale è, semplicemente, lo «stato d'animo»: quello «stato» che domina negli Ossi. Le sue carenze espressive sono nient'altro che carenze teoretiche, anteriori al linguaggio; o insomma impossibilità generale di linguaggio. Partenza razionale, negli Ossi almeno, e per ciò stesso volontaria : uno «stato» non può continuare ad attestarsi se non per un atto d'ostinazione. Ed era prevedibile che gli sforzi più coscienti dell'autore per sfuggire allo «stato» dovessero essere nell'ordine volontario: quelli cioè di rilevare con ferocia analitica gli elementi della natura esterna. Quegli elenchi e quella nomenclatura degli Ossi, quella riproduzione spaziale («Pure colline chiudevano d'intorno - marina e case; ulivi le vestivano - qua e là disseminati come greggi... Tra macchie di vigneti e di pinete, - petraie si scorgevano - calve e gibbosi dorsi di collinette...»: attenzione esagerata, come in vista di qualcosa che per ora non accadrà affatto) sono una dichiarata prova di sfiducia nella natura; un archivio, non un'evocazione; e non v'è «più linguaggio», «più espressione» che nell'inerzia. Si notino addirittura, a testimonianza dello sforzo, i vocaboli lessicalmente impropri, semplici approssimative onomatopee: le tinnanti scatole, la favilla d'un tirso, il torbato mare. Lo spettacolo rimane trascendente rispetto al testardo contemplatore, si tratti d'una felicità umana bruta ch'egli stesso dovrà limitarsi a enunciare come staccata (l'Esterina di Falsetto, della razza idiota degli eletti), o d'un frammento di natura che il cuore cerca invano d'interiorizzare (Corno inglese). In quest'ultimo esempio, sintomaticamente, l'ammirazione fiduciaria per le cose non tangibili, separate, mobili sopra il mondo solido che pure sfugge, si chiude in parentesi, «(Nuvole in viaggio, chiari - reami di lassù! D'alti Eldoradi - malchiuse porte!)»: nella tempesta, fenomeno insomma anormale, già il mondo fisico si sdoppia.

Gianfranco Contini

© 2009 - Luigi De Bellis