IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

IL TEATRO DI PIRANDELLO

 

 

Che cosa ha fatto poeta Pirandello? Un'angoscia. Quale? La scoperta, la convinzione che l'uomo è condannato all'irrisione di un destino feroce: la vita è una beffa, il mondo è una frenesia d'ombre inconsistenti e vane. Chi sostiene che questa non sia la morale di Pirandello, è invitato a ricordare le dichiarazioni autentiche fatte da lui stesso nel agio, quando non aveva ancora messo piede sul palcoscenico; ma aveva già pubblicato la massima parte della sua opera di novelliere e di romanziere:
Io penso che la vita è una molto triste buffonata; perché abbiamo in noi, senza poter sapere né conoscere né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione d'una realtà (una per ciascuno e non usai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il gioco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi, non può più pretendere né gusto né piacere alla vita... La mia arte è piena di compassione per tutti quelli che s'ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino che condanna l'uomo all'inganno.
Dunque Pirandello (non è una scoperta) è pessimista. Ma non nel senso classico, per esempio, d'un Leopardi, che singhiozza sulla vanità dell'uomo-formica, il quale passa e muore nell'indifferenza della Natura; oppure d'un Sofocle, il quale crede alla Divinità, ma la sente nemica dell'uomo suo giocattolo e trastullo. La negazione di Pirandello è altrimenti radicale. Il suo principio è questo: che nulla è vero, nulla esiste, tutto è illusione creata da chi la pensa, o la sogna, e ciascuno se la crea e sogna a suo modo, e un'intesa fra la multiforme vanità di tutti questi sogni non è possibile. Pirandello nega addirittura la identità del soggetto che pensa codesta illusione; rinnega addirittura il «penso, dunque sono», di Cartesio; per lui neanche pensare significa essere...
Quando in certe sue novelle (come La carriola) o, ancora più esplicitamente, in una intervista concessa nel 1920 al Corriere della sera, Pirandello spiegava cos'è il «Teatro dello specchio» - ossia la tragedia che scoppia quando l'uomo, che fino allora si è contentato di vivere, a un certo punto «si vede vivere», e si scopre diverso da quello che credeva d'essere, e si ritrae disgustato, disperato, e non può più né ridere né piangere, ma solo sbigottire e vuotarsi di sé, - noi abbiam facilmente ricordato la primitiva, eterna tragedia, di Sofocle e del suo Edipo. Edipo crede d'esser grande, eroico, giusto al punto d'essere stato costituito dagli Dei arbitro di giustizia sugli altri mortali; e a un certo momento, da uno «specchio» ideale che gli viene all'improvviso messo dinanzi, è scoperto immondo come nessun altro; e non resiste alla luce di quella scoperta, e s'acceca...

Numerose occasioni abbiamo avuto già in questo libro di ricordare le forme labili ed oratorie in cui si era espressa la nostra commedia erudita del Cinquecento, così eloquente da rimanere in certo senso soffocata sotto il peso della sua facondia; e anche quelle della commedia popolare suppergiù dello stesso tempo, in cui all'Accademia dotta s'era sostituita una specie d'Accademia paesana e magari vernacola, con l'assidua ricerca dei riboboli toscaneggianti, dei modi di dire plebei, e via dicendo: in tutti i casi, trionfo della parola declamata. Ma si pensi, per contrappeso, allo scialbo pallore della più parte delle commedie italiane del primo Ottocento; e all'infranciosamento del nostro teatro di quel secolo, quand'esso si mise sulle orme di quello d'Oltralpe. Una grande reazione, nel senso della parlata semplicità e verità, s'era certo avuta coi migliori commediografi naturalisti, il Giacosa borghese di Tristi amori e di Come le foglie, e specialmente il vergine e muscoloso Giovanni Verga; ma, poco dopo, il dannunzianesimo sembrò risospingere il teatro italiano nella letteratura magniloquente e sonora. A questo punto si presenta, sulle scene italiane, Pirandello : con quel suo eloquio per eccellenza parlato, convulso, singhiozzato, e, anche nella sua dialettica, così pieno di sangue e di spasimo, che basterebbe da solo a confutare la vecchia e vana accusa, fatta al suo autore, di cerebralità.
È con questo stile che Pirandello, da trame esili, scarne, spesso sgraziate, da ambienti quasi sempre piccoloborghesi, e tutt'altro che allettanti, arriva dritto - ripetiamo, nelle sue opere meglio riuscite - alla arte della grande Commedia, e alla Tragedia. Quei suoi personaggi, marcati con segni quasi sempre aspri e violenti, così spesso stravolti, talora allucinati, passano di colpo, dal ruolo di macchiette, a quello di eroi tragici. E si va dalle accorate delicatezze di brevi quadri come quelli di Lumie di Sicilia, o mettiamo dalla Patente, a quel gioco di perfetta ironia che è Cosi é (se vi pare). Si va da quell'orgia carnale, a un tempo umanistica e paesana, rapsodia libresca e canto agreste, che è Liolà, sino al secco, all'angoscioso dramma dell'Uomo dal fiore: in bocca o dell'Imbecille; al grandioso finale del Berretto a sonagli, all'ultimo desolato atto di Tutto per bene, all'affocato Come prima, meglio di prima, agli sconcertanti Sei personaggi, agli echi shakespeariani del vasto Enrico IV.

Arte, abbiamo detto. Ma insistiamo anche nel ripetere che se il pubblico, e le sue stesse guide, cioè i signori critici, sono arrivati con ritardo più o meno sensibile a intendere quest'arte, ciò è dovuto al fatto ch'essa è stata compresa soltanto quando in essa si è risentita l'eco dello strazio, della tragedia morale, d'un determinato tempo: quello del primo, e più disperato Dopoguerra.

Altri ha sostenuto, del dramma pirandelliano, una diversa interpretazione, risolvendolo nel famoso contrasto fra Vita e Forma: la vita che per svolgersi ha bisogno di fluire, ma per consistere ha bisogno d'una forma: donde un perpetuo conflitto, fra la sua esigenza dinamica, e quella statica. E per questo ci si è appoggiati specialmente a certe novelle, come La carriola e La trappola, e a un romanzo, I vecchi e i giovani. E lo stesso Pirandello in certe sue dichiarazioni (in verità un poco tardive) è sembrato accettare questa interpretazione, pure correggendo la formula in un'altra (egli diceva: contrasto tra Movimento e Forma, del quale contrasto si compone la Vita); anzi, è parso che proprio a svolger cotesto contrasto abbia scritto alcune opere più o meno importanti del suo secondo periodo di drammaturgo, come Diana e la Tuda e Quando si é qualcuno. Ma una tale interpretazione, anche se geniale, è parziale; non esaurisce affatto tutta l'opera pirandelliana, soprattutto non ne rileva la suprema originalità. Noi insistiamo nel far notare che nelle sue prime autoesegesi, come quella già citata, lo stesso Pirandello non aveva parlato di contrasto tra movimento e forma: aveva parlato di tutt'altro. Fino il titolo dato alla raccolta dei suoi primi quindici o venti drammi, Maschere nude, non accennava a questo contrasto; piuttosto, confermava il proposito di denunciare la menzogna, la beffa della vita, e della sua presunta realtà, mettendone a nudo la vanità...

Non è mancato chi ha additato, specie nelle opere pirandelliane del suo secondo decennio teatrale (1926-1936), un fenomeno nuovo, e come a dire una volontà di fede. La sagra del Signore della Nave, per esempio, si conclude col trionfo dello spirito; La Nuova Colonia, con un'apoteosi della maternità. O di uno o di nessuno, riafferma che la paternità non consiste in un atto fisico, ma nel credere di essere padre, o meglio ancora nel volerlo. Lazzaro dichiara che la fede vera non sarebbe quella nell'immortalità personale del meschino individuo, ma quella nella vita universale, dono di Dio, a cui tutti torneremo, per riconfonderci in lui; e ammette persino, a suo modo, il miracolo. La favola del figlio cambiato proclama che il re non è tanto la persona coronata che materialmente incarna la sacra dignità, quanto l'immagine che ce ne facciamo in noi, che creiamo noi stessi. - A tutto questo, però, non è difficile rispondere che Pirandello aveva già sostenuto cose non dissimili fin dai suoi primi drammi, compresi i più allarmanti (per esempio L'innesto, Due in una, e addirittura Così é (se vi pare), dove insomma ci sono due persone che vivono contemporaneamente della fede che una creatura ignota sia Giulia e sia Lina). Ciò che è meno facile, è ammettere questo scambio tra la fede, «sustanzia di cose sperate», e l'illusione: siamo davanti a Pirandello ancora e sempre soggettivista, solipsista, e tutt'al più pragmatista. Né ci sembra il caso di rispondere con molte parole a chi ha insinuato che nell'ultimo dramma pirandelliano, Non si sa come, dove l'uomo è dipinto come un essere la cui volontà è impotente a resistere alle forze oscure che lo trascinano ad atti assolutamente impensati, si trovi un'affermazione del Trascendente, e quindi di Dio. A noi sembra che questa, se mai, sarebbe una forza feroce, nemica; il Dio cattivo di Andreev; o mettete pure il peso del peccato originale, ma senza libero arbitrio, né Grazia: conclusione assolutamente opposta a quella d'un fidente attivismo cristiano.

No, Pirandello è altro; e sarebbe vano quanto irriverente trovargli giustificazioni inutili, tirandolo a diventare ciò che non volle essere e non fu. Pirandello è il poeta che ha espresso la tragedia d'un mondo in dissoluzione; poeta, e dunque il solo conto che gli si può chiedere in sede estetica è come l'abbia espressa. Altri, come s'è già proposto da giovani entusiasti e da scrittori provetti, spiegherà un giorno se e in che modo la sua tragedia abbia veramente posto il suggello a un secolo, a un mondo, a un'epoca, dell'umanità.

Silvio D'Amico

© 2009 - Luigi De Bellis