IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

PIRANDELLO NARRATORE

 

 

Il romanzo L'esclusa fu scritto nel '93, per vari anni non trovò editore, finché lo accolse nelle sue appendici (fu il primo romanzo italiano che pubblicasse), la Tribuna di Roma. La stampa in volume è di qualche anno dopo, e porta una lettera dedicatoria a Luigi Capuana. Il nome del patrono e le date contano per qualche cosa; L'esclusa è un romanzo naturalista. L'azione è tutta tra una cittadella minore della Sicilia e Palermo; protagonista (l'esclusa) ne è una giovane sposa che, a torto sospettata e scacciata dal marito, torna ai suoi, e ne vengono via via a lei e alla sua famiglia, scandalo miseria e rovina. Invano la poveretta tenta di rifarsi una vita, di aiutar la famiglia sua, invano vince concorsi di maestra e ottiene d'insegnare. Poiché ella ha anche il torto di essere bella e intelligente, il mondo che già l'ha condannata e definita, non le perdona; o l'oltraggia con le sue profferte, o la respinge da sé, l'esclude. Nella triste cronaca di questa famiglia e di questa giovinezza in rovina, ricorron frequenti i motivi e le scene i tipi prediletti dell'arte naturalistica; nascite infauste e morti paurose, lunghe convalescenze e tetre agonie. E poi macchiette e tipi di maniaci, di buffi, di pazzi. In bei quadri d'insieme, in chiesa o a tutt'aria, la superstizione religiosa ancora una volta dà crudeltà e colore alle folle paesane. Quando però è a concludere, il romanzo sconfina dal naturalismo; diviene sarcastico, è già diremmo pirandelliano. Da tutti insidiata o respinta, l'Esclusa ha finito per commetter davvero, per disperazione, la colpa di cui la calunniavano; ecco che allora il marito pentito torna a lei, la riconosce innocente, la rivuole...

Un bel romanzo? Sarebbe forse dir troppo, benché belle scene e figure non manchino...; ma a quegli anni, che l'autore non toccava ancora i trenta, L'esclusa dovette, e a ragione, sembrar più che una promessa Così, con questo libro e con quelli che via via lo seguirono, il giovane Pirandello siciliano si trovò naturalmente cresciuto alla grande ombra del Verga, ed ebbe vicini Capuana, De Roberto, la prima Serao...: insomma quanti romanzieri, in quello scorcio di secolo, contò la scuola naturalista. Sana scuola, nonostante le aberrazioni; e che certo (oggi si vede) era meglio nell'arte, di tanti estetismi, simbolismi e malismi che vennero dopo.
Chi rimase fedele a quel credo? Capuana uscì dal naturalismo per la sua stessa acuta, dilettantesca curiosità di esperienze, De Roberto finì in uno psicologismo intellettuale di gusto francese, Matilde Serao si fece troppo presto mondana... Quanto a Pirandello, egli si affermò, e sempre più, umorista. Venne su su crescendo il suo gusto ironico, e non l'applicò tanto ai particolari, agli ornamenti, agli accessoria della vita, come allora e poi fu il costume di molti quasi-umoristi nostrani; ma colorì anzi del suo pessimismo logico e compiaciuto il centro della vita e dell'arte, ne investì col suo umor nero la sostanza. L'umorismo di Pirandello non spumeggia ai margini del racconto, si esprime tutto nell'invenzione, nel caso, nella trovata. Si direbbe che, sul suo tavolino, fin dal principio, ci sia stato qualche romanzo francese di meno, e qualche filosofo tedesco di più. Anche quel suo insistere in ambienti paesani o piccolo borghesi, quel costante ricorrere ai reietti e ai senza fortuna, insomma la sua fedeltà, se non più allo spirito, al repertorio naturalista, gli conferiscono sempre una serietà, un impegno che ai più degli umoristi mancava. Lo scrivere un po' sordo e quasi senza grazia, il lavorare fitto (ha scritto più novelle Pirandello da solo che il Boccaccio sommato al Bandello), mostravano che questo umorista aveva una pena vera da esprimere; in certi tratti sardonici o aspri, avreste detto una vendetta da prendersi.

Fu quella la bella stagione di Pirandello. Il romanzo Il fin Mattia Pascal e molti racconti e novelle che ai pruni del '900 possono riportarsi a quello, se segnano il momento felice dello scrittore: l'equilibrio, il compenso raggiunto tra la logica e la natura, tra la riflessione e l'arte. Culmina qui il primo Pirandello.
L'altro, quello che oggi è il più celebre, ritiratisi gli elementi naturalisti, scende legittimo per li rami concettosi e logici del primo. E qui s'innesta anche il teatro di Pirandello, con la sua concettosità prevalente e l'umanità soffocata. E già non è più arduo distinguere dove il dubbio, il tormento logico, insomma la dialettica dei personaggi diventa dolore e dove invece resta vacua; dove il dramma c'è e dove c'è soltanto un'esagitato discorso. Certo anche prima del teatro, Pirandello portava con sé il suo veleno. Scartate l'esperienza e la vita, troppo presto il suo pessimismo si esercitò a vuoto su sé stesso, per non dover finire in un'acredine nichilista; la sua logica, staccata dalla natura, dovette per forza cadere in sofistica. Questi i due tarli che rodono gran parte anche dell'opera recente. L'autore stesso sembra saperlo e soffrirne: da una dramma all'altro, quell'insistere per anni e anni in assunti o in situazioni simili o uguali (molte delle sue commedie sono facce appena diverse di una stessa persona, traduzioni appena variate di un solo capitolo) non sta ad accusare l'insoddisfazione dello scrittore accanitosi da ogni lato contro un bersaglio che sempre l'attrae e pure gli sfugge?
Si può aggiunger piuttosto che anche nel nuovo Pirandello le parti più vitali, più schiette e che sempre hanno non soltanto stupito ma commosso gli spettatori, sono quelle meglio riferibili al primo Pirandello tristemente ironico e naturalista. Non dove i suoi personaggi ragionano esillogizzano all'infinito e spaccano in quattro il solito capello; ma anzi dove si afflosciano, si abbattono, e tornano ad essere poveri diavoli, i piccoli borghesi, gli stentati professori del primo Pirandello. A quel punto, anche la troppa filosofia, la troppa logica rientrano dall'astrazione nell'umanità attraverso il dolore, la nausea che il personaggio prova per l'inumana violenza fatta a sé. Anche in arte, la salute si recupera a volte attraverso l'esasperazione del male.

Il libro Uno, nessuno e centomila, può forse considerarsi come il riassunto, il paradigma definitivo di questo secondo Pirandello. Romanzo? Gli elementi logici o sofistici hanno invaso e riempito di sé tutta la tela, lasciando sì e no al romanzo qualche margine. Per duecentoventicinque pagine, Vitangelo Moscarda racconta come fu che dall'aver lui dubitato, per un'osservazione della moglie, sulla dirittura del proprio naso, finì, di conseguenza in conseguenza, per dubitare di tutto e di tutti. Non c'è un Moscarda solo, ma tanti Moscarda quanti sono i momenti della sua vita; e non basta; poiché egli a ogni momento è diverso per ciascuno di quelli che lo pensano e lo vedono, i quali a loro volta, ecc. - i Moscarda sono dunque centomila; o diciamo (che è lo stesso) che non c'è più nessun Moscarda.
Voi dite che questa è la strada maestra del manicomio? E invece attraverso questi "abissi di riflessione" Moscarda approda in un contemplativo ospizio campestre, felice (assicura lui) "perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi". L'avventura di Moscarda sembra riassumere e potenziare tutti i casi clinici fin qui studiati da Pirandello.
Il lungo monologo in che consiste questo romanzo (ricco di scenici signori miei, belli miei, cari miei), sarebbe forse un mare sofistico non valicabile dal comune lettore, se per entro non vi si incontrasse qua e là, come un'isola di salvezza cui subito ci s'aggrappa, qualche personaggio che non è il monologante Moscarda e contro il quale, anzi, la logica di Moscarda va a infrangersi; Marco di Dio, Maria Rosa, il monsignor Vescovo di Richieri, tutte persone che restan fedeli alle tre dimensioni. Evviva la faccia loro! E che respiro a quei passi dove Moscarda smette un momento di ragionare e racconta un incontro, un caso davvero occorsogli o descrive la sua città al principio di primavera, o fa un ritratto di suo padre; o sale alla deserta badia di Richieri; e son belle pagine.

Pietro Pancrazi

© 2009 - Luigi De Bellis