BARTOLI E
SEGNERI
Entrambi
gesuiti, entrambi rivolti a una concezione edificante della
letteratura, il Bartoli e il Segneri digeriscono
profondamente per i modi con cui perseguono il loro fine.
L'opera del Bartoli nasce dalla fervida contemplazione e
descrizione dell'infinita ricchezza del mondo sensibile, che
appare allo scrittore come un meraviglioso spettacolo del
quale con commozione egli rileva la bellezza, lo splendore,
l'ordine come vivi segni dell'azione creatrice di Dio.
Scenograficamente pittoresco e grandioso è lo stesso
capolavoro del Bartoli, l'Istoria della Compagnia di Gesú,
in cui l'intento di celebrare eroicamente le imprese
missionarie, portatrici dello spirito religioso del concilio
tridentino, si unisce col gusto dell'agitato fantasticare di
avventure e vicende sullo sfondo di nuovi, infiniti spazi.
Al contrario, nell'oratoria del Segneri si avverte la
concretezza della vita e della società italiana del
Seicento, che il predicatore passa in rassegna con
realistica precisione, inserendone l'acuta osservazione
nell'alta dignità e nella drammatica commozione delle sue
esortazioni religiose e morali.
Il piacere di contemplare gli oggetti nella loro pienezza,
di perdersi nella dovizia della materia e delle sue forme
per riscoprirvi i meravigliosi rapporti che Iddio ha
stabiliti fra tutte le sue opere, guida lo scrittore della
Ricreazione, dei Simboli, della Geografia a un lavoro
paziente di preziosissime analisi, di mosaici decorativi,
con un fervore untuoso di animo commosso e un'attenzione
fertile, morbida e sensuale. Davanti all'occhio del «savio»
cristiano la realtà si dispiega, allora, come una struttura
pittorica di «colori carichi o dolci, taglienti o sfumati»,
come un quadro prodigioso di «imagini a capriccio»: «fabriche,
prospettive, paesaggi, animali, fiori, frutti» che sono
insieme le «cifre» copiose di una lettura metafisica
dell'universo. Il rapimento di meraviglia, l'estasi
tranquilla a cui il Bartoli mira nelle sue «nature morte»,
nelle sue sontuose sperimentazioni del reale, debbono poi
disporre l'intelletto a cogliere lo « stupendo artificio »
della macchina cosmica e a riconoscere, alle soglie del
sublime, la «sapienza ingegnera» che ne ha voluto la
creazione. L'esercizio letterario del Bartoli non si può
quindi disgiungere dalla sua spiritualità di gesuita che
tenta di conciliare la tradizione umanistica e la scienza
lungo la linea del simbolismo cristiano per promuovere, cosí,
un'apologetica moderna dello «stupore» naturale, della
commozione sensibile, in parte sull'esempio di un padre
Mersenne. E questo spiega ancor meglio perché la vita gli
appaia poi un «teatro», uno «spettacolo» edificante di
avventure e di personaggi che popolano via via la grande
scena del mondo.
Anche l'Istoria ubbidisce alla stessa logica teatrale, come
apoteosi, più ancora che come cronaca, del sacrificio
religioso e dell'eroismo cattolico moderno. In difetto, per
di più, di un'esperienza personale, il Bartoli proietta la
sua nostalgia di missionario mancato nel teatro della
immaginazione. Egli dilata allora i ricordi giovanili delle
sue traversate marine, delle sue marce notturne, in uno
scenario pittoresco tra oceani in tempesta e montagne
inaccessibili, e rivive i documenti umani con l'unica logica
che ha familiare: quella del dramma devoto e della pittura
sacra. Eppure, anche nei limiti di una concezione cosí
sostanzialmente astratta, l'opera rivela un'architettura
grandiosa e patetica, di un gusto, come potrà pensare
qualcuno, non indegno di un Bernini e del suo senso dinamico
dello spazio. E certo, il nome del Bernini è il solo a cui
ci si possa richiamare per definire analogicamente una prosa
quale è quella dell'Istoria, che conferisce movimento alla
compostezza classica, che sa trascorrere dalla sinfonia
descrittiva al racconto severo, dove alla pagina di
eloquenza può fare seguito una partitura di grande,
indimenticabile romanzo. Qui, senza dubbio, l'orizzonte
«devoto» del Bartoli s'apre oramai su di un mondo di civiltà
ignote, di terre e mari lontani, sotto l'immenso cielo che
la nuova scienza ha svelato allo stupore degli uomini.
Mentre il patetico bartoliano ha per sfondo un paesaggio
esotico e vive nelle dimensioni luminose dei «vastissimi
spazi» ricreati dalla fantasia; quello del Segneri richiama
piuttosto alla mente un oratorio saturo di incenso, un suono
d'organo, di fanfare esultanti per le volte di una chiesa
barocca. La retorica degli affetti, dell'emozione corale,
della catarsi devota secondo gli schemi della psicologia e
della propaganda gesuitiche, attinge nel Segneri una dignità
severa, seppur macchinosa, svolgendosi, in contrasto con le
spampanate eleganze della predicazione «analogica», su di un
registro drammatico ora nelle forme di una disputa
affettuosa, ora nelle cadenze di un lirismo iperbolico, e
trascrivendo il discorso biblico in un declamato teatrale
che non è privo di forza. L'oratoria del Segneri è fastosa
ma commossa, concitata ma densa, spettacolare ma sensitiva:
scandita da un gesto nobile e ampio, che amplifica
l'evidenza di una lingua plastica, schietta, essa nasce,
oltre che dalle ragioni di un genere letterario e dal gusto
di una civiltà, dalla coscienza di un cattolico austero. Si
sente nel Quaresimale la forza della Controriforma, l'eco
delle missioni portate per le campagne dell'Italia, in un
mondo di contadini e di poveri che bisogna consolare con
l'immagine di un cielo sfolgorante, popolato di angeli e di
beati. Ma questo assiduo, faticoso contatto con il peccato
quotidiano educa anche a una saggezza realistica, a una
minuziosa esperienza di uomini e cose. Più che la novità
degli argomenti, ciò che si apprezza nell'apologetica del
Segneri è la ricchezza dell'osservazione, l'arguzia del
narratore con certi movimenti che sembrano già manzoniani, e
soprattutto l'analisi di costume, il gusto dell'ambiente
contemporaneo, dalle guerre che hanno desolato l'Europa alla
vita di un paese con il suo ballo domenicale. Cosí, la
società del Seicento sfila dinanzi a un pulpito per essere
giudicata da un moralista che ferma lo spettacolo del mondo
nei colori disfatti della decadenza. |