LE RIVISTE DEL PRIMO NOVECENTO
Difficilmente si potrebbe negare
alla presenza dell'opera
crociana nel ventennio del
novecento la sua validità
rinnovatrice, il suo stimolo
vivo e storicissimo, la sua
proposta di problemi valevoli
anche per chi sentisse con
diversa urgenza e con diversa
inclinazione spirituale ed
ideale la situazione e la
vocazione degli uomini nella
società e nella cultura. Né,
ovviamente, nell'azione
sterilizzante di certo facile
formulismo peggiorato
naturalmente nei più zelanti
scolari, ciò che doveva nascere
è stato impedito, mentre una
coscienza critica di primo
ordine ha sorretto comunque alle
spalle le ricerche di quanti non
si sono chiusi nell'ortodossia
crociana. Ma la Critica non fu
certo la guida unica della
cultura e della letteratura
italiana di quegli anni anche se
costituì il rempart più sicuro e
la voce della filosofia più
concreta e storica di quel
periodo, la sistemazione più
alta di esigenze altrimenti
sparse e disordinate...
Nel Leonardo (1903-'7) convulso
e giovanile, l'impeto ancora
genuino di Giovanni Papini
forniva scatto all'empirismo
sistematore di Giuseppe
Prezzolini e magismo e
pragmatismo, nazionalismo e
psicologia si fondevano in una
ingenua volontà di salto in un
dopo indistinto totalmente nuovo
e diverso; una tensione al
futuro che avvicinava i
leonardiani a forme di
libertarismo, ai primi indizi
del futurismo ad un'ansia
religiosa di trasformazione che
stimolava nella loro forma più
irrazionale e mistica Buonaiuti
e i modernisti più resistenti.
Accanto allo storicismo col suo
concreto rinnovamento in campo
metodologico, nel Leonardo si
manifestava questo carattere di
ansia rinunziatrice e di
spiritualismo irrequieto,
sollecitazione al futuro anche
in forme di baldanza
insopportabile che lega
espressioni diverse dal costume
all'arte, alla politica e alla
cultura sotto la patina ancora
forte dell'estetismo e nella
protezione del crocianesimo,
anche esso del resto animato da
una fede concreta di
rinnovamento perenne nella
originalità creativa della
storia. Ma il carattere del
Leonardo era soprattutto,
ripeto, il salto e nel suo
inizio questo rivoluzionarismo
assoluto aveva in sé un'esigenza
religiosa insopprimibile ed una
volontà di antistoricismo da
calcolare nei fermenti del primo
novecento. Velleità soprattutto
papiniana nel confuso regno
della «cultura dell'anima».
Proprio questo termine
rappresentava la tensione del
tempo nella sua purezza e nella
sua retorica: all'impeto
illuministico prezzoliniano
aperto sino alla curiosità e al
nutrimento di mistici medioevali
tedeschi, di Swedenborg ecc., si
univa la rivolta
antipositivistica mirante
all'uomo nuovo, nato dalla crisi
e vivo nellà sua necessità di
essere totalmente dopo e
creatore nei suoi atti e nella
sua meditazione. Di anima e
della sua cultura parlava Papini
nella mescolanza dei suoi impeti
freschi (i più giovanili) e
dell'impura creazione dell'io
con mezzi artistici di
impressionismo vistoso e di
scadentissima abilità
linguistica; di anima parlava
con attenzione ed impegno non
smentito Giovanni Amendola;
stile come espressione di anima
chiedeva Eugenio Donadoni,
appartato, ma così vicino nel
suo forte spiritualismo al cóté
vociano, e i versi di
Michelstàdter o di Rebora
sforzano il tono di verità e
autenticità personale della
poesia, «travata di umanità»
come diceva Boine.
Ciò che accomuna il Leonardo più
papiniano e convulso e la Voce
più prezzoliniana, problemistica
e civile è, su toni diversi di
concretezza e di misura, il
bisogno di « rinnovamento » e la
volontà di legare su di un
principio centrale («anima» ,
«idealismo militante») cultura e
letteratura che proprio nello
spendersi attivo dei letterati
in singoli problemi tecnici (la
Crisi degli ulivi in Liguria di
Boine, gli scritti sulle
ferrovie di Jabier) nel loro
farsi militanti e insieme
accesamente personali e senza
cifra di maniera, trovava la
giustificazione più profonda per
una tipica prosa poetica la cui
storica importanza è stata
spesso sacrificata in una
condanna troppo rapida di
moralismo e di epoca della
cultura priva della religione
delle lettere. In realtà il
saggio vociano dal pezzo
colorito di Soffici e di Papini
alle pagine di Slataper, Boine,
Jahier (quanto risuona il passo
di Jahier nella letteratura
anche postvociana), al
giornalismo di Prezzolini (e lo
stesso saggio di Cecchi nelle
sue origini iniziali di acume
critico e di posizione morale è
schiettamente vociano prima che
rondista), ha sostenuto nella
sua varietà, nel suo alone di
approssimatività e di baldanza,
complessi problemi di
letteratura e di linguaggio,
come risolveva in sé le esigenze
di cultura e di espressione di
una società attiva e irrequieta,
scontenta della magnificenza
dannunziana, della costruzione
ottocentesca carducciana e del
tono di umiltà leziosa del
pascolismo.
Sul «tutto da rifare» di origine
leonardiana, sulla rivolta
antipositivistica in cui ritorni
romantici si fondono con spunti
originali (si pensi al Borgese,
alla sua opera di critico della
«personalità» e dell'«unità
contro la distinzione crociana),
la Voce, soprattutto la prima
Voce (1908-1913) tenne più
chiaramente ad un'Italia europea
(da cui l'opera di effettiva
introduzione sulla cultura
italiana di autori e movimenti
europei fra Hebbel-Ibsen e Péguy
e l'impressionismo francese, fra
pragmatismo, bergsonismo e la,
musica post-wagneriana) ad una
formazione generale attraverso
contributi particolari,
ambizioni di tecnicismo (ma in
realtà già nuclearmente
bisognosi di raccordo), con
ardite speranze di concretezza,
di «star sul sodo» che
denunciano il passaggio da un
desiderio generico di
rinnovamento dei primi anni del
secolo a un riconoscimento di
misura e di costruzione. I fumi
variopinti dell'estetismo si
andavano allontanando e
l'insegnamento, anche quando lo
si combatteva, della metodologia
crociana, e della stessa realtà
politica e sociale italiana
(vicino alla Voce è Salvemini
con la sua Unità e la Voce «non
ignorava l'opera attiva del
socialismo nel suo condurre
masse di uomini a coscienza e in
definitiva a cultura»)
limitavano e rinforzavano, anche
nei suoi pericoli di praticismo
e di soddisfazione letteraria
del caso concreto, la
ispirazione rinnovatrice vociana
intorno al suo iniziale centro
di problemi della coscienza di
cultura dell'anima e la
indirizzavano al problema del
mezzogiorno, alle polemiche
sulla scuola, alla ricerca di
riforme. Ma il motivo di
rinnovamento di origine fra
estetica ed etico-religiosa
resiste meglio proprio nei
vociani più intimi meno
praticisti e meno impressionisti
non Prezzolini e non Papini e
Soffici, ma Jahier, Slataper,
Boine, in cui impegno umano ed
artistico, volontà di creazione
e di rinnovamento hanno un'unità
originale e meno provvisoria,
capace di un entusiasmo
autenticamente giovanile
(«artista perché vuol essere più
vicino alla vita e coglierla nel
suo fetale umidore, quello
sovverte gli ordini, quello trae
più spesso fuori dal suo bagno
di vita la disgregazione di ogni
ordine ed è tutto trepido e
inquieto di religiosità anche se
ciò che dice ed esprime sia
demoniacamente immorale»: Boine),
capace di corrispondere alla
lezione di Michelstàdter nella
sua urgenza di fondazione
assoluta (lezione non aneddotica
nella corrente più viva di
un'epoca troppo spesso rivista
solo come placido regno
dell'edera liberale, del
sentimentalismo crepuscolare),
mentre il fervore più
praticistico e l'impressionismo
chiassoso potevano sembrare
anche una preparazione confusa
di ogni esito e sbollire in
conformismo al primo urto con
esperienze più dure, al primo
soffio rabbioso di un «big lad
wolf».
Fu proprio il carattere di
ampiezza e di disponibilità
della Voce, la sua retorica
praticistica e moralistica
rispetto al suo fondo più
intenso e alla sua validità
storica (che la fa centrale in
tentativi di rinnovamento e di
applicazione fra la metodologia
crociana, l'azione di socialisti
e democratici come Salvemini ed
Amendola, il pittoresco ed
equivoco impeto di nazionalisti
e futuristi, fra modernismo e
posizioni protestantistiche come
quella del Gangale di
Conscientia), che portò
all'esaurimento di quella
esperienza, alla scissione del
movimento, dopo un periodo di
esclusivo dominio prezzoliniano
(ma non si dimentichi che
l'organizzazione e lo stimolo di
attività di Prezzolini furono
essenziali alla vita del
movimento), nelle due Voci
letteraria e politica. Quella
scissione non avveniva tanto per
il passaggio degli
impressionisti a Lacerba
(1913--'15) e ad un improvviso
fronte futurista...
E d'altra parte non in un
semplice passaggio dalla cultura
alla letteratura (la tesi
d'altronde così indicativa di
Gargiulo), ma da un'esigenza più
aperta e generica di
rinnovamento ad una impostazione
più guardinga, gruppi di vociami
ed uomini della nuova
generazione preparavano e
sostenevano il movimento della
Ronda (1919-'23). Intanto lo
sviluppo crociano proseguiva la
sua via di «metodologia perenne»
e di avvertimento contro ogni
forma di oscura unità, contro
ogni misticismo nobile o turpe e
con la teoria della circolarità
dello spirito assicurava una
respirazione maggiore alle sue
energiche autonomie legate
all'insistente senso della
storia a parte subjecti;
l'attualismo gentiliano così
nutrito di fermenti romantici
proponeva ancora, in maniera a
suo modo esaltante, un
rinnovamento dentro la storia
nella posizione sempre nuova e
sempre autocreatrice dell'atto,
gli storicisti da Omodeo a De
Ruggiero, a Lombardo-Radice
costruivano nei particolari una
cultura idealistica capace Ai
sostituire, come interpretazione
generale e nelle singole
specialità, la cultura del
positivismo ottocentesco...
Ma sulla linea speciale delle
riviste del primo novecento
nella loro unione di cultura e
letteratura, il dopoguerra vide
nella Ronda l'affermazione di
una cultura paurosa di impegni
pratici, e di prevalenza
religiosa o morale, attenta
viceversa all'uso di ogni
stimolo (ed effettivamente se la
sua curiosità fu molto minore e
i suoi interessi di conoscenza
meno freschi ed ansiosi, non
mancò certo di contatti europei
nell'ambito sicuro della
letteratura, dell'espressione
artistica e della serriana
religione delle lettere). Già la
Voce letteraria di De Robertis,
di Bacchelli, dello Onofri di
Orchestrine (e accanto riviste
come la Riviera ligure e più
tardi La Raccolta) aveva
corrisposto alle indicazioni di
Serra nel suo Testamento
disperato e fedele, nel
ricondurre nella civiltà della
pagina sicura, dello stile come
somma dell'esperienza e della
moralità, ogni esigenza che i
vociani potevano cercare anche
fuori di un'organica radice
letteraria. In verità anche
nella prosa vociana la tensione
alla risoluzione integrale della
personalità nel segno dello
scrittore era forte e uno studio
spregiudicato di questo
passaggio tra Voce e Ronda
troverebbe in molti vociani puri
anche indicazioni pienamente
stilistiche per la prosa
saggistica, ma certo con
l'accentuazione di coscienza
artistica nella Voce letteraria
e poi ben più chiaramente cori
il programma rondista, si inizia
una nuova concezione dei
rapporti fra cultura e
letteratura, un nuovo mondo di
civiltà letteraria in cui il
mito della concretezza del
rinnovamento viene sostituito
dal mito della concretezza
stilistica e da una pratica di
pagina assai diversa
dall'effusione impressionistica
e dallo scatto vociano.