IL TEATRO DI PIRANDELLO
Che cosa ha fatto poeta
Pirandello? Un'angoscia. Quale?
La scoperta, la convinzione che
l'uomo è condannato
all'irrisione di un destino
feroce: la vita è una beffa, il
mondo è una frenesia d'ombre
inconsistenti e vane. Chi
sostiene che questa non sia la
morale di Pirandello, è invitato
a ricordare le dichiarazioni
autentiche fatte da lui stesso
nel agio, quando non aveva
ancora messo piede sul
palcoscenico; ma aveva già
pubblicato la massima parte
della sua opera di novelliere e
di romanziere:
Io penso che la vita è una molto
triste buffonata; perché abbiamo
in noi, senza poter sapere né
conoscere né perché né da chi,
la necessità di ingannare di
continuo noi stessi con la
spontanea creazione d'una realtà
(una per ciascuno e non usai la
stessa per tutti) la quale di
tratto in tratto si scopre vana
e illusoria. Chi ha capito il
gioco, non riesce più a
ingannarsi; ma chi non riesce
più a ingannarsi, non può più
pretendere né gusto né piacere
alla vita... La mia arte è piena
di compassione per tutti quelli
che s'ingannano; ma questa
compassione non può non essere
seguita dalla feroce irrisione
del destino che condanna l'uomo
all'inganno.
Dunque Pirandello (non è una
scoperta) è pessimista. Ma non
nel senso classico, per esempio,
d'un Leopardi, che singhiozza
sulla vanità dell'uomo-formica,
il quale passa e muore
nell'indifferenza della Natura;
oppure d'un Sofocle, il quale
crede alla Divinità, ma la sente
nemica dell'uomo suo giocattolo
e trastullo. La negazione di
Pirandello è altrimenti
radicale. Il suo principio è
questo: che nulla è vero, nulla
esiste, tutto è illusione creata
da chi la pensa, o la sogna, e
ciascuno se la crea e sogna a
suo modo, e un'intesa fra la
multiforme vanità di tutti
questi sogni non è possibile.
Pirandello nega addirittura la
identità del soggetto che pensa
codesta illusione; rinnega
addirittura il «penso, dunque
sono», di Cartesio; per lui
neanche pensare significa
essere...
Quando in certe sue novelle
(come La carriola) o, ancora più
esplicitamente, in una
intervista concessa nel 1920 al
Corriere della sera, Pirandello
spiegava cos'è il «Teatro dello
specchio» - ossia la tragedia
che scoppia quando l'uomo, che
fino allora si è contentato di
vivere, a un certo punto «si
vede vivere», e si scopre
diverso da quello che credeva
d'essere, e si ritrae
disgustato, disperato, e non può
più né ridere né piangere, ma
solo sbigottire e vuotarsi di
sé, - noi abbiam facilmente
ricordato la primitiva, eterna
tragedia, di Sofocle e del suo
Edipo. Edipo crede d'esser
grande, eroico, giusto al punto
d'essere stato costituito dagli
Dei arbitro di giustizia sugli
altri mortali; e a un certo
momento, da uno «specchio»
ideale che gli viene
all'improvviso messo dinanzi, è
scoperto immondo come nessun
altro; e non resiste alla luce
di quella scoperta, e
s'acceca...
Numerose occasioni abbiamo avuto
già in questo libro di ricordare
le forme labili ed oratorie in
cui si era espressa la nostra
commedia erudita del
Cinquecento, così eloquente da
rimanere in certo senso
soffocata sotto il peso della
sua facondia; e anche quelle
della commedia popolare
suppergiù dello stesso tempo, in
cui all'Accademia dotta s'era
sostituita una specie
d'Accademia paesana e magari
vernacola, con l'assidua ricerca
dei riboboli toscaneggianti, dei
modi di dire plebei, e via
dicendo: in tutti i casi,
trionfo della parola declamata.
Ma si pensi, per contrappeso,
allo scialbo pallore della più
parte delle commedie italiane
del primo Ottocento; e all'infranciosamento
del nostro teatro di quel
secolo, quand'esso si mise sulle
orme di quello d'Oltralpe. Una
grande reazione, nel senso della
parlata semplicità e verità,
s'era certo avuta coi migliori
commediografi naturalisti, il
Giacosa borghese di Tristi amori
e di Come le foglie, e
specialmente il vergine e
muscoloso Giovanni Verga; ma,
poco dopo, il dannunzianesimo
sembrò risospingere il teatro
italiano nella letteratura
magniloquente e sonora. A questo
punto si presenta, sulle scene
italiane, Pirandello : con quel
suo eloquio per eccellenza
parlato, convulso, singhiozzato,
e, anche nella sua dialettica,
così pieno di sangue e di
spasimo, che basterebbe da solo
a confutare la vecchia e vana
accusa, fatta al suo autore, di
cerebralità.
È con questo stile che
Pirandello, da trame esili,
scarne, spesso sgraziate, da
ambienti quasi sempre
piccoloborghesi, e tutt'altro
che allettanti, arriva dritto -
ripetiamo, nelle sue opere
meglio riuscite - alla arte
della grande Commedia, e alla
Tragedia. Quei suoi personaggi,
marcati con segni quasi sempre
aspri e violenti, così spesso
stravolti, talora allucinati,
passano di colpo, dal ruolo di
macchiette, a quello di eroi
tragici. E si va dalle accorate
delicatezze di brevi quadri come
quelli di Lumie di Sicilia, o
mettiamo dalla Patente, a quel
gioco di perfetta ironia che è
Cosi é (se vi pare). Si va da
quell'orgia carnale, a un tempo
umanistica e paesana, rapsodia
libresca e canto agreste, che è
Liolà, sino al secco,
all'angoscioso dramma dell'Uomo
dal fiore: in bocca o
dell'Imbecille; al grandioso
finale del Berretto a sonagli,
all'ultimo desolato atto di
Tutto per bene, all'affocato
Come prima, meglio di prima,
agli sconcertanti Sei
personaggi, agli echi
shakespeariani del vasto Enrico
IV.
Arte, abbiamo detto. Ma
insistiamo anche nel ripetere
che se il pubblico, e le sue
stesse guide, cioè i signori
critici, sono arrivati con
ritardo più o meno sensibile a
intendere quest'arte, ciò è
dovuto al fatto ch'essa è stata
compresa soltanto quando in essa
si è risentita l'eco dello
strazio, della tragedia morale,
d'un determinato tempo: quello
del primo, e più disperato
Dopoguerra.
Altri ha sostenuto, del dramma
pirandelliano, una diversa
interpretazione, risolvendolo
nel famoso contrasto fra Vita e
Forma: la vita che per svolgersi
ha bisogno di fluire, ma per
consistere ha bisogno d'una
forma: donde un perpetuo
conflitto, fra la sua esigenza
dinamica, e quella statica. E
per questo ci si è appoggiati
specialmente a certe novelle,
come La carriola e La trappola,
e a un romanzo, I vecchi e i
giovani. E lo stesso Pirandello
in certe sue dichiarazioni (in
verità un poco tardive) è
sembrato accettare questa
interpretazione, pure
correggendo la formula in
un'altra (egli diceva: contrasto
tra Movimento e Forma, del quale
contrasto si compone la Vita);
anzi, è parso che proprio a
svolger cotesto contrasto abbia
scritto alcune opere più o meno
importanti del suo secondo
periodo di drammaturgo, come
Diana e la Tuda e Quando si é
qualcuno. Ma una tale
interpretazione, anche se
geniale, è parziale; non
esaurisce affatto tutta l'opera
pirandelliana, soprattutto non
ne rileva la suprema
originalità. Noi insistiamo nel
far notare che nelle sue prime
autoesegesi, come quella già
citata, lo stesso Pirandello non
aveva parlato di contrasto tra
movimento e forma: aveva parlato
di tutt'altro. Fino il titolo
dato alla raccolta dei suoi
primi quindici o venti drammi,
Maschere nude, non accennava a
questo contrasto; piuttosto,
confermava il proposito di
denunciare la menzogna, la beffa
della vita, e della sua presunta
realtà, mettendone a nudo la
vanità...
Non è mancato chi ha additato,
specie nelle opere pirandelliane
del suo secondo decennio
teatrale (1926-1936), un
fenomeno nuovo, e come a dire
una volontà di fede. La sagra
del Signore della Nave, per
esempio, si conclude col trionfo
dello spirito; La Nuova Colonia,
con un'apoteosi della maternità.
O di uno o di nessuno, riafferma
che la paternità non consiste in
un atto fisico, ma nel credere
di essere padre, o meglio ancora
nel volerlo. Lazzaro dichiara
che la fede vera non sarebbe
quella nell'immortalità
personale del meschino
individuo, ma quella nella vita
universale, dono di Dio, a cui
tutti torneremo, per
riconfonderci in lui; e ammette
persino, a suo modo, il
miracolo. La favola del figlio
cambiato proclama che il re non
è tanto la persona coronata che
materialmente incarna la sacra
dignità, quanto l'immagine che
ce ne facciamo in noi, che
creiamo noi stessi. - A tutto
questo, però, non è difficile
rispondere che Pirandello aveva
già sostenuto cose non dissimili
fin dai suoi primi drammi,
compresi i più allarmanti (per
esempio L'innesto, Due in una, e
addirittura Così é (se vi pare),
dove insomma ci sono due persone
che vivono contemporaneamente
della fede che una creatura
ignota sia Giulia e sia Lina).
Ciò che è meno facile, è
ammettere questo scambio tra la
fede, «sustanzia di cose
sperate», e l'illusione: siamo
davanti a Pirandello ancora e
sempre soggettivista,
solipsista, e tutt'al più
pragmatista. Né ci sembra il
caso di rispondere con molte
parole a chi ha insinuato che
nell'ultimo dramma
pirandelliano, Non si sa come,
dove l'uomo è dipinto come un
essere la cui volontà è
impotente a resistere alle forze
oscure che lo trascinano ad atti
assolutamente impensati, si
trovi un'affermazione del
Trascendente, e quindi di Dio. A
noi sembra che questa, se mai,
sarebbe una forza feroce,
nemica; il Dio cattivo di
Andreev; o mettete pure il peso
del peccato originale, ma senza
libero arbitrio, né Grazia:
conclusione assolutamente
opposta a quella d'un fidente
attivismo cristiano.
No, Pirandello è altro; e
sarebbe vano quanto irriverente
trovargli giustificazioni
inutili, tirandolo a diventare
ciò che non volle essere e non
fu. Pirandello è il poeta che ha
espresso la tragedia d'un mondo
in dissoluzione; poeta, e dunque
il solo conto che gli si può
chiedere in sede estetica è come
l'abbia espressa. Altri, come
s'è già proposto da giovani
entusiasti e da scrittori
provetti, spiegherà un giorno se
e in che modo la sua tragedia
abbia veramente posto il
suggello a un secolo, a un
mondo, a un'epoca, dell'umanità.