Il disegno ideale del Boccaccio
Il
Decameron non è soltanto un libro giocondo e lascivo;
anzi, le novelle sensuali sono talora più fiacche di
quanto non si creda. Ragioni storiche - specialmente i
numerosissimi imitatori dei racconti disonesti - hanno
contribuito a fissare un giudizio comparativo inesatto:
la parte onesta del Decameron non è inferiore a quella
licenziosa. Del resto chi ricercasse le testimonianze,
meno rumorose, ma costanti, dell'ammirazione che ha
accompagnato attraverso i secoli parecchie novelle sane,
troverebbe anche qui un fondamento per giustificare il
proprio giudizio.
Ma si tratta sempre di testimonianze più che di analisi
meritevoli di attenzione: imitazioni, traduzioni,
citazioni di linguai e di grammatici.
Il Boccaccio era capace di ritrarre la vita sana e
semplice non meno che quella dissipata. Falliva solo
quando voleva dare ai sentimenti profondi un'apparenza
sovrumana; quando per render nobili i suoi personaggi li
gonfiava con un fare sfarzoso e -gigantesco. Anche il
Boccaccio ha le sue ore di esteta, specialmente
nell'ultima giornata. Ma quando sa trovare l'eroismo
nella rassegnazione quotidiana, quando sa dare alla
virtù la parola piana che nasce da una lunga abitudine
spirituale, allora nessuno è più grande pittore della
coscienza retta e forte. Se nella novella di Tito e di
Gisippo e in quella di Griselda egli esce enfatico o
freddo, questo deriva - più che da una insufficienza
morale - da stanchezza fantastica: allora gli vien meno
la capacità di tradurre in fatti concreti le virtù
astratte. Ma per lo più egli dimostra così
quest'abitudine come quella di ritrarre in quadri
viventi i vizi dell'umanità. Quando racconta le vicende
di Federigo degli Alberighi, del conte d'Anguersa, di
Bergamino, dell'infelice amante di Martuccio Gomito,
egli ha una potenza di costruttore simile a quella delle
più celebrate novelle di beffa e di lussuria.
In tutte le sue novelle riuscite, qualunque sia il loro
argomento, si avverte una meravigliosa armonia fra i
personaggi e i fatti nei quali essi agiscono, una
proporzione perfetta di sfumature fra gli uni e gli
altri: sicché tutto sembra nato ad un tempo, e nulla
tradisce la goffaggine della fantasia propria de' suoi
imitatori, dove è raro trovare un'azione così bene
appropriata ad un personaggio, che questa non si possa
indifferentemente, cioè con uguale malagrazia,
trasferire ad un altro qualunque dei molti appartenenti
alla medesima specie.
Quest'armonia è una delle cose che si possono ancora
imparare esaminando il Decameron. Un'enumerazione di
esempi non giova: ci vuole un commento o uno studio
compiuto per far vedere quali osservazioni non
indifferenti si possano ricavare dal confronto fra tipi
simili e diversi quali sono ser Ciappelletto e la
Ciciliana; la Ciciliana, la vedova beffata dallo scolaro
e la seduttrice del conte di Anguersa; Calandrino, il
giudice marchigiano e Andreuccio da Perugia; ecc. Forse
per questo riguardo la minor ricchezza di toni e la
minor pieghevolezza di fantasia è proprio nelle novelle
erotiche. In queste non sempre il carattere è così ben
delineato, che ne sorga inevitabilmente lo sviluppo
dell'azione; e certo è più facile ricordare i personaggi
degli altri racconti che di questi.
Alla piena soddisfazione che lasciano in noi tante
novelle del Decameron contribuisce, oltre questa
coincidenza così precisa, una rara padronanza della
prospettiva. È relativamente difficile trovare in questo
libro un particolare esuberante; dirò di più: non c'è
una novella in cui ci sia un personaggio non necessario
- nemmeno nelle novelle fallite. Al servo di frate
Cipolla è dedicata un'intera pagina descrittiva ma
sopprimete Guccio Imbratta, e il suo padrone diventerà
una figura più pallida.
Come i personaggi, così i fatti sono perfettamente
commisurati; ed ogni novella è un tutto che non si può
diminuire, né accrescere, né variare. Leggete, per un
esempio luminoso, quella di Martellino. Poche sono
quelle che risultano di due parti giustapposte: per
esempio, quella di Cimone, che ha una pagina da grande
poeta dell'amore ed altre avventure che stanno quasi a
sé.
Altri giudizi bisogna correggere o precisare,
fugacemente.
Il Boccaccio retore, fiorito. Parecchi ripetono
quest'affermazione, sia pure attenuandola... Anche per
questo riguardo gli imitatori hanno nociuto alla fama
del modello. La verità è che il Boccaccio grande è uno
degli scrittori più parchi che abbia avuto l'Italia.
Ditemi che cosa si potrebbe togliere alla novella di
Calandrino derubato del porco, a quella di Martellino, a
quella di Lisabetta...
L'« onda voluttuosa del periodo » del Boccaccio è una
formula che fallisce alla prova di molte pagine. Il
Boccaccio fu certo anche nel Decameron uno scrittore
eloquente: ma spesso fu un artista di tutt'altra tempra.
E anche nella sua eloquenza c'è un atteggiamento che è
pura e pessima retorica - quello dei discorsi della
novella di Tito e Gisippo -; ce n'è un altro che è un
tersissimo specchio dell'anima per esempio, delle
seduttrici -; ce n'è un altro che seconda la commozione
grandiosa della mente dinanzi a fatti immani - la peste
-; ce n'è un altro, infine, che ha un semplice ufficio
decorativo, e appare nella cornice del libro.
Le introduzioni e le chiuse delle giornate sono, più che
altro, aristocratiche, hanno l'eleganza tenue ma
seducente delle curve, delle fronde e dei fiori che
circondano l'affresco di una parete. Staccate, quelle
pagine sono senza vita; ma nel libro hanno il loro
ufficio e anch'esse, con la loro superficialità rivelano
l'armonia profonda della fantasia del Boccaccio. Hanno
un solo difetto: una certa povertà di motivi; il tema
idillico vi ritorna con variazioni troppo scarse.
Anche l'oscenità del Boccaccio è un po' calunniata da
giudizi sintetici e scoloriti. Sappiamo tutti che altro
è la licenziosità di questo scrittore, altro la
licenziosità del Bandello. Ma bisognerebbe che
esaminassimo le nostre impressioni. Il Bandello per lo
più cerca la sudiceria: a novella finita, si sente che
egli non aveva altra mira, e che ci voleva arrivare ad
ogni costo. I suoi racconti sensuali non stanno in
piedi, e davvero non interessano che i nostri istinti.
Il Boccaccio per lo più arriva alla sensualità perché
questo è lo sbocco naturale della strada per cui si è
messo. Anzi, il momento carnale è il più fuggevole nei
suoi racconti lascivi; e di solito esso si esprime con
parole che nascono più dalla necessità artistica che
dalla compiacenza dell'uomo che scrive. Bisogna badare
alla brevità di questi istanti ed alla loro
giustificazione psicologica per limitare esattamente la
natura immorale del Decameron e per scoprire la serietà
che sta a fondamento anche della maggior parte delle
novelle licenziose. Non mi posso indugiare, perché
questa prefazione non vuol essere che una serie di
appunti, e perché il libro è destinato anche agli
adolescenti; ma è bene che tutti sappiano che pure nei
racconti disonesti il Boccaccio studia quasi sempre con
serietà un aspetto dell'uomo. Mi basta accennare alla
scena della tentazione nell'orto delle monache: poche
linee, d'una densità sintetica ammirevole, che
contribuiscono con la potente figura bestiale del
protagonista a fare della novella di Masetto di
Lamporecchio uno dei capolavori del libro.
La pieghevolezza della fantasia del Boccaccio, così
all'ingrosso, non è ignota a nessuno: non per nulla il
Decameron si chiama la «commedia umana». Ma questa
ricchezza di fantasia non è ancora stata descritta: e
l'arte dei libri che non è ricercata in tutte le sue
pieghe significative e rappresentata con la concretezza
che noi chiediamo ad uno scrittore per conoscere un suo
personaggio, finisce per essere più affermata che
sentita e posseduta. Conoscere un capolavoro, averne
familiare la fisionomia, non è molto facile: una gran
parte della sua molteplicità sfugge ai lettori che non
abbiano un'intuizione singolarmente rapida. Ci vuole un
certo sforzo e una certa abitudine per trovare anche
nelle pagine meno robuste i segni continui
dell'originalità di uno scrittore. Per questo alcune
figure del Decameron sono poco note, o ammirate con
un'astrattezza che non ne esplora affatto l'intima
vivacità. Non so quanti dei miei lettori si siano
fermati sul bellissimo prologo della novella di Bernabò
da Genova pensando che il tema, sia pure vecchio, sembra
nascere inevitabilmente in quel crocchio di viaggiatori
di commercio; né so quanti avranno visto in quella prima
pagina il colore e la giocondità dell'ambiente, e poi
nel protagonista e nel suo avversario due fra i
personaggi meglio studiati e meglio delineati del
Decameron. Forse non pochi meditando la novella di
Fortarrigo scoprirebbero in lui un delinquente ritratto
con sapienza e con potenza; rileggendo quella di Giotto,
sentirebbero quanti particolari contribuiscano
all'impressione finale, che è assai superiore
all'arguzia; fermandosi su quella di Lisabetta,
scoprirebbero una malinconia misurata e profonda nella
tranquilla pazzia di questa giovane, e una tetraggine
uguale che si estende su tutto il racconto; seguendo le
avventure di Pietro Boccamazza sentirebbero come esse
nascano da quelle strade solitarie e paurose che, non
mai descritte di proposito, riempiono di orrore tutto il
racconto. E messi su questa via, gusterebbero quasi come
una cosa nuova l'immersione dei personaggi
nell'ambiente: il deserto insidioso delle campagne fra
cui errano, per esempio, Rinaldo d'Esti e la moglie di
Bernabò; le sale e gli apparati magnifici da cui
traggono il loro colorito più vivo la liberalità di
messer Torello e la generosità di Gentile de' Carisendi;
il villaggio, patriarcale o grossolano, che costituisce
lo sfondo dell'amorazzo del prete di Varlungo e
dell'amara sventura di Calandrino derubato e beffato; le
viuzze della malavita fra cui s'avvolgono Andreuccio da
Perugia e i due amanti di madonna Francesca; la
solitudine idillica in cui si posa malinconicamente la
tenerezza materna di Beritola; la quiete dell'esistenza
primitiva che riconduce nell'anima di Gostanza l'amore
della vita.
E riconoscerebbero al Boccaccio una sapienza che va
molto al di là della beffa volteriana e libertina e una
sostanza umana ricchissima. L'odio che freme nella
novella dello scolaro burlato dalla vedova, è terribile
come quello dell'Inferno dantesco, e il paesaggio arso e
taciturno che si stende ai piedi di Elena ha una ferocia
grandiosa che non è né da libertino né da buontempone;
il fervore con cui Pampinea richiama la sua compagnia
dalla tristezza della peste alle gioie della vita, la
bontà di certi personaggi, la sapienza dei grandi del
Decameron, la spontaneità di certi rivolgimenti
psicologici rivelano un'esperienza, una sanità superiore
di coscienza, un'abitudine meditativa a cui si pensa
troppo di rado parlando del Boccaccio.
Il quale non fu soltanto un giocondo profanatore di
sentimenti rispettabili o sacri, un allegro burlone, un
uomo simpatico e buono, ma anche uno degli uomini più
completi che abbia avuto la nostra poesia. |