IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

LA LIRICA DI QUASIMODO

 

 

Nel suo primo libro Acque e terre (Quasimodo), dimostrava una innegabile facilità ad assorbire e a piegare ad esigenze del resto già personali gli echi che erano nell'aria: D'Annunzio, Pascoli, Papini di Opera prima; e Montale e Ungaretti. Nella sapienza degli stacchi e delle riprese, nel gusto incisivo di certe immagini, nella sonorità di qualche bel verso si rivelava, con un fondo d'indubbia sincerità, l'attento ricercatore e sperimentatore. Se Quasimodo avesse insistito in questa sua maniera iniziale, meno intensa, ma più svagata e più ricca d'effetti, avremmo forse avuto in lui uno di quegli artisti di secondo grado che traducono in forme decentissime ma approssimative, su di un piano più agevole e accessibile, le esperienze nuove. Ma fin da allora il suo impegno si rivelava più stringente e serio. E già in Acque e terre quattro o cinque poesie si situavano in una zona di realizzazioni più personali e decisive. Così Vento a Tindari dove la nostalgia classica del ritmo si sfalda nel tremito musicale, e le parole si modellano con tanta intimità sul moto di sentimento che le ha suscitate:
 

  Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensili sull'acque
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Salgo . vertici, aerei precipizi
assorto al vento dei pini
e la brigata che lieve m'accompagna
s'allontana nell'aria
onda di suoni e amore...


Con Oboe sommerso Quasimodo rinunciò coraggiosamente ad ogni giovanile indugio in cadenze prestabilite, in stasi descrittive o narrative, per organizzare tutte le sue espressioni attorno al suo nucleo lirico più profondo. Da allora, egli non si è più appagato di tradurre, di adombrare in formule consuete e marginali il suo sentimento, ma, scendendo di colpo in quella zona latente in cui il sentimento è, per così dire, ancora indifferenziato, «senso di tutte le cose insieme», tenta di trarlo in luce, lasciandogli la, sua originaria indeterminatezza, in scarse, pesate e doloranti parole. Come in altri giovani, ma in maniera più tenace ed essenziale, è viva in Quasimodo la tendenza mistica che anima tanta parte della poesia moderna: quella che ha in Rimbaud e in Campana i suoi padri recenti, e profonda le sue radici nel passato fino a un Blake, a un Hólderlin, a un Novalis. L'episodio definito, come la clausola gnomica e discorsiva, per questa poesia che aspira così prepotentemente a una significazione assoluta, a rendere un senso elementare e fondamentale dell'esistenza, sono incapaci a reggerne in pieno le esigenze. E l'immagine si fa segno, simbolo che tutto il cosmo pretenderebbe accentrare ed esaurire in sé.

Quale, allora, il tema unico e fondamentale della poesia di Quasimodo? Errerebbe, naturalmente, chi volesse a forza ravvisarvi una particolare originalità: l'originalità, come sempre avviene in poesia, non è nel tema astrattamente considerato, ma nell'accento, nel tono ineffabile del sentimento, e, in definitiva, nel poeta che da quel tema è agitato, e ce lo dice con la sua inconfondibile voce segreta.

Il senso di una divisione irreparabile: da una parte un beato Eden, che volta a volta è l'isola siciliana dove il poeta vide la luce, una misteriosa città sepolta nel cuore, che la poesia miracolosamente ravviva nel suo soffio:
 

  ecco discendo nell'antica luce
delle maree, presso sepolcri
in riva d'acque
che una letizia scioglie
d'alberi sognati.


O è l'infanzia che, risvegliata da un odore di pianta, rinverde nella sua antichissima favola:
 

  Isola mattutina
riaffiora a mezza luce
la volpe d'oro
uccisa a una sorgiva.


Terra e infanzia si confondono in un sogno unico, a cui il poeta approda di tanto in tanto pacificato:
 

  In te mi getto: un fresco
di navate mi posa in cuore.


E la terra è la terra siciliana «dove lo zolfo / era l'estate dei miti immobile», dove «antiche mani nei fiumi / coglievano papiri», dove l'Anapo gorgoglia con voce di colomba e sulle cui rive «mansueti animali / le pupille d'aria / bevono in sogno». Sulle acque incantate scendono le costellazioni, «stimmate celesti». Questo paese di mito affiora nel sentimento del poeta come una «memoria non umana», un sogno ancestrale che tratto tratto si schiude alla luce e s'esprime con le sue parole con una voce ignota, quasi d'un «sepolto» che canti in lui.

Di fronte a questa naturalità beata, a questa perduta età d'oro, l'assillo d'una corrosione, d'un decadimento senza salvezza. Il poeta non riesce più a risuscitare la sua primitiva condizione di figlio del sole, non riesce più a vivere prostrato «nel fulmine di luce», nell'isola favolosa:
 

  ... dove la latomia l'arancio greco
feconda per gl'imenei dei numi.


Subentra l'oscuramento. Il suo cuore è «brucato dal patire»; egli stesso è «una reliquia patita», devastato da «oscure mutazioni». La sua vita è una prigione di fatica e di sangue, lievita e brulica stanca come l'acqua malsana alla foce desolata d'un fiume, consapevole della propria inutilità, della morte che sente in sé «in nuziale germe». In questa aridità senza scampo, in questo «verde squallore», nessun'altra fuga che il reintegrarsi, attraverso l'illusione della poesia, nel dorato Eden primitivo, o, estrema risorsa, la terrificante bestemmia del «fraticello d'icona»:
 

  Mi pento
d'averti donato il mio sangue
Signore, mio asilo:
misericordia!


Dall'uno all'altro dei termini opposti di questo tema essenziale oscilla e si dibatte l'ispirazione di Quasimodo. Tema non nuovo: in tutta la poesia moderna, dopo Leopardi e Baudelaire, serpeggia questa struggente nostalgia delle beate origini perdute, dei limbi incorrotti dell'infanzia dell'uomo e del mondo. Più direttamente Quasimodo si ricollega a Montale per quel disperato senso di decadimento e di destino segnato, che balena nelle luci e nei colori delle apparenze revocate. Ma nuovo, e suo, è quel sentimento inerme e rassegnato di resa alle oscure volontà del cosmo. Come suo è il rigore intellettuale, quasi acido, con cui egli sa ridurre l'ispirazione ai suoi nodi essenziali, ad affermazioni come sospese, senza passaggi né chiaroscuri, del sentimento primo che l'ha generata.
Poesia scarna e immediata, dove l'immagine, colta isolatamente, si affida tutta al tono della voce assorta che la pronuncia. Ma in cui, più che l'immagine, più che il verso, l'organismo costitutivo, la cellula elementare è la parola. Ciò spiega come la trama della composizione così spesso s'allenti e si diradi, mentre l'espressione, l'effetto, tendono a raccogliersi nella parola singola, musicalmente insistita nelle sue sillabe; e come gli elementi strutturali guadagnino dalla imprecisione in cui il poeta li lascia, quasi arcate mozze, slanciati frammenti d'aeree architetture.
Si può osservare che l'altezza tonale cui questa ispirazione pretende, ed effettivamente tocca nelle sue più riuscite espressioni, ha talora il suo aspetto negativo in una certa tensione inarticolata, quando le parole, in luogo di nascere dallo stesso gesto poetico, vi appaiono successivamente apposte, quasi destinate a riempire uno spazio, un ritmo vuoto...

Ogni poesia, d'altronde, superata la fase «innocente» della sua immediatezza giovanile, lascia individuare il suo pericolo specifico, la sua possibile cifra retorica. Ma il poeta è il solo a cui non sia consentito vivere di rendita. La salute, per l'artista, consiste tutta nel saper continuamente sommuovere l'inerzia della «cifra», della espressione approssimativa, del luogo comune «originale», nel riprendere continuamente le forze a contatto con la terra selvaggia dell'ispirazione anteriore ad ogni agglomerazione formale precostituita. Forse in ciò consiste, oltre che nell'anelito, che abbiamo indicato come un tema essenziale di questa poesia, ad un ideale «luogo» di primitività incorrotta, mito insieme di vita e di cultura, la ragione profonda che ha sospinto Quasimodo all'esperienza dei lirici greci, da cui ha tratto quei saggi di traduzione che hanno giustamente meravigliato per la loro freschezza, veramente di antiche voci restituite, oltre ogni neoclassicismo, a una intatta, stillante contemporaneità.

Le ultime liriche di Quasimodo risentono alcunché di quella purissima lezione, nell'unico senso in cui una lezione può essere giovevole; e lo è soltanto quando essa ci aiuta a trarre in luce temi e inclinazioni profondamente impliciti nella nostra natura, e parallelamente a scartare le formazioni «passive» che sogliono insidiare la poesia al punto della sua compiuta maturità. Le traduzioni dei lirici greci, tra le quali si possono annoverare alcune tra le belle poesie di Quasimodo, ci aiutano peraltro ad intendere anche i valori più alti e genuini della sua lirica precedente, dove, come in Vento a Tindari, l'Anapo, Insonnia, Sardegna e in molte altre, l'accento del poeta più si libera e si fa leggero, e le immagini tendono ad una sorta d'«aerea plasticità», come l'ha definita il Anceschi, dove la materia si fa tutta traslucida e musicale: e meglio s'intende il perché di tanta rarefazione e scavo, destinati a trarre in luce il miracolo d'una parola vergine, pronunciata per la prima volta dal sentimento profondo.

Sergio Solmi

© 2009 - Luigi De Bellis