ASPETTI E NARRATIVA ITALIANA NEL
DOPOGUERRA
Il non omogeneo panorama della
narrativa italiana di questo
secondo dopoguerra suggerisce
subito l'idea che si siano
venuti soprattutto maturando i
motivi e le ragioni che furono
già gli elementi compositivi più
fermi della narrativa almeno del
decennio antecedente alla
guerra, tra Moravia e Vittorini,
Pratolini e Gadda, tra spinte
realistiche all'indagine
storica, e perfin cronachistica,
e ricerca di una mediazione
espressiva della realtà nel
gioco linguistico; ma quello che
là appariva, pur tra vivi
contrasti, una ricerca unica,
forse perché al fondo recava una
giustificazione unica, che era
di protesta umana, morale e
storica contro il fascismo, ora
appare sparpagliato e distinto,
talvolta anche vago e indeciso.
L'obiettivo di una più intima
intrusione nella realtà storica,
una volontà di confondersi con
essa e in essa ricercare le
ragioni non solo del narrare, ma
prima di tutto del vivere,
perdura: ma proprio una
distinzione prodottasi
lentamente tra le ragioni del
narrare e quelle del vivere, e
di conseguenza un trattenersi
piuttosto alla superficie dei
fatti che penetrare nella loro
struttura, pare che venga sempre
più differenziando la validità
di propositi dei narratori
italiani di oggi.
Un bilancio della narrativa
relativo a tutto questo secondo
dopoguerra non può non sentire
determinanti gli accumuli di
sviluppi, o di nuove esperienze
anche, di quei narratori più
vecchi, come Bacchelli, più
giovani, ma già con una
significativa loro storia alle
spalle, come Vittorini, Moravia,
Alvaro e Gadda, e infine di
scrittori come Pavese,
Pratolini, Brancati che hanno
dato i loro frutti migliori
proprio in questo tempo. Ma
vorremmo ora considerare solo
una generazione più giovane,
tutta iscritta, dai suoi
tentativi alle sue compiute
conquiste, in un tempo che sta
fra la guerra e l'oggi, e che
naturalmente sente profondamente
l'esemplarità di certe
esperienze passate e prossime,
ma anche cerca una propria via
talvolta con coraggio, talvolta
con furore. Di conseguenza, per
restringere il panorama a un
discorso fatto legittimo anche
da un orizzonte circoscritto, a
parte i casi grossi per scalpore
ma anche per interne ragioni,
come quello del Tomasi di
Lampedusa, sul quale bisognerà
verificare certi entusiasmi e la
loro attendibilità soprattutto
in rapporto alla composizione
del romanzo, e a parte anche
certe nuove impostazioni
narrative come quelle dei
romanzi di Antonio Pizzuto, ci
fermeremo per ora ad alcune
considerazioni su due linee
dell'attività narrativa italiana
più recente; delle quali una si
propone un accostamento alla
realtà soprattutto attraverso le
forme e le inflessioni
espressive dei dialetti;
l'altra, invece, si serve della
lingua letteraria, magari
attraverso una scarna cronaca di
particolari. Ambedue mostrano un
forte impegno di indagine
sull'uomo e sulla società: se il
rischio della seconda può
consistere in una «letterarizzazione»
eccessiva, quello della prima
sta nel suo tecnicismo
linguistico che arriva ad
assorbire la stessa dimensione
fantastica.
Alla prima si può dire
appartengano scrittori come
Pasolini, Testori, Davì,
Mastronardi, che al di là di un
generico richiamo a Gadda, sono
naturalmente casi particolari e
diversi tutti per impegno, per
mondo morale, per effettiva
capacità di poesia. Il caso che
ha avuto maggior risonanza è
certo quello di Pasolini e del
suo dialetto romanesco di
Ragazzi di vita (1955) e di Una
vita violenta (1959) in cui il
dialetto serve a determinare la
realtà immediata di una società.
È preliminare a questa
impostazione una ricerca tecnica
sul linguaggio di certi strati
sociali, degli uomini diseredati
viventi ai margini della grande
città, sempre da essa respinti
per un inserimento sociale o
individuale, alloggiati nelle
baracche delle borgate romane e
abbandonati a se stessi, piccola
società isolata all'interno
della città e della società
nazionale, sottoproletariato che
stenta la vita ed è escluso dal
flusso dell'espansione sociale
italiana contemporanea. Il
linguaggio qui si fa strumento
gergale di un mondo elementare,
elementare esso stesso. Lo scopo
di questa dimensione narrativa è
quello di rappresentare quel
mondo sociale dall'interno dei
suoi stessi modi espressivi: il
risultato resta assai incerto,
per uno sforzo di tecnicismo che
finisce coll'uccidere il respiro
narrativo, fatto piuttosto di
una serie di casi, un po'
meccanicamente composti in un
tessuto, che di una necessità
generata dalla fantasia. Il
racconto pasoliniano si
esaurisce in se stesso, perché
la precoscienza che si vuol
rappresentare pare incapace di
rappresentare se stessa: e nello
sforzo tecnico, linguistico ma
anche compositivo, la fantasia
dello scrittore si aggrappa a
cose fortuite, come trovate per
caso.
Alla seconda linea si possono
annoverare molti scrittori: da
Tobino, per esempio, a una parte
della produzione narrativa di
Calvino, che è però scrittore
mosso da interessi e stimoli
così diversi da apparire
contrastanti, indirizzati ora
alla realtà direttamente
percepita in racconti come
quelli del Sentiero dei nidi di
ragno (1946), L'entrata in
guerra (1953), il tentativo I
giovani del Po (1958), La
speculazione edilizia (1957),
oppure ad una complessa
mediazione fantastica in
racconti e romanzi come Il
visconte dimezzato (1952), Il
barone rampante (1957), Il
cavaliere inesistente (1959), e
ancora La formica argentina
(1952), La nuvola di smog (1958)
: e dunque un discorso su di lui
dovrebbe tener conto di molte
ragioni diverse.' Ma soprattutto
si inserisce in questa linea la
narrativa di Carlo Cassola, uno
scrittore che diede le sue prime
prove negli anni della guerra e
che nel tempo della resistenza e
del dopoguerra ha trovato alcune
zone vitali del proprio mondo
fantastico. L'impegno di dare
un'intensa, minuta e vasta
colorazione di storia
contemporanea lo sospinge a una
ricerca di realtà omogenea e
meglio sostenuta a una logica
delle cose umane e dei grandi
avvenimenti di cui il piccolo
uomo è la parte determinante: la
realtà risulta meno nelle parole
e più nelle cose.
Due linee, evidentemente, che
non sono solo determinate da due
tecniche, ma che anche in queste
ultime recano diverse
motivazioni morali e diverse
percezioni del proprio tempo:
cose che sono al fondo modi
diversi di sentire l'operante
umanità di una stagione storica,
direi più attratta dagli
elementi immediati del costume e
del vivere la prima, meglio
intesa a decifrare nel mondo dei
sentimenti dei personaggi
l'irrisolta problematica della
società italiana di questi anni
la seconda; e, per specificare,
su un altro piano, più irruente
e furente la prima, disposta ad
ascoltare in una più calma
distensione fantastica voci
segrete e intime la seconda.
Anche a restringersi ad anni più
vicini questo panorama della
narrativa italiana non si altera
in quelle sue linee essenziali:
si arricchisce di altri
tentativi e di altre riuscite,
si popola nelle zone intermedie,
si sfuma in una serie di
passaggi complessi, ma resta in
sostanza un utile diagramma
perfino per un ravvicinatissimo
esame della produzione narrativa
di questo ultimo anno... Certo,
se il numero delle opere di
narrativa apparse tra i due
inverni del '60 e del '61
bastasse a testimoniare della
vitalità del genere, non si
potrebbe in verità parlar di
crisi: ma purtroppo non è
questione di numero. E
basterebbe, per accertarsene,
osservare come molti di questi
romanzi e di queste raccolte di
racconti tentino formule nuove,
si buttino decisamente a una
sperimentazione che, da una
parte, cerca di rinnovare il
campo dei rapporti con una
cultura più largamente europea,
dall'altra, pur restando
sensibilissima a quei rapporti
vicini o lontani, scava in un
suo orto più noto di tradizioni
nostre, da una terza parte
ancora, formula tesi dal forte
sapore di novità per tecnica e
per temi, coscientemente
correndo il rischio di un
intellettualismo impoveritore
della fantasia. Gli estremi
limiti che da questo punto di
vista si possono riconoscere
sono offerti dal romanzo di
Raffaele La Capria, Ferito a
morte (Bompiani 1961), vincitore
del premio Strega 1961, libro di
singolare struttura, fondato su
una ricerca di linguaggio
narrativo nuovo nella estrema
libertà di disposizione delle
cose, e in cui gli echi di una
letteratura di tradizione
europea si dispongono in un
disegno nuovamente risentito,
anche se incapace di far
corrispondere pienamente
ambienti e personaggi e incapace
ugualmente di sostenersi per
tutto l'arco del suo
svolgimento; e con un più
scoperto impegno di contenuti
nuovi stretti in strutture più
determinate, dal libro di
Giovanni Arpino, Un delitto
d'onore (Mondadori 1961), dove
il fenomeno di costume
piccolo-borghese meridionale
italiano, che si manifesta per
intero dentro allo sviluppo
della psicologia di alcuni
personaggi, viene accostato con
un più precisato e risentito
piglio morale e storico.
Mi pare che questi due libri
possano ritenersi bene
esemplificativi delle linee di
sviluppo, delle tendenze e degli
indubbi fermenti che la
narrativa italiana di
quest'ultimo anno ha presentato,
in accordo con quelle linee che
poco sopra si son riconosciute
caratteristiche della produzione
narrativa degli scrittori più
giovani di questo secondo
dopoguerra, ove solo si tenga
conto che alla ricerca lessicale
e sintattica svolta nell'ambito
dei dialetti nei libri di
Pasolini o di Testori
corrisponde ora, in quello di La
Capria, una sperimentazione di
strutture e di piani narrativi
nuovi. Cosicché, da un lato si
palesa l'esigenza di
approfondire le tecniche
narrative, dall'altro si forza
decisamente al rintracciamento
di un materiale umano pronto a
spingere le proprie punte verso
la sostanza storica della
società italiana. E si darà
anche il caso che i due filoni
possano ritrovarsi compattamente
riunificati in altri libri,
testimonianza che, se anche
quelle due vie sono diverse e
rispondono concretamente a due
modi diversi di intendere la
letteratura, e la narrativa in
particolare, sono poi per lo
storico, e per il lettore,
soltanto manifestazione di una
comune, diffusa e costante
ricerca di vie nuove, di rottura
di un'eredità che non sempre
riesce a essere utilizzata come
una vera tradizione. Del resto a
comprendere queste tendenze e le
esigenze diverse a cui
rispondono, soccorrono anche le
storie singole dei diversi
scrittori...
Naturalmente occorrerà non
perdere di vista libri di
maggior risonanza per il nome
degli autori e per l'impegno che
vi hanno manifestato, come sono
la moraviana Noia (Bompiani
1960) e Lo scialo (Mondadori
1960) di Pratolini. Libri di
varia riuscita, ma che, anche in
rapporto allo svolgimento dei
due scrittori, testimoniano
largamente del complesso senso
di rinnovamento che nel campo
della narrativa si è andati e si
va ricercando. Qui, non
intendiamo occuparci del
problema del rapporto di queste
opere con le storie individuali
dei due scrittori, anche se è
evidente che questa connessione
può essere determinante a
stabilirne il significato e
perfino il valore, ove si pensi
alla volontà di Pratolini di
ritornare a un racconto più
fluido e ricco che nel Metello e
alla creazione di un linguaggio
più risentito e più mobile, più
dotato di sfumature e di
inflessioni; e ove per il
Moravia si badi a una volontà di
minor concessione a quel
romanzesco che aveva trionfato
nel Conformista, ma che anche in
romanzi con un tessuto umano più
ricco come La ciociara era ben
rappresentato, al gusto di una
maggior secchezza di tessuto
narrativo e di discorso, che può
spiegare l'arido orizzonte umano
dei personaggi di questa Noia.
Vorremmo piuttosto portar
l'attenzione su come in esse si
possa ritrovare un contributo
allo sviluppo, cioè alla storia,
della narrativa italiana di
oggi, contributo che è presente
nella stessa forza con cui i
problemi tecnici del romanzo
sono affrontati, consistano
questi nello sforzo di
compattezza e di unità della
continuata analisi di
atteggiamenti e di reazioni
della Noia, oppure invece
nell'ampio e mosso orizzonte del
disegno pratoliniano. In due
diverse direzioni si manifesta
così la fiducia viva nel romanzo
come strumento di
rappresentazione della vita
interiore e della storia di una
società, certo in Pratolini con
il vantaggio di un'atmosfera
consona davvero al mondo morale
e fantastico dello scrittore,
che perviene a una capacità di
articolazione di stesa del suo
racconto tra personaggi più
umanamente complessi e più
profondamente intuiti, siano
essi Folco Malesci o Libero
Bigazzi, anche se il suo
affresco nello svolgersi si
sfoca, perde di interna
necessità. Ma la più vasta
umanità e la più intensa umana
partecipazione che circola nelle
pagine di Pratolini non deve far
dimenticare che il romanzo di
Moravia, anche se povero di vera
fantasia, è di nuovo uno sforzo
di indagine sui personaggi verso
una percezione di qualcosa di
cedevole o di manchevole
dell'uomo contemporaneo su di un
piano esistenziale, che è del
resto quello che dà senso allo
stesso Scialo, con il rischio se
no di fornirne
un'interpretazione di largo
affresco ottocentesco. Che
questi due romanzi vadano
compresi in una dimensione
attualissima di ciò che offrono,
vadano cioè storicizzati
sull'oggi, è la condizione per
comprenderli anche al di là
delle storie singole dei loro
autori. Insomma tutto quanto
della storia delle lettere del
Novecento, anche sotto il
profilo di una storia della
narrativa, appare
storiograficamente ormai
accertabile vien sempre, di
nuovo, illuminato dalle opere
nuove che vengono apparendo e,
con le nuove, si capiscono le
ragioni vecchie di molti momenti
ed episodi di questo processo.