IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

HOME PAGE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


CRITICA: IL NOVECENTO

VITTORINI DALLA RETORICA ALLA POESIA

 

 

Elio Vittorini nei suoi lavori più riusciti (Erica e i suoi fratelli, Conversazione in Sicilia, Il Sempione strizza l'occhio al Frejus) ha creato lo stile moderno della parola «uomo»: e ha adempiuto alle due condizioni necessarie di sgonfiare, cosa naturale del resto, questa parola di tutta la retorica e il romanticismo, e di farla esattamente coincidere con il suo contenuto; e pure con un intento ben più sottile, di conservare alla parola il suo significato più elementare di qualità umana, di realtà umana pura e irrefutabile, di fatto originale che nessuna soprastruttura psicologica e filosofica è riuscita a modificare e alterare. Vittorini sotto questo punto di vista appare senza discussioni un classico dell'uomo, che lo si compari a Malraux, un altro grande consumatore della parola «uomo», ma mai nel suo senso primitivo; o agli altri scrittori della rivolta, ingombrati ciascuno da un'ideologia diversa...

Ed ecco in Conversazione in Sicilia, la grande «fuga» sulla parola «uomo», composta delle voci alternate dell'uomo Ezechiele, dell'uomo Porfirio, dell'affilatore di coltelli, dello gnomo Colombo, dell'oste e infine dell'io narratore, figlio di un ferroviere che recitava in certami locali in Sicilia delle tirate dall'Amleto. Essi bevono sotto la volta cupa dello gnomo Colombo, là dove «non vi era che il vino ignudo attraverso i secoli, e uomini ignudi in tutto il passato del vino» essi bevono, immersi nudi «nella matrice di nudità del vino». «Ma io, dice il narratore, io non potevo berlo; per tutto il passato umano in me sentivo che non era cosa viva spremuta dall'estate e dalla terra, ma triste, triste cosa fantasma spremuta dalle caverne dei secoli. E che altro poteva essere in un mondo sempre offeso? Generazioni e generazioni avevano bevuto, avevano versato il loro dolore nel vino, cercato nel vino la nudità, e una generazione beveva l'altra, dalla nudità di squallido vino dell'altre passate e da tutto il dolore versato». E mentre l'io meditava sulla sorte; l'uomo Porfirio, «che era stato Polonio davanti a mio padre shakesperiano», si era isolato «in sovrannaturale rapporto con lo gnomo Colombo»: «Non guardò più nessuno, e la sua faccia fu ridente, non vide altro, dinanzi a sé che l'ignuda felicità, da gnomo del vino, di Colombo. E giacque nella matrice del vino, e fu ignudo in beato sonno, seppure all'impiedi, fu il ridente addormentato antico che dorme attraverso i secoli dell'uomo, padre Noè del vino». L'idea dell'uomo afferrata nella sua più estrema nudità, questo è il significato del mito del vino in Vittorini. Accolto dalle declamazioni moraleggianti che la loro ebbrezza ispira ai personaggi di Gorki, ecco l'assoluto che emerge dal fondo dell'uomo vittoriniano nella sua ebbrezza. C'è tra Satine e Porfirio la stessa distanza, lo stesso abisso che esiste tra l'Aimery di Victor Hugo, quando proclama in un tono solenne: «E tutto il grande cielo blu non empirebbe il mio cuore» , e la Fedra di Racine, che dice semplicemente, con una semplicità di evidenza e d'assoluto: «Il giorno non è più puro nel fondo del mio cuore». Se si potesse riunire una famiglia raciniana di scrittori, ossessionati dalla luce pura e lacerante di un cielo primitivo dell'uomo, si potrebbe includere Vittorini nel numero. Tutta questa ammirabile Conversazione in Sicilia è solcata da simboli che annunciano la prossima resurrezione della purezza originale; sin dall'inizio, l'io narratore, ritto sul ponte della nave che lo conduce in Sicilia, si inebria mangiando formaggio nell'aria pungente e sentendone in bocca «tra il pane e l'aria forte, il sapore bianco e purastro, e antico, coi grani di pepe come improvvisi crani di fuoco nel boccone». L'immagine del fuoco riappare, spagnoleggiante, ardente e rossa (la prima parte della Conversazione è stata scritta subito dopo i massacri della guerra spagnola), quando la madre dell'io, un'umile paesana siciliana, avvolta in uno scialle rosso, prende coscienza della morte dei suoi figli soldati, e si veste «il viso rosso fuoco e fiamma, lo scialle sulle spalle». A fianco del colore, i suoni, non meno acuti e brucianti, «questo pianto interno, come uno zufolo», che ha spinto lo scrittore a intraprendere il suo viaggio in Sicilia, o questa musica di cornamusa, leit-motiv del viaggio. Poi ecco i simboli dell'arrotino, che cerca dappertutto spade e cannoni da affilare, denti o unghie «forbici, punteruoli, coltelli, picche e archibugi; mortai, falci e martelli; cannoni, cannoni, dinamite» da rendere affilati e rigeneratori del mondo; e infine il simbolo dei simboli, idea dell'uomo Porfirio, l'acqua viva, che sola può «lavare le offese del mondo e disalterare il genere umano offeso». Il fuoco, lo zufolo, le lame delle spade e dei coltelli, l'acqua viva: tutto ciò che brucia, trafigge, morde, tutto ciò che mette allo scoperto la nudità elementare dell'uomo, l'assoluto dell'uomo, la sola parte che conta in lui, la sola parte di cui la cultura moderna ha da rendere conto, la parte povera e vera, che è stata riportata alla luce, per una corrispondenza simbolica, giustamente, in un paese povero, e teso, obbligato dalla sua povertà, verso un'esigenza di verità immediata ed essenziale. Da notare che questo bisogno di spogliare l'uomo delle soprastrutture costruite dalla cultura borghese non appartiene esclusivamente alla giovane letteratura italiana; esso ha guidato per esempio la ricerca di un Brecht. Ma a differenza di un Brecht, che ha negato con accanimento polemico la dimensione soprannaturale dell'uomo ridotto così alla sua espressione primitiva, alla sua pura necessità di essere umano, la grandezza della giovane letteratura italiana è di aver sbarazzato l'uomo delle sue false espressioni, frivole o gratuite, ma per rendergli, giustamente, la sua dignità metafisica assoluta.

La sete dell'assoluto prorompe splendidamente ne Il Sempione strizza l'occhio al Frejus, questo capolavoro di un'accezione più difficile di Conversazione. Una famiglia povera, poverissima, che vive in una casupola alla periferia milanese aperta su dei boschi incolti, insegna ai bambini a compiere i gesti simbolici e a mangiare la minestra col cucchiaio e a tagliare la carne colla forchetta e il coltello (ah! il minuetto dei bambini alle prese con un pollo immaginario) davanti a un piatto vuoto, nel caso un giorno essi abbiano davvero una zuppa da mangiare, della carne da tagliare, al posto della rituale cicoria bollita, la quale è al tempo stesso preludio, parte di mezzo e finale del pasto. A capotavola troneggia, immobile e silenzioso, un avo incredibile, enorme e favoloso, un nonno elefante che ha traforato nella sua giovinezza il Frejus e il Sempione, e, chissà?, costruito il Colosseo, la Muraglia della Cina e le Piramidi. Un giorno un operaio, occupato a rifare la strada, oltrepassa, il viso nero di bitume, la soglia della casa aperta, s'installa alla tavola comune, e leva dalla tasca interna della giacca un pacchetto minuscolo che poi disfa, e dentro c'è un'unica acciuga, il suo odore fa svenire tutta la famiglia e persino palpitare le narici del nonno elefante. Tra Muso-di-Fumo, l'uomo con l'acciuga, e il resto della famiglia si inizia una conversazione prodigiosa, in presenza del nonno, sempre silenzioso, immobile e sordo, ma perno segreto di tutta la scena. Muso di-Fumo comincia a parlare di sé e del senso della vita, in mezzo a questi uomini e queste donne che l'ascoltano, lui l'uomo dell'acciuga quotidiana, loro la famiglia della cicoria quotidiana; ed egli è u lieto di essere ancora un momento l'uomo che aveva avuto tanta voglia d'essere, una volta nella vita, a parlare di sé, con ascoltatori intorno, tenendo loro un discorso pieno di cose della loro storia». Questo discorso su se stesso, che l'uomo, abituato alla solitudine, tiene per la prima volta nella sua vita, ha, indipendentemente dal suo contenuto, un significato mirabile: esso segna la riabilitazione del se stesso, spoglio di ogni egoismo e rivestito di una grandezza corale, universale. Il sentimento dell'io non è più qui una usurpazione di quello che è dovuto agli altri, ma associa gli altri in una coscienza superiore, la coscienza del destino e della pena di tutti gli uomini. Ritrovare e celebrare un io non egoista, questo è uno dei fini della nuova cultura.

Muso-di-Fumo spiega che durante la sua intera esistenza ha cercato su uno zufolo di canna un certo motivo musicale, per incantare - chi? gli vien chiesto; egli non sa rispondere; forse se stesso? forse gli elefanti? ha forse egli cercato per tutta la vita un motivo per incantare proprio questo nonno elefante, che egli ha conosciuto solo oggi, e per caso? In ogni modo, ora che ha trovato il suo motivo, quel qualcosa che era in lui, egli è contento, e potrebbe morire contento. «Quando abbiamo trovato il poco che potevamo trovare, allora la vita è finita» . Sì, Muso-di-Fumo ha trovato il suo proprio essere, insieme universale e individuale, il nocciolo del suo essere, e la vita umana consiste in questo e niente più: e nessuna psicologia, nessuna costruzione dell'intelletto conta più dopo la scoperta di questo nocciolo: allora solo la morte può accadere. Ma la madre di famiglia, la principale interlocutrice di Muso-di-Fumo, non l'intende così: ossessionata dal fatto che il nonno elefante, che non lavora più da non si sa quanti anni, mangia un chilo e mezzo di pane al giorno e impedisce al resto della famiglia di mangiare della vera minestra e di tagliare della vera carne, tormentata dall'idea di recuperare il denaro di quel chilo e mezzo di pane, vuol far dire a Muso-di-Fumo quello che egli non ha mai detto: «Che un uomo abbia lavorato fino all'ultimo, e che quando finisce di lavorare, abbia finito anche di vivere. - Io non ho detto questo!» esclama l'uomo dallo zufolo; e in effetti quello che ha detto, e che Vittorini ci dice, è che solo la ricerca del nocciolo intimo dell'essere è importante; che il lavoro, in proporzione, conta molto meno. Può anche succedere che questa ricerca sia perfettamente gratuita, come quella di un certo motivo su uno zufolo di canna. La madre di famiglia vorrebbe far trionfare il principio: capacità di lavoro uguale diritto alla vita, mentre l'uomo vittoriniano ci rammenta che la verità è altrove, e che solo la ricerca scarnificata e disinteressata del nocciolo interiore giustifica la vita e le dà significato. Al principio pragmatico difeso dalla madre di famiglia si contrappone il principio metafisico, difeso dall'uomo dello zufolo. La nuova concezione dell'uomo, secondo Vittorini, non potrebbe essere riducibile ad una ideologia puramente utilitaria del lavoro; essa contiene cielo e terra, acciuga e zufolo, musica e filosofia, morte e assoluto.

Dominique Fernandez

© 2009 - Luigi De Bellis