LO SVOLGIMENTO DI C.E.GADDA
Gadda oscilla fra il racconto e
il saggio, e specialmente
all'inizio, fra il
racconto-bozzetto degli
Scapigliati e il saggio che
viene a trovarsi fra gli
illustri esempi di Baldini,
Cecchi ecc. E questa
oscillazione non è una
esitazione culturale, ma
l'effetto di una ispirazione
costruttiva a scatti,
sussultoria, che obbiettiva il
personaggio, ma non lo svolge
che a tratti e sulla cadenza di
una intima reazione alle vicende
e alla realtà. Se, a parte il
risultato che essa consegue, va
notata inizialmente questa forza
istintiva come elemento costante
della sua personalità, il primo
libro La Madonna dei filosofi
(1931) ci indicò un tono
complessivamente raggiunto, ma
tenue, quasi più aggraziato o
calligrafico che poteva
ingannare sulla coraggiosa e
ostinata durezza delle prove
successive. La furia di
sperimentare, di provarsi in
tentativi anche tecnici, che può
presentare l'opera complessiva
di Gadda come la singolare
espressione di un risentimento
personale e insieme come opera
di artista che sforza la sua
materia, tenta in un infinito
esperimento di raggiungere
l'arte; è più velata, nella
Madonna da una grazia di
saggista e di umorista che si
raggiunge e si adegua nel suo
pezzo non senza bravura. Perfino
la sua milanesità che colpiva
come elemento vistoso è più
episodica, pittoresca,
bozzettistica.
Nella Madonna la sua pagina è
veramente più facile, meno
risentita e quindi anche
esteriormente più fusa, più
scorrevole, più amabile. Così il
racconto, l'ultimo pezzo del
volume, è discorsivo, divagato,
incapace di dar una forte vita
ai pupazzi che perciò somigliano
a personaggi sbiaditi e un po'
caricaturali di qualsiasi
romanzo, intorno al personaggio
chiave del sentimento gaddiano,
la giovane donna incantata dalla
morte del fidanzato, riscossa
alla vita dal precipitoso
finale. Tutto è come velato, e
la vivacità dello stile, assai
disuguale, è diluita in battute
che sembrano quasi i primi
scoppi di un motore non ancora
acceso...
È nel secondo libro, Il Castello
di Udine, che la fisionomia di
Gadda si precisa con maggior
vigore e che, mentre si accentua
la sua originalità espressiva
oltre i tentativi precedenti, il
suo temperamento fa un'irruzione
più decisa, travolgendo i
pericoli calligrafici insiti in
pezzi di divertimento che nel
primo libro abbondavano, e
comparendo in una esperienza
essenziale della vita, al centro
dunque della sua natura reattiva
e risentita. L'esperienza della
guerra che affiorava già qua e
là nelle Manovre, perfino con
astratta intensità («Oh madri!
Sogni delle notti più tetre
questo sole vi supera, ecc.») e
che risulta l'incisione più
profonda nella psiche di Gadda,
quasi rivelazione maturata sotto
le prime espressioni; esplode e
forma poi la base più sicura dei
successivi contatti col mondo.
Il castello di Udine: e con
questo nome intendiamo
senz'altro proprio quella
sessantina scarsa di pagine che
trovano il loro centro nella
evocazione lirica del sischiel,
del motivo che accompagna visivo
e musicale la guerra sul fronte
giulio ad un uomo che vi ha
dischiuso la sua vita più seria:
la prova più riuscita e più
fallita delle proprie forze,
delle proprie idee. Unitarie al
massimo grado, tanto da apparire
come svolgimento di una
rimembranza non episodica, non
segnata da tappe pittoresche,
queste pagine risuonano di un
impeto convulso, di una polemica
sanguigna non precedente ai
fatti, ma necessaria e assoluta.
L'urto di un temperamento serio,
impegnativo con la realtà in un
suo momento di eccezione, di
approfondimento e di esaltazione
insieme: la guerra per Gadda è
una fuga violenta dalla
mediocrità (donde il suo reagire
all'antimilitarismo, alle
rinunce con lo stato d'animo
esasperato del reduce e
dell'amante del concreto contro
le formule vaghe) e insieme la
realtà stessa che vi si presenta
nella sua massima violenza di
sofferenze, di passioni, di
ottusa resistenza, fuori dei
segni positivi o negativi di
Dorgelès o Remarque, e più,
sotto il segno di ciò che
chiamerà poi «la cognizione del
dolore». L'arte di Gadda si fa
così più unita e i suoi elementi
apparentemente eterogenei,
rivelano la loro origine quasi
spasmodica da una prima parola
senza equivoci. Parola che anche
nella pietà ed autopietà («la
stanchezza mi vinse, il cuore
non tirava più: e l'anima era un
regolamento scaduto») dà un
suono vibrato che permette anche
all'humour, di mescolarsi, senza
la minima stonatura, in rapida
sintesi, a moti accorati o
polemici. «Il guaio vero è stato
che l' "Alt!" della sandalina
(del barbiere di Caporetto) non
fece nessuna impressione a von
Below, il quale arrivò invece da
S. Lucia». Anche l'unica
parentesi idillica che precede
la tetra Imagine di Calvi, non
sfugge alla spinta originale che
ravviva l'idillio di punte e di
figurine più mordenti che
carezzate. Qui lo stesso
intervento, del resto assai
sobrio, della cultura con la
forza dell'immediatezza, risente
della volontà di trasferire
tutto su piani non mediocremente
risolutivi e praticamente
sentimentali, popolareschi. Come
la ricchezza di attributi
preposti è indice di una
esaltazione, di un geniale
nervosismo di fronte alle cose
che non appaiono nella calma e
pittoresca oggettivazione dei
classici, sotto il loro sguardo
lungo e pacato. Tutto scatta e
non per risultare gustoso,
funambolesco, ma tragico,
aderente al motivo di esperienza
sdegnata.
Invece negli altri pezzi del
volume (1934) ritorna più il
Gadda attento ai risultati
stilistici, ai suoi esperimenti
di scrittore, di saggista che
può arrivare in certi momenti al
taglio di incisiva intelligenza
di Cecchi .e perfino alla fluida
bonarietà di Baldini. La
polemica o resta ammorbidita o
urge pratica come nel finale di
S. Pietro in Montorio, ma non ha
la vitalità organica e
unificatrice del Castello.
Anche Le Meraviglie d'Italia
(1939) sono saggi che non
tendono ad unità di disegno
narrativo e che in gran parte
accentuano quel gusto
tecnicistico di descrizioni i
cui limiti fantastici vengono
originalmente ridotti da un
impegno alle cose nelle loro
misure, nel loro significato più
metallico e strutturale...
Questo uso del tecnicismo
significa un approfondimento
nelle stesse qualità dello
scrittore, una rinuncia agli
effetti più facili di una
eccitazione di superficie, di
una resa umoristica e perfino di
una immediata espressione dello
sdegno della esperienza. E ci
sono così nuovi apporti al
linguaggio, nuove possibilità di
articolazione del linguaggio,
che si vuol fare sempre più
concreto e magari legnoso, ma
non pittoresco, che vuol
assumere ogni esperienza senza
faciloneria: come quella
sudamericana che frutterà più
poeticamente nella Cognizione. E
alla Cognizione così carica di
interiore conoscenza e di
complessi nervosi nella figura
di Gonzalo, sembra preludere per
ricchezza di significati il
pezzo più sottile e rivelatore
delle Meraviglie: Una tigre nel
parco, un pezzo in cui Gadda ha
trovato un raccordo poetico con
il se stesso più istintivo, con
l'infanzia, un approfondimento
dei moti dell'animo, del suo
risentimento vitale già in una
zona pre-psicologica, in un
fondo fresco donde i suoi umori
sembrano già nascere poetici e
necessari: «I miei sensi, già
avidi di cognizione, pativano,
tra i fili alti dell'erba,
l'arrembaggio notturno della
paura» .
La Cognizione del dolore (mi
riferisco ai 7 tratti pubblicati
dal '38 al '4I in Letteratura)
segna, dopo le prove delle
Meraviglie, un tentativo di
oggettivazione violenta della
situazione umana nell'esperienza
gaddiana, esplosione del nuovo
epos (dopo quello del Castello),
non immediatamente legato a
ricordi e ad avvenimenti
rivelatamente personali, ma in
trascrizioni più profonde ed
oggettive. Sì, le esperienze
precedenti si continuano e le
ricerche di nuovi toni si
moltiplicano, il ritmo si
accentua e il tecnicismo si
innervosisce e serve come
possibilità lessicale ad
accelerare ed arricchire di
nodi, di punte dure questa prosa
torrenziale e sussultoria, e la
battuta si inasprisce e si
scioglie in dialoghi lunghi,
quasi in un discorso continuo
senza pause, senza dolcezze, ma
tanto più ricco di tanta
melliflua prosa pittoresca. Il
ritmo prevale e il brio,
l'humour lo servono sempre più
senza soluzioni particolari da
varietà, come sempre più
l'esperienza (la cognizione del
dolore) si trasporta in
profondo; l'urto e la passione
si fanno sempre più potenti e
legati quanto più si distaccano
dalla loro apparenza più
autobiografica (anche la guerra
riappare fondamentale, ma
spaziata come ricordo, come
tragico sfondo lontano,
misteriosamente presente). Il
risultato poetico, per quanto
non concluso da un racconto nel
senso più noto della parola, non
vive isolato come nei saggi
delle Meraviglie, ma entra in
un'atmosfera, in un disegno.
Gadda, si direbbe, qui lavora di
affresco e i suoi «tratti» hanno
una loro grandiosa continuità:
un respiro che supera la pagina
per quanto fitta, una voce di
umanità, più convulsa nelle
macchiette e nei personaggi
secondari (Pedro, il
commerciante ambulante, il
medico, il peone, ecc.) che si
agitano stimolati anche da
eterogenei, elementi dialettali
su bizzarri accenni di un fondo
sudamericano, più tragica
nell'ombra della madre e nella
figura di Gonzalo che riassume
con i suoi crucci, il suo
misantropismo di maniaca e
virile solitudine, i motivi di
un personaggio ideale apparsi
nelle opere precedenti.
Il ritmo prevale, abbiam detto,
come d'altra parte la pagina si
infittisce, si carica di
notazioni essenziali pur
prestandosi a quella specie di
novelle più spianate come quella
di Pedro, finto sordo,
all'ospedale militare.
L'elemento poetico è più serrato
senza divagazioni, si fa più
chiuso, più incapace di
espandersi in effetti di facile
nostalgia. «Ma che cosa era il
sole? Che cosa portava? sopra i
latrati del buio». La fantasia è
diventata più ossessiva, più
incupita, ma anche più capace di
un disegno, di una costruzione
vasta e dominata e il grottesco
si spinge verso un epico in cui
la lingua, al di sopra della
rozza organicità del dialetto e
della soluzione media italiana,
vibra sempre più libera e
controllata solamente dalla
sensibilità eccitata, dolorosa e
dal senso ritmico che presiedono
a questa urgenza espressiva. Lo
stimolo alla scrittura si fa
sempre più lirico («E le cicale,
popolo dell'immenso di fuori,
padrone della luce») e pure in
tanto fervore di immagini la
qualifica di barocco si rivela
del tutto esteriore perché qui
l'esaltazione lirica nasce
sempre da un urto, non da una
semplice sensualità immaginosa:
«inforcò la bicicletta e divallò
verso Lukones, con gomme
pizzicottate dai sassi, che gli
sparavan via da sotto le ruote,
come da tante fionde ridestate
nella terra».
Ci sembra così che la prosa di
Gadda con la Cognizione si sia
avanzata con notevole forza
oltre il gustoso, oltre il
praticamente polemico, verso
un'arte che sale da un
risentimento sempre meno
superficiale, e si svolge sotto
la condotta sempre più imperiosa
di un ritmo poetico.
Non cessano i pericoli della
pesantezza, della fatica
dell'immagine che si raggiunge
dentro la sua stessa ganga e
insomma di un cibo che spesso fa
groppo; ma per l'essenziale, una
volta capiti tali limiti
originari, la presenza di una
ispirazione più vasta e lirica
ci pare indizio di uno
svolgimento decisivo, di cui già
abbiamo una prova nell'ultimo
libro: che è uno dei documenti
più interessanti della
letteratura del nostro tempo.