LA LIRICA DI QUASIMODO
Nel suo primo libro Acque e
terre (Quasimodo), dimostrava
una innegabile facilità ad
assorbire e a piegare ad
esigenze del resto già personali
gli echi che erano nell'aria:
D'Annunzio, Pascoli, Papini di
Opera prima; e Montale e
Ungaretti. Nella sapienza degli
stacchi e delle riprese, nel
gusto incisivo di certe
immagini, nella sonorità di
qualche bel verso si rivelava,
con un fondo d'indubbia
sincerità, l'attento ricercatore
e sperimentatore. Se Quasimodo
avesse insistito in questa sua
maniera iniziale, meno intensa,
ma più svagata e più ricca
d'effetti, avremmo forse avuto
in lui uno di quegli artisti di
secondo grado che traducono in
forme decentissime ma
approssimative, su di un piano
più agevole e accessibile, le
esperienze nuove. Ma fin da
allora il suo impegno si
rivelava più stringente e serio.
E già in Acque e terre quattro o
cinque poesie si situavano in
una zona di realizzazioni più
personali e decisive. Così Vento
a Tindari dove la nostalgia
classica del ritmo si sfalda nel
tremito musicale, e le parole si
modellano con tanta intimità sul
moto di sentimento che le ha
suscitate:
|
Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensili
sull'acque
. . . . . . . . . . . .
. . . . .
Salgo . vertici, aerei
precipizi
assorto al vento dei
pini
e la brigata che lieve
m'accompagna
s'allontana nell'aria
onda di suoni e amore... |
Con Oboe sommerso Quasimodo
rinunciò coraggiosamente ad ogni
giovanile indugio in cadenze
prestabilite, in stasi
descrittive o narrative, per
organizzare tutte le sue
espressioni attorno al suo
nucleo lirico più profondo. Da
allora, egli non si è più
appagato di tradurre, di
adombrare in formule consuete e
marginali il suo sentimento, ma,
scendendo di colpo in quella
zona latente in cui il
sentimento è, per così dire,
ancora indifferenziato, «senso
di tutte le cose insieme», tenta
di trarlo in luce, lasciandogli
la, sua originaria
indeterminatezza, in scarse,
pesate e doloranti parole. Come
in altri giovani, ma in maniera
più tenace ed essenziale, è viva
in Quasimodo la tendenza mistica
che anima tanta parte della
poesia moderna: quella che ha in
Rimbaud e in Campana i suoi
padri recenti, e profonda le sue
radici nel passato fino a un
Blake, a un Hólderlin, a un
Novalis. L'episodio definito,
come la clausola gnomica e
discorsiva, per questa poesia
che aspira così prepotentemente
a una significazione assoluta, a
rendere un senso elementare e
fondamentale dell'esistenza,
sono incapaci a reggerne in
pieno le esigenze. E l'immagine
si fa segno, simbolo che tutto
il cosmo pretenderebbe
accentrare ed esaurire in sé.
Quale, allora, il tema unico e
fondamentale della poesia di
Quasimodo? Errerebbe,
naturalmente, chi volesse a
forza ravvisarvi una particolare
originalità: l'originalità, come
sempre avviene in poesia, non è
nel tema astrattamente
considerato, ma nell'accento,
nel tono ineffabile del
sentimento, e, in definitiva,
nel poeta che da quel tema è
agitato, e ce lo dice con la sua
inconfondibile voce segreta.
Il senso di una divisione
irreparabile: da una parte un
beato Eden, che volta a volta è
l'isola siciliana dove il poeta
vide la luce, una misteriosa
città sepolta nel cuore, che la
poesia miracolosamente ravviva
nel suo soffio:
|
ecco discendo
nell'antica luce
delle maree, presso
sepolcri
in riva d'acque
che una letizia scioglie
d'alberi sognati. |
O è l'infanzia che, risvegliata
da un odore di pianta, rinverde
nella sua antichissima favola:
|
Isola mattutina
riaffiora a mezza luce
la volpe d'oro
uccisa a una sorgiva. |
Terra e infanzia si confondono
in un sogno unico, a cui il
poeta approda di tanto in tanto
pacificato:
|
In te mi getto: un
fresco
di navate mi posa in
cuore. |
E la terra è la terra siciliana
«dove lo zolfo / era l'estate
dei miti immobile», dove
«antiche mani nei fiumi /
coglievano papiri», dove l'Anapo
gorgoglia con voce di colomba e
sulle cui rive «mansueti animali
/ le pupille d'aria / bevono in
sogno». Sulle acque incantate
scendono le costellazioni,
«stimmate celesti». Questo paese
di mito affiora nel sentimento
del poeta come una «memoria non
umana», un sogno ancestrale che
tratto tratto si schiude alla
luce e s'esprime con le sue
parole con una voce ignota,
quasi d'un «sepolto» che canti
in lui.
Di fronte a questa naturalità
beata, a questa perduta età
d'oro, l'assillo d'una
corrosione, d'un decadimento
senza salvezza. Il poeta non
riesce più a risuscitare la sua
primitiva condizione di figlio
del sole, non riesce più a
vivere prostrato «nel fulmine di
luce», nell'isola favolosa:
|
... dove la latomia
l'arancio greco
feconda per gl'imenei
dei numi. |
Subentra l'oscuramento. Il suo
cuore è «brucato dal patire»;
egli stesso è «una reliquia
patita», devastato da «oscure
mutazioni». La sua vita è una
prigione di fatica e di sangue,
lievita e brulica stanca come
l'acqua malsana alla foce
desolata d'un fiume, consapevole
della propria inutilità, della
morte che sente in sé «in
nuziale germe». In questa
aridità senza scampo, in questo
«verde squallore», nessun'altra
fuga che il reintegrarsi,
attraverso l'illusione della
poesia, nel dorato Eden
primitivo, o, estrema risorsa,
la terrificante bestemmia del
«fraticello d'icona»:
|
Mi pento
d'averti donato il mio
sangue
Signore, mio asilo:
misericordia! |
Dall'uno all'altro dei termini
opposti di questo tema
essenziale oscilla e si dibatte
l'ispirazione di Quasimodo. Tema
non nuovo: in tutta la poesia
moderna, dopo Leopardi e
Baudelaire, serpeggia questa
struggente nostalgia delle beate
origini perdute, dei limbi
incorrotti dell'infanzia
dell'uomo e del mondo. Più
direttamente Quasimodo si
ricollega a Montale per quel
disperato senso di decadimento e
di destino segnato, che balena
nelle luci e nei colori delle
apparenze revocate. Ma nuovo, e
suo, è quel sentimento inerme e
rassegnato di resa alle oscure
volontà del cosmo. Come suo è il
rigore intellettuale, quasi
acido, con cui egli sa ridurre
l'ispirazione ai suoi nodi
essenziali, ad affermazioni come
sospese, senza passaggi né
chiaroscuri, del sentimento
primo che l'ha generata.
Poesia scarna e immediata, dove
l'immagine, colta isolatamente,
si affida tutta al tono della
voce assorta che la pronuncia.
Ma in cui, più che l'immagine,
più che il verso, l'organismo
costitutivo, la cellula
elementare è la parola. Ciò
spiega come la trama della
composizione così spesso
s'allenti e si diradi, mentre
l'espressione, l'effetto,
tendono a raccogliersi nella
parola singola, musicalmente
insistita nelle sue sillabe; e
come gli elementi strutturali
guadagnino dalla imprecisione in
cui il poeta li lascia, quasi
arcate mozze, slanciati
frammenti d'aeree architetture.
Si può osservare che l'altezza
tonale cui questa ispirazione
pretende, ed effettivamente
tocca nelle sue più riuscite
espressioni, ha talora il suo
aspetto negativo in una certa
tensione inarticolata, quando le
parole, in luogo di nascere
dallo stesso gesto poetico, vi
appaiono successivamente
apposte, quasi destinate a
riempire uno spazio, un ritmo
vuoto...
Ogni poesia, d'altronde,
superata la fase «innocente»
della sua immediatezza
giovanile, lascia individuare il
suo pericolo specifico, la sua
possibile cifra retorica. Ma il
poeta è il solo a cui non sia
consentito vivere di rendita. La
salute, per l'artista, consiste
tutta nel saper continuamente
sommuovere l'inerzia della
«cifra», della espressione
approssimativa, del luogo comune
«originale», nel riprendere
continuamente le forze a
contatto con la terra selvaggia
dell'ispirazione anteriore ad
ogni agglomerazione formale
precostituita. Forse in ciò
consiste, oltre che
nell'anelito, che abbiamo
indicato come un tema essenziale
di questa poesia, ad un ideale
«luogo» di primitività
incorrotta, mito insieme di vita
e di cultura, la ragione
profonda che ha sospinto
Quasimodo all'esperienza dei
lirici greci, da cui ha tratto
quei saggi di traduzione che
hanno giustamente meravigliato
per la loro freschezza,
veramente di antiche voci
restituite, oltre ogni
neoclassicismo, a una intatta,
stillante contemporaneità.
Le ultime liriche di Quasimodo
risentono alcunché di quella
purissima lezione, nell'unico
senso in cui una lezione può
essere giovevole; e lo è
soltanto quando essa ci aiuta a
trarre in luce temi e
inclinazioni profondamente
impliciti nella nostra natura, e
parallelamente a scartare le
formazioni «passive» che
sogliono insidiare la poesia al
punto della sua compiuta
maturità. Le traduzioni dei
lirici greci, tra le quali si
possono annoverare alcune tra le
belle poesie di Quasimodo, ci
aiutano peraltro ad intendere
anche i valori più alti e
genuini della sua lirica
precedente, dove, come in Vento
a Tindari, l'Anapo, Insonnia,
Sardegna e in molte altre,
l'accento del poeta più si
libera e si fa leggero, e le
immagini tendono ad una sorta
d'«aerea plasticità», come l'ha
definita il Anceschi, dove la
materia si fa tutta traslucida e
musicale: e meglio s'intende il
perché di tanta rarefazione e
scavo, destinati a trarre in
luce il miracolo d'una parola
vergine, pronunciata per la
prima volta dal sentimento
profondo.