IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

CINQUECENTO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL CINQUECENTO

La fantasia ariostesca e l'episodio della luna

Il Furioso è un'interminabile fuga di avventure straordinarie e comuni, una vicenda perpetua di incontri inaspettati e di sùbite scomparse. Si rinnova ad ogni canto, e spesso più volte in un canto, la sensazione di una potenza che mova gli uomini, li avvicini, li mescoli, li disperda, li riunisca, «oltre la difension de' senni umani».
Il miracolo costante del poema è l'improvviso sopravvenire di nuovi personaggi a mutar la sorte dei primi e la fisionomia della scena; l'inatteso trascolorar degli eventi; il trapassare del paesaggio dalla solitudine deserta al tumulto, e da questo al più tranquillo silenzio; il risonar subitaneo di una nota gioconda, dolente, incantata, eroica in .mezzo ai luoghi riposati o silenti.
Non sono del nostro mondo quel fluire infaticabile di un'azione in un'altra; quel vento magico che trascina senza posa le donne e i cavalieri; quel continuo sorgere e cadere di ostacoli; quel continuo interporsi e svanire di distanze immense varcate in galoppate fantastiche. Sicché, pure in mezzo allo sfrenarsi delle avventure, si finisce per avere l'impressione di immobile corsa e di silenzioso fragore che danno i grandi viaggi della fantasia. A questo naturalmente contribuisce soprattutto l'arte dell'Ariosto, la musica del suo verso che diffonde intorno ai limpidi suoni un'atmosfera d'intento silenzio: perciò nelle sue pagine vi par di sentire l'aura nella quale vive la fantasia quando si allontana dal mondo e lo ricrea dentro di sé liberamente.
Il prodigio, dunque, è infuso in tutto il tessuto del poema, nell'intreccio delle sue fila nella natura dei personaggi, in quell'alleggerirsi costante delle comuni leggi della vita, in quella distanza discreta dalle necessità dell'esistenza quotidiana che toglie la verità ma ne lascia ancora l'illusione. Questa è la fisionomia generale del Furioso, non proprio quella di tutte le pagine: i toni vanno dalle allucinazioni del palazzo d'Atlante ai discorsi vivaci e salaci dell'oste di Rodomonte. La comune difficoltà di definire un capolavoro, qui è accresciuta da quell'altra caratteristica dell'Orlando, di avere una straordinaria mobilità di toni sicché ad un'osservazione frammentaria pare che nel poema echeggino tutte le voci della vita, mentre la verità ultima è che tutte vi si trasfigurano in un'aura un po' lontana.

La malia dell'arte ariostesca è nella sua natura insieme labirintica e limpida. Le ottave singole, le pagine, gli avvicinamenti di un episodio a un altro, la costruzione delle singole parti e la loro coordinazione nascono da questo carattere dominante. L'opera suprema dell'Ariosto è dare una veste affascinante al Caso che move tutto il poema: fare dell'Orlando una cangiante fantasmagoria, una rete di strade innumerevoli, dove il lettore non si smarrisce e non si stanca perché il volo del poeta è sempre accompagnato dalla beatitudine del suo pellegrinare.
Questo agevole affollarsi e vuotarsi, formarsi e disperdersi degli avvenimenti e delle scene nasce dall'agilità della fantasia, ma presuppone uno stato d'animo particolare che, diffuso dovunque, è però concentrato nell'episodio della luna - la remota fonte spirituale del poema -. Il corso di avvenimenti che d'improvviso s'ingrossa in fiume e d'improvviso s'attenua in ruscello, l'alternarsi incessante di silenzio e di tumulto, nascono da un atteggiamento dell'animo per il quale la realtà è un inconsistente fluire di eventi, dall'attitudine a scivolar sulle cose come sulla curva di un'onda, da una volubilità che è insieme della fantasia e del giudizio e spiega così le inconciliabili riflessioni sugli uomini e sulle donne come il perenne formarsi e disciogliersi delle scene. Riflessioni e avvenimenti sono nel Furioso nubi che accorrono, si trascolorano e dileguano a una folata di vento.
Le radici di questo mondo veduto come labile spettacolo d'immagini, come mobile vicenda di convinzioni, sono nel vallone della luna, dove è raccolto il senno degli uomini - la facoltà che dà un significato alla vita e consistenza alle cose -, e le cose della terra sono vedute da un'immensa distanza e come vanificate. Sicché tutto agli occhi del poeta di quest'invenzione, tutta la terra - per noi solida, ardente, tormentosa costante - si assottiglia in parvenze, per un'ispirazione sfuggente come un placido volo.

Nel vallone della luna è radunato ciò che si perde nel mondo per colpa degli uomini o del tempo o della fortuna. Là finisce la fama, che qui si consuma; là salgono le preghiere e i voti che i peccatori fanno a Dio, le lagrime e i sospiri degli amanti; là si ritrovano il tempo perduto nel giuoco, l'ozio degli ignoranti, i desideri e i disegni vani, i grandi regni antichi, i doni interessati, le adulazioni, i favori dei principi, i trattati, le congiure, l'opera dei monetieri e dei ladroni, le elemosine postume, la donazione di Costantino, le bellezze delle donne. Notate la mescolanza di cose frivole e vili e di cose serie; e, se vi rimanesse, qualche dubbio intorno all'atteggiamento del poeta, fermatevi alla conclusione:
 
  Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
Le cose che gli fur quivi dimostre;
Che dopo mille e mille io non finisco,
E vi son tutte I'occurrenzie nostre,
 

e al corollario:
 
  Sol la pazzia non v'è poca né assai;
Che sta qua giù, né se ne parte mai.
 

La terra, dunque, è il regno della pazzia; e pazzia è tutto ciò che l'uomo vi compie. Infatti il senno degli uomini è svaporato quasi tutto nella luna:
 
  Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
Che mai per esso a Dio voti non férse;
Io dico il senno: e n'era quivi un monte,
Solo assai più che l'altre cose conte
 

Li Astolfo vede il senno di molti che egli riteneva pieni di saggezza: chi lo perde per l'amore, chi per gli onori, per le ricchezze, per la magia, per la poesia. È difficile, oramai, dire a chi l'Ariosto decreterebbe la corona del saggio: forse solo al povero di spirito.
Veduta a questo modo, la terra sembra una bolla di sapone, la vita un'auretta bizzarra, la poesia il sogno di un uomo senza cervello. Disegni, dolori, speranze paiono - in quel remoto vallone - farneticazioni spente; a quella distanza favolosa la terra si fa lieve e vana, il significato e il segreto della vita inafferrabili: il senno:
 
  Era come un liquor suttile e molle,
Atto a esalar, se non si tien ben chiuso.
 

Dopo questo si comprende che l'Ariosto apra il canto seguente con quel magnifico esordio improvviso, fra moqueur e lirico:
 
  Chi salirà per me, madonna, in cielo
A riportarne il mio perduto ingegno
 

Non bisogna, infatti, esagerare il senso di distacco che dà questo episodio: non ha nulla di aereo, ma quel tono sospeso fra la realtà e il sogno che è la nota costante di tutto il poema. Le idee trapassano rapide ma immaginose, e il verso - soprattutto nelle clausole - canta amabile e chiaro. Non siamo in un'atmosfera di Sehnsucht, di spleen, in una superba altezza metafisica, ma in una sfera dove all'aria fine della spiritualità si mescola la luce tenue dell'arguzia.
L'immaginazione parte da quella che noi chiamiamo volgarmente «il mondo della luna», e la capovolge. Qui è la terra che è diventata il mondo della luna; e il pallido astro che illumina le nostre notti di illusi, è lo specchio nel quale si riflettono le nostre vanità di terrigeni. In quel vallone si raccolgono con le loro vere sembianze tutte le cose ingannevoli e inconsistenti della vita: e la pazzia che le genera senza tregua, rimane sempre in terra a tessere la sua perpetua tela:
 
  Sol la pazzia non v'è poca né assai;
Che sta qua giù, né se ne parte mai.
 

L'episodio è una fantasia originale, vaga, attraente, corrosiva, circondata di sorrisi e di silenzio. Certi versi, labili come la ruota della fortuna o muti come l'oblio, vi danno in fugaci istanti l'impressione grave del tempo che smorza il frastuono delle nostre vicende; ma altri, mescolati con questi, fissando in aspetti coloriti e arguti le vanità sepolte nella luna, attenuano quel senso di caducità, e vi mantengono in quella sfera media tra la sfumatura e la forma che è il carattere della poesia ariostesca. Finché quest'impressione indecisa culmina nella figurazione del senno, insieme chiara e impalpabile, grave e arguta:
 
  Era come un liquor suttile e molle,
Atto a esalar, se non si tien ben chiuso.
 

 

Attilio Momigliano

© 2009 - Luigi De Bellis