LA MIRRA
Nell'Ippolito di Euripide comparisce Fedra abbandonata della
persona, col passo faticoso, il capo languente, magra, gli
occhi cavi: ha tutte le apparenze di una malattia mortale.
Che cosa è? È un Dio che si è gittato tutto in lei, che
l'arde e la consuma, e la tiene in un delirio e turbamento
di sensi che dà pur talora luogo alla ragione: allora ella
piange ed abbassa gli occhi per vergogna. E' una delle più
pietose scene che ci abbia tramandato l'antichità. Fedra ama
il figliuolo del suo marito; ed il Coro che compiange i suoi
mali, quando conosce ciò, manda un grido d'orrore. Ma notisi
bene. Si abborrisce la cosa in sé, non Fedra - si teme la
collera di Venere mostratasi in lei, invano ripugnante;
tutti la chiamano sventurata; nessuno la dice empia, se non
solo ella stessa, che non può scacciare da sé il nemico
Iddio, e sente tutto l'orrore della sua passione, e la espia
con la morte. L'influsso fatale di Venere e la passione
rimasta a distanza, non incontrandosi mai sulla scena la
matrigna e il figliastro, rendono tollerabile sul teatro la
Fedra antica. In Racine, Venere è una parola rimasta per
tradizione; il soprannaturale ci è per cerimonia; il fondo
del dramma è lo svolgimento progressivo di una passione
colpevole, ma non mostruosa. Qui non questione di teologia,
ma di poesia. Un fatto viene rappresentato dal poeta secondo
il giudizio che ne fanno i contemporanei e l'impressione che
ne ricevono. Nella tragedia di Racine non ci è il sentimento
di ciò che il fatto ha in sé di mostruoso e d'innaturale;
non ci è né presso il poeta né presso gli spettatori. Quindi
il poeta ha potuto alzare a Fedra il velo di cui l'ha
ricoperta Euripide; e condurre il suo amore verso il
figliastro fino ad una vera dichiarazione, ed il pubblico ha
potuto non solo tollerare, ma applaudire questa scena,
riboccante di bellezze poetiche. Mutate ora i nomi dei due
personaggi, chiamate l'uno Mirra e l'altro Ciniro; sia la
figlia che sveli il suo abominevole amore verso del padre al
padre; e a voi parrà che la terra vi tremi sotto i piedi e
che la natura si capovolga. È impossibile! Ciò segna
l'infinita distanza che separa la Fedra dalla Mirra. Questa
finisce, dove comincia la prima. La scoperta della passione
nella Fedra è il punto di partenza, nella Mirra è la
catastrofe. Racine ha per campo tutta la storia di una
passione colpevole in tutte le sue gradazioni dal punto
ch'essa è conosciuta; Alfieri ha per campo la storia oscura
e a lampi di una passione abominevole fino al punto che sia
conosciuta... Ma ciò che costituisce il pregio della Mirra,
è la sua originalità; è la passione colta in uno dei suoi
momenti non rappresentati ancora dalla tragedia, un nuovo
orizzonte aperto all'arte.
Mirra ama di un amore abominevole e lo sa, e teme che una
parola, uno sguardo, un gesto non la tradisca, e quanto più
si sforza e meno riesce ad occultare la fiamma: ella muore
nel momento stesso che il segreto le fugge di bocca. La
tragedia così è una lunga lotta la soverchia e turbasi
visibilmente. Le escono parole equivoche, in apparenza
naturalissime come il suo dolore di dover, maritandosi,
abbandonare i genitori:
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Non
li vedrai mai più!...
Abbandonarli... e morir... di dolore; |
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eppure,
guardando a' suoi gesti e sguardi disperati, che
oltrepassano qualsivoglia espressione consueta di filiale
affetto, lo spettatore si vede balenare qualche orribile
mistero e ne rifugge spaventato...
Nel terzo atto grande è l'aspettazione. Ecco la figlia per
la prima volta in presenza del padre e della madre. Quanta
tenerezza verso la madre, con quale abbandono le parla! come
i suoi sguardi cercano lei per tema d'incontrarsi in altri
sguardi! È sul suo seno ch'ella inchina il capo,
trangosciata e lacrimosa.
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Ma
che?... voi pur dell'orrendo mio stato
Piangete? Oh madre amata!... entro il tuo seno
Ch'io, suggendo le tue lacrime, conceda
Un breve sfogo anche alle mie!... |
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Ma il
padre! al primo vederlo rimane atterrita.
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Oh
ciel! che veggo?
Anco il padre!... |
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Né si
risolve a parlargli, e sospira e tiene gli occhi a terra e
impallidisce.
ella dice
esitando e si arresta.
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Tu
mal cominci; a te non sono
Signor; padre son io: puoi tu chiamarmi
Con altro nome, o figlia? |
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Ma tanta
tenerezza l'empie di tremore, né mai è ch'ella si attenti di
chiamarlo padre o di volger la parola a lui solo. Noi
assistiamo all'ultima prova di Mirra. Descritto pietosamente
il suo stato, ella ottiene da' genitori che le nozze si
stringano subito, che subito si parta; ed il terzo atto
finisce in una falsa calma. Sono imminenti le nozze .... La
scena terza dell'atto quarto in cui si celebra il sacro
rito, è la crisi della tragedia. Mirra in questo lungo
sforzo ha logore le sue forze; le sue parole sono vivaci e
risolute, ma gli occhi brillano di un ardore febbrile; ella
è piena di una esaltazione fittizia. Innanzi ai sacerdoti,
mentre il Coro invoca Venere e chiama le benedizioni celesti
sugli sposi, gli spettatori guardano con terrore il
sembiante trasformato di Mirra e convulso: la natura, quanto
più repressa, con tanto più impeto prorompe al di fuori. Si
precipita verso la catastrofe. La fanciulla non ode più, non
vede più; Venere la possiede tutta.
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Chi
al seri mi stringe? ove son io? che dissi?
Son io già sposa? Oimè!... |
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Stupefatti
noi la veggiamo respingere la madre, fuggire dalle sue
braccia, guardarla con occhi infocati; poi pentirsi e
chiederle perdono; poi imprecare, maledirla, riempier
d'orrore i circostanti, e poi di nuovo:
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Deh! perdonami, deh! ...non io favello:
Una incognita forza in me favella. |
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Il mistero
s'intravede, funerei lampi spesseggiano a chiarirci la
vista, eppur noi temiamo la luce già tanto desiderata e
chiudiamo volontariamente gli occhi per non vedere, per non
credere quello che già si dipinge nell'ansietà di tutti i
volti. Padre e figlia stannosi dirimpetto, soli. Il padre
alterna sdegni e carezze. Stringe fra le braccia la figlia
trepida, che fugge e ritorna e fugge ancora, ebbra, insana:
miserabile lotta del corpo infiammato e dell'anima
inorridita.
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. . . . Ormai per sempre
Perduto hai tu l'amor del padre, |
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esclama
Cinino corrucciato.
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. .
. . . . Da te morire io lungi?...
Oh madre mia felice!... almen concesso...
A lei sarà... di morire... Al tuo fianco. |
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Queste
parole sono illuminate dal gesto, dallo sguardo; l'orribile
segreto scoppia fuori, e nel tempo stesso la fanciulla cade
sul proprio sangue. Gli spettatori non han tempo di mandare
un grido d'orrore che già quel grido si trasforma in un
lungo gemito. L'ira è congiunta con la pietà, lo spavento
con l'orrore, e restiamo immobili. Padre e madre fuggono,
straziati da opposti sensi.
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-
Empia!... oh mia figlia!... - |
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Mirra muore
sola nelle ultime convulsioni mostrando l'interna ribellione
della natura alla sua volontà.
È una delle tragedie meglio concepite e più profondamente
pensate di Alfieri. Non ci è che un solo personaggio, che
parla, di cui si parla: tutti vi stanno per porre in luce,
per dar rilievo al protagonista. Nessuno, fuori di Mirra, ha
carattere, una individualità prominente; non vi è alcuna
distrazione; Mirra, anche assente, empie di sé tutto. Il
solo carattere che mi par vizioso è quello di Pereo, che si
uccide quando sa di non essere amato. Ciò fa supporre in lui
qualche cosa di eroico e un fervidissimo amore. Ben ci è
nelle sue parole; egli dice spesso che ama, che si
ammazzerà, ecc., mala sua passione è debolmente
rappresentata, il suo carattere è appena abbozzato e riesce
freddo e duretto. Alfieri ha temuto creare una individualità
possente che svolga la nostra attenzione da Mirra. La stessa
azione non ha niente di serio; essa è uno stimolo esterno
per far traboccare tutto ciò che ferve nel seno di Mirra.
Così tutta la tragedia non è che una serie di manifestazioni
sempre meno oscure secondo che la giovinetta è più stretta
ed incitata dai fatti, insino a che il fatale mistero le
esce di bocca. L'istrumento di queste manifestazioni sono
gesti, sguardi, sospiri che contraddicono alle parole, e
però la vera tragedia non è in quello che è espresso, ma in
quello che è rappresentato. Il gesto non è qui semplice
accompagnamento della parola, ma il rivale di essa che le si
pone dirimpetto, ed ora la commenta, ora l'accusa e la
smentisce. Gusterà questa tragedia un lettore di così viva
immaginazione, che si componga nella mente una Mirra
fantastica atteggiata in quella guisa che la vedeva il poeta. |