IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

ASPETTI E NARRATIVA ITALIANA NEL DOPOGUERRA

 

 

Il non omogeneo panorama della narrativa italiana di questo secondo dopoguerra suggerisce subito l'idea che si siano venuti soprattutto maturando i motivi e le ragioni che furono già gli elementi compositivi più fermi della narrativa almeno del decennio antecedente alla guerra, tra Moravia e Vittorini, Pratolini e Gadda, tra spinte realistiche all'indagine storica, e perfin cronachistica, e ricerca di una mediazione espressiva della realtà nel gioco linguistico; ma quello che là appariva, pur tra vivi contrasti, una ricerca unica, forse perché al fondo recava una giustificazione unica, che era di protesta umana, morale e storica contro il fascismo, ora appare sparpagliato e distinto, talvolta anche vago e indeciso. L'obiettivo di una più intima intrusione nella realtà storica, una volontà di confondersi con essa e in essa ricercare le ragioni non solo del narrare, ma prima di tutto del vivere, perdura: ma proprio una distinzione prodottasi lentamente tra le ragioni del narrare e quelle del vivere, e di conseguenza un trattenersi piuttosto alla superficie dei fatti che penetrare nella loro struttura, pare che venga sempre più differenziando la validità di propositi dei narratori italiani di oggi.

Un bilancio della narrativa relativo a tutto questo secondo dopoguerra non può non sentire determinanti gli accumuli di sviluppi, o di nuove esperienze anche, di quei narratori più vecchi, come Bacchelli, più giovani, ma già con una significativa loro storia alle spalle, come Vittorini, Moravia, Alvaro e Gadda, e infine di scrittori come Pavese, Pratolini, Brancati che hanno dato i loro frutti migliori proprio in questo tempo. Ma vorremmo ora considerare solo una generazione più giovane, tutta iscritta, dai suoi tentativi alle sue compiute conquiste, in un tempo che sta fra la guerra e l'oggi, e che naturalmente sente profondamente l'esemplarità di certe esperienze passate e prossime, ma anche cerca una propria via talvolta con coraggio, talvolta con furore. Di conseguenza, per restringere il panorama a un discorso fatto legittimo anche da un orizzonte circoscritto, a parte i casi grossi per scalpore ma anche per interne ragioni, come quello del Tomasi di Lampedusa, sul quale bisognerà verificare certi entusiasmi e la loro attendibilità soprattutto in rapporto alla composizione del romanzo, e a parte anche certe nuove impostazioni narrative come quelle dei romanzi di Antonio Pizzuto, ci fermeremo per ora ad alcune considerazioni su due linee dell'attività narrativa italiana più recente; delle quali una si propone un accostamento alla realtà soprattutto attraverso le forme e le inflessioni espressive dei dialetti; l'altra, invece, si serve della lingua letteraria, magari attraverso una scarna cronaca di particolari. Ambedue mostrano un forte impegno di indagine sull'uomo e sulla società: se il rischio della seconda può consistere in una «letterarizzazione» eccessiva, quello della prima sta nel suo tecnicismo linguistico che arriva ad assorbire la stessa dimensione fantastica.

Alla prima si può dire appartengano scrittori come Pasolini, Testori, Davì, Mastronardi, che al di là di un generico richiamo a Gadda, sono naturalmente casi particolari e diversi tutti per impegno, per mondo morale, per effettiva capacità di poesia. Il caso che ha avuto maggior risonanza è certo quello di Pasolini e del suo dialetto romanesco di Ragazzi di vita (1955) e di Una vita violenta (1959) in cui il dialetto serve a determinare la realtà immediata di una società. È preliminare a questa impostazione una ricerca tecnica sul linguaggio di certi strati sociali, degli uomini diseredati viventi ai margini della grande città, sempre da essa respinti per un inserimento sociale o individuale, alloggiati nelle baracche delle borgate romane e abbandonati a se stessi, piccola società isolata all'interno della città e della società nazionale, sottoproletariato che stenta la vita ed è escluso dal flusso dell'espansione sociale italiana contemporanea. Il linguaggio qui si fa strumento gergale di un mondo elementare, elementare esso stesso. Lo scopo di questa dimensione narrativa è quello di rappresentare quel mondo sociale dall'interno dei suoi stessi modi espressivi: il risultato resta assai incerto, per uno sforzo di tecnicismo che finisce coll'uccidere il respiro narrativo, fatto piuttosto di una serie di casi, un po' meccanicamente composti in un tessuto, che di una necessità generata dalla fantasia. Il racconto pasoliniano si esaurisce in se stesso, perché la precoscienza che si vuol rappresentare pare incapace di rappresentare se stessa: e nello sforzo tecnico, linguistico ma anche compositivo, la fantasia dello scrittore si aggrappa a cose fortuite, come trovate per caso.

Alla seconda linea si possono annoverare molti scrittori: da Tobino, per esempio, a una parte della produzione narrativa di Calvino, che è però scrittore mosso da interessi e stimoli così diversi da apparire contrastanti, indirizzati ora alla realtà direttamente percepita in racconti come quelli del Sentiero dei nidi di ragno (1946), L'entrata in guerra (1953), il tentativo I giovani del Po (1958), La speculazione edilizia (1957), oppure ad una complessa mediazione fantastica in racconti e romanzi come Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959), e ancora La formica argentina (1952), La nuvola di smog (1958) : e dunque un discorso su di lui dovrebbe tener conto di molte ragioni diverse.' Ma soprattutto si inserisce in questa linea la narrativa di Carlo Cassola, uno scrittore che diede le sue prime prove negli anni della guerra e che nel tempo della resistenza e del dopoguerra ha trovato alcune zone vitali del proprio mondo fantastico. L'impegno di dare un'intensa, minuta e vasta colorazione di storia contemporanea lo sospinge a una ricerca di realtà omogenea e meglio sostenuta a una logica delle cose umane e dei grandi avvenimenti di cui il piccolo uomo è la parte determinante: la realtà risulta meno nelle parole e più nelle cose.

Due linee, evidentemente, che non sono solo determinate da due tecniche, ma che anche in queste ultime recano diverse motivazioni morali e diverse percezioni del proprio tempo: cose che sono al fondo modi diversi di sentire l'operante umanità di una stagione storica, direi più attratta dagli elementi immediati del costume e del vivere la prima, meglio intesa a decifrare nel mondo dei sentimenti dei personaggi l'irrisolta problematica della società italiana di questi anni la seconda; e, per specificare, su un altro piano, più irruente e furente la prima, disposta ad ascoltare in una più calma distensione fantastica voci segrete e intime la seconda.

Anche a restringersi ad anni più vicini questo panorama della narrativa italiana non si altera in quelle sue linee essenziali: si arricchisce di altri tentativi e di altre riuscite, si popola nelle zone intermedie, si sfuma in una serie di passaggi complessi, ma resta in sostanza un utile diagramma perfino per un ravvicinatissimo esame della produzione narrativa di questo ultimo anno... Certo, se il numero delle opere di narrativa apparse tra i due inverni del '60 e del '61 bastasse a testimoniare della vitalità del genere, non si potrebbe in verità parlar di crisi: ma purtroppo non è questione di numero. E basterebbe, per accertarsene, osservare come molti di questi romanzi e di queste raccolte di racconti tentino formule nuove, si buttino decisamente a una sperimentazione che, da una parte, cerca di rinnovare il campo dei rapporti con una cultura più largamente europea, dall'altra, pur restando sensibilissima a quei rapporti vicini o lontani, scava in un suo orto più noto di tradizioni nostre, da una terza parte ancora, formula tesi dal forte sapore di novità per tecnica e per temi, coscientemente correndo il rischio di un intellettualismo impoveritore della fantasia. Gli estremi limiti che da questo punto di vista si possono riconoscere sono offerti dal romanzo di Raffaele La Capria, Ferito a morte (Bompiani 1961), vincitore del premio Strega 1961, libro di singolare struttura, fondato su una ricerca di linguaggio narrativo nuovo nella estrema libertà di disposizione delle cose, e in cui gli echi di una letteratura di tradizione europea si dispongono in un disegno nuovamente risentito, anche se incapace di far corrispondere pienamente ambienti e personaggi e incapace ugualmente di sostenersi per tutto l'arco del suo svolgimento; e con un più scoperto impegno di contenuti nuovi stretti in strutture più determinate, dal libro di Giovanni Arpino, Un delitto d'onore (Mondadori 1961), dove il fenomeno di costume piccolo-borghese meridionale italiano, che si manifesta per intero dentro allo sviluppo della psicologia di alcuni personaggi, viene accostato con un più precisato e risentito piglio morale e storico.

Mi pare che questi due libri possano ritenersi bene esemplificativi delle linee di sviluppo, delle tendenze e degli indubbi fermenti che la narrativa italiana di quest'ultimo anno ha presentato, in accordo con quelle linee che poco sopra si son riconosciute caratteristiche della produzione narrativa degli scrittori più giovani di questo secondo dopoguerra, ove solo si tenga conto che alla ricerca lessicale e sintattica svolta nell'ambito dei dialetti nei libri di Pasolini o di Testori corrisponde ora, in quello di La Capria, una sperimentazione di strutture e di piani narrativi nuovi. Cosicché, da un lato si palesa l'esigenza di approfondire le tecniche narrative, dall'altro si forza decisamente al rintracciamento di un materiale umano pronto a spingere le proprie punte verso la sostanza storica della società italiana. E si darà anche il caso che i due filoni possano ritrovarsi compattamente riunificati in altri libri, testimonianza che, se anche quelle due vie sono diverse e rispondono concretamente a due modi diversi di intendere la letteratura, e la narrativa in particolare, sono poi per lo storico, e per il lettore, soltanto manifestazione di una comune, diffusa e costante ricerca di vie nuove, di rottura di un'eredità che non sempre riesce a essere utilizzata come una vera tradizione. Del resto a comprendere queste tendenze e le esigenze diverse a cui rispondono, soccorrono anche le storie singole dei diversi scrittori...

Naturalmente occorrerà non perdere di vista libri di maggior risonanza per il nome degli autori e per l'impegno che vi hanno manifestato, come sono la moraviana Noia (Bompiani 1960) e Lo scialo (Mondadori 1960) di Pratolini. Libri di varia riuscita, ma che, anche in rapporto allo svolgimento dei due scrittori, testimoniano largamente del complesso senso di rinnovamento che nel campo della narrativa si è andati e si va ricercando. Qui, non intendiamo occuparci del problema del rapporto di queste opere con le storie individuali dei due scrittori, anche se è evidente che questa connessione può essere determinante a stabilirne il significato e perfino il valore, ove si pensi alla volontà di Pratolini di ritornare a un racconto più fluido e ricco che nel Metello e alla creazione di un linguaggio più risentito e più mobile, più dotato di sfumature e di inflessioni; e ove per il Moravia si badi a una volontà di minor concessione a quel romanzesco che aveva trionfato nel Conformista, ma che anche in romanzi con un tessuto umano più ricco come La ciociara era ben rappresentato, al gusto di una maggior secchezza di tessuto narrativo e di discorso, che può spiegare l'arido orizzonte umano dei personaggi di questa Noia. Vorremmo piuttosto portar l'attenzione su come in esse si possa ritrovare un contributo allo sviluppo, cioè alla storia, della narrativa italiana di oggi, contributo che è presente nella stessa forza con cui i problemi tecnici del romanzo sono affrontati, consistano questi nello sforzo di compattezza e di unità della continuata analisi di atteggiamenti e di reazioni della Noia, oppure invece nell'ampio e mosso orizzonte del disegno pratoliniano. In due diverse direzioni si manifesta così la fiducia viva nel romanzo come strumento di rappresentazione della vita interiore e della storia di una società, certo in Pratolini con il vantaggio di un'atmosfera consona davvero al mondo morale e fantastico dello scrittore, che perviene a una capacità di articolazione di stesa del suo racconto tra personaggi più umanamente complessi e più profondamente intuiti, siano essi Folco Malesci o Libero Bigazzi, anche se il suo affresco nello svolgersi si sfoca, perde di interna necessità. Ma la più vasta umanità e la più intensa umana partecipazione che circola nelle pagine di Pratolini non deve far dimenticare che il romanzo di Moravia, anche se povero di vera fantasia, è di nuovo uno sforzo di indagine sui personaggi verso una percezione di qualcosa di cedevole o di manchevole dell'uomo contemporaneo su di un piano esistenziale, che è del resto quello che dà senso allo stesso Scialo, con il rischio se no di fornirne un'interpretazione di largo affresco ottocentesco. Che questi due romanzi vadano compresi in una dimensione attualissima di ciò che offrono, vadano cioè storicizzati sull'oggi, è la condizione per comprenderli anche al di là delle storie singole dei loro autori. Insomma tutto quanto della storia delle lettere del Novecento, anche sotto il profilo di una storia della narrativa, appare storiograficamente ormai accertabile vien sempre, di nuovo, illuminato dalle opere nuove che vengono apparendo e, con le nuove, si capiscono le ragioni vecchie di molti momenti ed episodi di questo processo.

Riccardo Scrivano

© 2009 - Luigi De Bellis