VITTORINI DALLA RETORICA ALLA
POESIA
Elio Vittorini nei suoi lavori
più riusciti (Erica e i suoi
fratelli, Conversazione in
Sicilia, Il Sempione strizza
l'occhio al Frejus) ha creato lo
stile moderno della parola
«uomo»: e ha adempiuto alle due
condizioni necessarie di
sgonfiare, cosa naturale del
resto, questa parola di tutta la
retorica e il romanticismo, e di
farla esattamente coincidere con
il suo contenuto; e pure con un
intento ben più sottile, di
conservare alla parola il suo
significato più elementare di
qualità umana, di realtà umana
pura e irrefutabile, di fatto
originale che nessuna
soprastruttura psicologica e
filosofica è riuscita a
modificare e alterare. Vittorini
sotto questo punto di vista
appare senza discussioni un
classico dell'uomo, che lo si
compari a Malraux, un altro
grande consumatore della parola
«uomo», ma mai nel suo senso
primitivo; o agli altri
scrittori della rivolta,
ingombrati ciascuno da
un'ideologia diversa...
Ed ecco in Conversazione in
Sicilia, la grande «fuga» sulla
parola «uomo», composta delle
voci alternate dell'uomo
Ezechiele, dell'uomo Porfirio,
dell'affilatore di coltelli,
dello gnomo Colombo, dell'oste e
infine dell'io narratore, figlio
di un ferroviere che recitava in
certami locali in Sicilia delle
tirate dall'Amleto. Essi bevono
sotto la volta cupa dello gnomo
Colombo, là dove «non vi era che
il vino ignudo attraverso i
secoli, e uomini ignudi in tutto
il passato del vino» essi bevono,
immersi nudi «nella matrice di
nudità del vino». «Ma io, dice
il narratore, io non potevo
berlo; per tutto il passato
umano in me sentivo che non era
cosa viva spremuta dall'estate e
dalla terra, ma triste, triste
cosa fantasma spremuta dalle
caverne dei secoli. E che altro
poteva essere in un mondo sempre
offeso? Generazioni e
generazioni avevano bevuto,
avevano versato il loro dolore
nel vino, cercato nel vino la
nudità, e una generazione beveva
l'altra, dalla nudità di
squallido vino dell'altre
passate e da tutto il dolore
versato». E mentre l'io meditava
sulla sorte; l'uomo Porfirio,
«che era stato Polonio davanti a
mio padre shakesperiano», si era
isolato «in sovrannaturale
rapporto con lo gnomo Colombo»:
«Non guardò più nessuno, e la
sua faccia fu ridente, non vide
altro, dinanzi a sé che l'ignuda
felicità, da gnomo del vino, di
Colombo. E giacque nella matrice
del vino, e fu ignudo in beato
sonno, seppure all'impiedi, fu
il ridente addormentato antico
che dorme attraverso i secoli
dell'uomo, padre Noè del vino».
L'idea dell'uomo afferrata nella
sua più estrema nudità, questo è
il significato del mito del vino
in Vittorini. Accolto dalle
declamazioni moraleggianti che
la loro ebbrezza ispira ai
personaggi di Gorki, ecco
l'assoluto che emerge dal fondo
dell'uomo vittoriniano nella sua
ebbrezza. C'è tra Satine e
Porfirio la stessa distanza, lo
stesso abisso che esiste tra l'Aimery
di Victor Hugo, quando proclama
in un tono solenne: «E tutto il
grande cielo blu non empirebbe
il mio cuore» , e la Fedra di
Racine, che dice semplicemente,
con una semplicità di evidenza e
d'assoluto: «Il giorno non è più
puro nel fondo del mio cuore».
Se si potesse riunire una
famiglia raciniana di scrittori,
ossessionati dalla luce pura e
lacerante di un cielo primitivo
dell'uomo, si potrebbe includere
Vittorini nel numero. Tutta
questa ammirabile Conversazione
in Sicilia è solcata da simboli
che annunciano la prossima
resurrezione della purezza
originale; sin dall'inizio, l'io
narratore, ritto sul ponte della
nave che lo conduce in Sicilia,
si inebria mangiando formaggio
nell'aria pungente e sentendone
in bocca «tra il pane e l'aria
forte, il sapore bianco e
purastro, e antico, coi grani di
pepe come improvvisi crani di
fuoco nel boccone». L'immagine
del fuoco riappare,
spagnoleggiante, ardente e rossa
(la prima parte della
Conversazione è stata scritta
subito dopo i massacri della
guerra spagnola), quando la
madre dell'io, un'umile paesana
siciliana, avvolta in uno
scialle rosso, prende coscienza
della morte dei suoi figli
soldati, e si veste «il viso
rosso fuoco e fiamma, lo scialle
sulle spalle». A fianco del
colore, i suoni, non meno acuti
e brucianti, «questo pianto
interno, come uno zufolo», che
ha spinto lo scrittore a
intraprendere il suo viaggio in
Sicilia, o questa musica di
cornamusa, leit-motiv del
viaggio. Poi ecco i simboli
dell'arrotino, che cerca
dappertutto spade e cannoni da
affilare, denti o unghie
«forbici, punteruoli, coltelli,
picche e archibugi; mortai,
falci e martelli; cannoni,
cannoni, dinamite» da rendere
affilati e rigeneratori del
mondo; e infine il simbolo dei
simboli, idea dell'uomo
Porfirio, l'acqua viva, che sola
può «lavare le offese del mondo
e disalterare il genere umano
offeso». Il fuoco, lo zufolo, le
lame delle spade e dei coltelli,
l'acqua viva: tutto ciò che
brucia, trafigge, morde, tutto
ciò che mette allo scoperto la
nudità elementare dell'uomo,
l'assoluto dell'uomo, la sola
parte che conta in lui, la sola
parte di cui la cultura moderna
ha da rendere conto, la parte
povera e vera, che è stata
riportata alla luce, per una
corrispondenza simbolica,
giustamente, in un paese povero,
e teso, obbligato dalla sua
povertà, verso un'esigenza di
verità immediata ed essenziale.
Da notare che questo bisogno di
spogliare l'uomo delle
soprastrutture costruite dalla
cultura borghese non appartiene
esclusivamente alla giovane
letteratura italiana; esso ha
guidato per esempio la ricerca
di un Brecht. Ma a differenza di
un Brecht, che ha negato con
accanimento polemico la
dimensione soprannaturale
dell'uomo ridotto così alla sua
espressione primitiva, alla sua
pura necessità di essere umano,
la grandezza della giovane
letteratura italiana è di aver
sbarazzato l'uomo delle sue
false espressioni, frivole o
gratuite, ma per rendergli,
giustamente, la sua dignità
metafisica assoluta.
La sete dell'assoluto prorompe
splendidamente ne Il Sempione
strizza l'occhio al Frejus,
questo capolavoro di
un'accezione più difficile di
Conversazione. Una famiglia
povera, poverissima, che vive in
una casupola alla periferia
milanese aperta su dei boschi
incolti, insegna ai bambini a
compiere i gesti simbolici e a
mangiare la minestra col
cucchiaio e a tagliare la carne
colla forchetta e il coltello
(ah! il minuetto dei bambini
alle prese con un pollo
immaginario) davanti a un piatto
vuoto, nel caso un giorno essi
abbiano davvero una zuppa da
mangiare, della carne da
tagliare, al posto della rituale
cicoria bollita, la quale è al
tempo stesso preludio, parte di
mezzo e finale del pasto. A
capotavola troneggia, immobile e
silenzioso, un avo incredibile,
enorme e favoloso, un nonno
elefante che ha traforato nella
sua giovinezza il Frejus e il
Sempione, e, chissà?, costruito
il Colosseo, la Muraglia della
Cina e le Piramidi. Un giorno un
operaio, occupato a rifare la
strada, oltrepassa, il viso nero
di bitume, la soglia della casa
aperta, s'installa alla tavola
comune, e leva dalla tasca
interna della giacca un
pacchetto minuscolo che poi
disfa, e dentro c'è un'unica
acciuga, il suo odore fa svenire
tutta la famiglia e persino
palpitare le narici del nonno
elefante. Tra Muso-di-Fumo,
l'uomo con l'acciuga, e il resto
della famiglia si inizia una
conversazione prodigiosa, in
presenza del nonno, sempre
silenzioso, immobile e sordo, ma
perno segreto di tutta la scena.
Muso di-Fumo comincia a parlare
di sé e del senso della vita, in
mezzo a questi uomini e queste
donne che l'ascoltano, lui
l'uomo dell'acciuga quotidiana,
loro la famiglia della cicoria
quotidiana; ed egli è u lieto di
essere ancora un momento l'uomo
che aveva avuto tanta voglia
d'essere, una volta nella vita,
a parlare di sé, con ascoltatori
intorno, tenendo loro un
discorso pieno di cose della
loro storia». Questo discorso su
se stesso, che l'uomo, abituato
alla solitudine, tiene per la
prima volta nella sua vita, ha,
indipendentemente dal suo
contenuto, un significato
mirabile: esso segna la
riabilitazione del se stesso,
spoglio di ogni egoismo e
rivestito di una grandezza
corale, universale. Il
sentimento dell'io non è più qui
una usurpazione di quello che è
dovuto agli altri, ma associa
gli altri in una coscienza
superiore, la coscienza del
destino e della pena di tutti
gli uomini. Ritrovare e
celebrare un io non egoista,
questo è uno dei fini della
nuova cultura.
Muso-di-Fumo spiega che durante
la sua intera esistenza ha
cercato su uno zufolo di canna
un certo motivo musicale, per
incantare - chi? gli vien
chiesto; egli non sa rispondere;
forse se stesso? forse gli
elefanti? ha forse egli cercato
per tutta la vita un motivo per
incantare proprio questo nonno
elefante, che egli ha conosciuto
solo oggi, e per caso? In ogni
modo, ora che ha trovato il suo
motivo, quel qualcosa che era in
lui, egli è contento, e potrebbe
morire contento. «Quando abbiamo
trovato il poco che potevamo
trovare, allora la vita è
finita» . Sì, Muso-di-Fumo ha
trovato il suo proprio essere,
insieme universale e
individuale, il nocciolo del suo
essere, e la vita umana consiste
in questo e niente più: e
nessuna psicologia, nessuna
costruzione dell'intelletto
conta più dopo la scoperta di
questo nocciolo: allora solo la
morte può accadere. Ma la madre
di famiglia, la principale
interlocutrice di Muso-di-Fumo,
non l'intende così: ossessionata
dal fatto che il nonno elefante,
che non lavora più da non si sa
quanti anni, mangia un chilo e
mezzo di pane al giorno e
impedisce al resto della
famiglia di mangiare della vera
minestra e di tagliare della
vera carne, tormentata dall'idea
di recuperare il denaro di quel
chilo e mezzo di pane, vuol far
dire a Muso-di-Fumo quello che
egli non ha mai detto: «Che un
uomo abbia lavorato fino
all'ultimo, e che quando finisce
di lavorare, abbia finito anche
di vivere. - Io non ho detto
questo!» esclama l'uomo dallo
zufolo; e in effetti quello che
ha detto, e che Vittorini ci
dice, è che solo la ricerca del
nocciolo intimo dell'essere è
importante; che il lavoro, in
proporzione, conta molto meno.
Può anche succedere che questa
ricerca sia perfettamente
gratuita, come quella di un
certo motivo su uno zufolo di
canna. La madre di famiglia
vorrebbe far trionfare il
principio: capacità di lavoro
uguale diritto alla vita, mentre
l'uomo vittoriniano ci rammenta
che la verità è altrove, e che
solo la ricerca scarnificata e
disinteressata del nocciolo
interiore giustifica la vita e
le dà significato. Al principio
pragmatico difeso dalla madre di
famiglia si contrappone il
principio metafisico, difeso
dall'uomo dello zufolo. La nuova
concezione dell'uomo, secondo
Vittorini, non potrebbe essere
riducibile ad una ideologia
puramente utilitaria del lavoro;
essa contiene cielo e terra,
acciuga e zufolo, musica e
filosofia, morte e assoluto.