IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

HOME PAGE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


CRITICA: IL NOVECENTO

PROSPETTIVA SU PAVESE

 

 

È già, in questi racconti, la continuità e pienezza di umana vibrazione che, nell'opera del Pavese, verrà facendosi sempre più intima e tersa; e in virtù della quale il suo linguaggio, senza mai esaltarsi e prendere un'aria poetizzata, si satura di valori lirici che poi non sono altro che l'accento della partecipazione in una più profonda verità. Sarà sempre mirabile che un esordiente avesse potuto disimpegnarsi con tanta lucidezza in un partito di contrappunto sommesso e complicato come quello di Tre ragazze; mentre in Carogne la scena amorosa fra Concia e Rocco, scappato dal carcere col proposito di uccidere la donna che l'ha tradito, ha, nel dialogo non meno che nell'azione, un rilievo e una rapidità degni d'un maestro.
O si vegga, sempre in questo racconto: Carogne, la pittura dell'interno della prigione, con quella infernale promiscuità; e con la compassionevole figura del prete in borghese, ch'è lì per poche ore in sosta di transito verso la sua destinazione di confino; e sull'atto che i carabinieri della scorta, all'ora della partenza, vengono a pigliarlo per rimettersi in viaggio, porge i polsi alle manette come un Christus patiens. In Notte di festa, è tutt'altro carattere di sacerdote: il superiore di un ospizio di trovatelli ed orfani di campagna: imperioso, violento, e ciò malgrado con una sua brutale saggezza, e a modo suo, si direbbe quasi bontà.

Personaggi così numerosi e variati, si paragonino a quelli d'altri nostri scrittori di romanzi e novelle, e si sentirà subito un'aria differente. Non si tratta soltanto che Pavese si applica ad animare e colorire le sue figure con una pazienza infinita, e un'affettuosità come si è detto inesauribile; pur senza mai scivolare in romanticherie e sentimentalismi; tanto è vero che, a lettori superficiali o frettolosi, il suo costante rifiuto di qualsiasi effetto eloquente, fa un'impressione di vera e propria freddezza e aridità. Si tratta che, dell'esperienza umana e sociale di cui egli si serve per il proprio lavoro, il Pavese ha un possesso addirittura eccezionale lentamente vissuto, maturato in ogni parte. Onde non è mai costretto a ricorrere a soluzioni di maniera, e non va mai nel generico, nell'approssimativo.

Il suburbio dove la vita della provincia trova quotidianamente la sua saldatura provvisoria con la vita della città; l'accostarsi e l'adattarsi del ceto rustico alle professioni industriali; la ragazzotta inurbata che diventa serva, operaia, commessa, «maschietta», e lascia le prime penne nei ballonzoli rionali; il logorarsi della borghesia campagnuola nelle mutate condizioni economiche e politiche: nessuno li ha interpretati come lui, con una competenza così stratificata, con una visione così complessa e tranquilla, senza escandescenze polemiche. Veramente egli sa di che cosa parla; e per dare autorità al suo discorso, non si crede in obbligo di sermoneggiare; di fare la faccia severa; allo stesso modo che non si dilunga in minuzie ed oziosità di descrizione, in inventari veristici: in un documentarismo ch'è poi quel solito, zoliano, rinfrescato come usa oggi con lo spizzico di qualche banale procedimento cinematografico. È sufficiente, del resto, riferirsi alla qualità creativa e tutta interiore del dialogo del suoi personaggi; che non è mai un dialogo di Imitazione vernacola, nel quale alcuni fantocci, di natura completamente gratuita, alla peggio rifacciano il verso a operai e contadini con i quali non hanno nulla a che vedere.

Riconosciamo così, ancora una volta, che della sua generazione, Pavese fu tra gli spiriti non solo artisticamente più dotati, ma nell'insieme di tutte le facoltà, intellettualmente e moralmente più esemplario. Il libro odierno lo conferma. Racconti di un tal merito, dall'autore furon lasciati dormire manoscritti, in fondo a un cassetto, per quasi un ventennio. Considerando il ritmo con il quale oggidì si produce e si pubblica, e tanto più che il Pavese aveva a propria disposizione una potente casa editrice: è la riprova più concreta del disinteresse, dello scrupolo dello scrittore, e della sua profonda moralità.
A precoci e robusti risultati come i racconti di Notte di festa, il Pavese era pervenuto, innanzi tutto, è superfluo dirlo, per i suoi doni naturali; ma in aggiunta a codesti, per virtù del suo illuminato ed assiduo tirocinio umanistico. Né in altra maniera potrebbero definirsi la sua volontà culturale, l'ampiezza delle letture, antiche e moderne e l'inesauribile bisogno di rendersi conto criticamente, di cui sono testimoni tante pagine del Diario. Soprattutto, non potrebbe altrimenti definirsi la sua enorme operosità di traduttore; esercitata su autori che particolarmente lo appassionavano, e il problema del cui linguaggio era talvolta assai prossimo a quello che egli s'era proposto di risolvere, come infatti gli avvenne, con la invenzione del linguaggio suo.

Senza voler sottolineare oltre misura il loro influsso: Sherwood Anderson, Melville, Defoe, Dickens, Gertrude Stein, ecc., dei quali egli tradusse numerosi volumi; ed altri scrittori alle cui versioni, eseguite da diversi, egli prestò dotte e pazienti fatiche di revisore: con uno scolaro della sua forza, non potevano non dimostrarsi i grandi maestri di prosa che sono. Alla drammatica esperienza di vita sentimentale che si riflette nel Diario, e all'esperienza sociale e politica in cui interamente egli pagò di persona, fu insomma accompagnato sempre un lavorio filologico e critico, dal quale ogni più fuggevole segno della sua penna, non importa in qualsiasi materia, deriva una caratteristica impronta di intellettuale responsabilità e dignità. Per lo stesso motivo, nella sua arte, il sentimento d'umana partecipazione è di un cristallo talmente puro; e si distingue e separa in modo così reciso dagli atteggiamenti e dalla comune pratica realistica e neorealistica.
Col progresso del lavoro, in Pavese, il bisogno di bellezza ritmica e verbale si fa sempre più intenso. Si notò già come, nei tre grandi racconti della Bella estate, che stanno fra le sue prove più alte, la tendenza ad una formazione per brevissime scene regolari a capitoli staccati, risponda alla necessità interiore d'una accentuata scansione ritmica; senza che la continuità narrativa perda evidenza e coerenza, mentre più acquista d'intimità musicale.
E tutto, ormai, anche ogni più labile occasione, a un leggerissimo tocco, può trasformarsi in racconto; da far pensare ad una disposizione non dissimile a quella, riccamente trasfigurativa (benché in un certo senso anche dispersiva), alla quale nel corso degli anni, Sherwood Anderson andò più concedendo; come si vide in componimenti inediti del suo ultimo periodo, pubblicati nello Sherwood Anderson Reader, 1947.

Ma per ciò che riguarda il Pavese, la solidità di struttura del racconto, non apparve, come s'è detto, mai compromessa. Altrettanto sembrano fuori luogo gli allarmi di taluno circa i pericoli d'un presunto «estetismo», nel Pavese ultimo; a non considerare come l'odio istintivo per la proprietà e bellezza della scrittura, ed in genere per la nobiltà dell'arte ed ogni disposizione umanistica, autorizzi certi critici ai più sballati sospetti.
In realtà, dal principio alla fine della breve ma così feconda carriera, fu in lui continua conquista, integrazione e perfezionamento. La passione, andatagli sempre crescendo, per gli studi di mitologia ed etnologia, tutt'altro che estranei al suo ideale della creazione «d'un linguaggio che tanto si identificasse alle cose, da abbattere ogni barriera tra il comune lettore e la realtà simbolica e mitica più vertiginosa»: codesta passione, probabilmente nata, come nella maggior parte dei suoi coetanei, sotto il segno di Jung e di Freud, e cioè su una base fisiologica e psicopatica, s'era poi chiarita e naturalizzata, aveva trovato la sua tradizione, orientandosi verso i miti mediterranei, sotto il segno di Vico.

Vuol concludersi che il valore dei giovanili racconti ora scoperti, non dovrà indurre (come purtroppo sembra ci sia qualche tendenza) a ritenere che più tardi il Pavese ebbe deviazioni e complicazioni, che in un certo senso lo diminuirono come artista, allontanandolo dalla originaria concretezza e spontaneità. Figlio di un'età difficile, egli ne condivise tutte le responsabilità ed i patemi; ma il suo ingegno ne trasse costante incremento, anche se a un prezzo di dolore infinito.

Emilio Cecchi

© 2009 - Luigi De Bellis