La lirica
del Bembo
È impossibile parlare della lirica del Bembo senza
implicare un discorso di troppo più vasta portata sulla
complessità della sua figura di critico e di platonico
filosofo: insomma d'istitutore generale di un costume i
cui caratteri coinvolgono settori ben più vasti di
quanto non sia quello di una semplice pratica
sonettistica. Potremmo, volendo, raccogliere anche tra i
moderni qualche testimonianza favorevole al tono e alla
sensibilità della sua voce; ma è fin troppo evidente a
quali pericoli andrebbe incontro una disposizione
critica sprovveduta e affidata a semplici reazioni di
gusto. Un'identificazione dei fatti poetici del Bembo
con i caratteri della sua più vasta missione culturale
fu perciò sempre favorita dalla responsabilità storica
che il Bembo aveva assunto .nel quadro del suo tempo; e
nella stessa maniera che quel ruolo di protagonista di
una complessa vicenda della cultura italiana fu più o
meno approvato e condiviso dai posteri, le stesse prove
poetiche dello scrittore ne risentirono profondamente.
Per questo già il rinnovato interesse degli Arcadi
identificava nel poeta l'umanista pioniere di una
cultura nuova. Sommamente indicativo è a questo
proposito il giudizio del Muratori: «Il secolo seguente
dal 1500 insino al 1600 fu senza dubbio il più fortunato
per l'italica poesia, essendo questa, per così dire,
rinati e giunta ad incredibile gloria in ogni sorte di
componimenti. A Pietro Bembo, che fu poi cardinale,
l'Italia è principalmente obbligata per sì gran
beneficio. Non solamente la lingua nostra per cura sua
tornò a fiorire più che ne' tempi andati, ma il gusto
ancor del Petrarca tornò a regnare negli ingegni
italiani». È già evidente attraverso queste poche righe
in quale misura il neopetrarchisrno arcadico per la sua
posizione reazionaria in senso antimarinistico fosse
determinato ad una esaltazione dell'esperienza lirica
del XVI secolo e alla sua riduzione, per quanto più
possibile assoluta, all'intervento storico del Bembo. Da
una tale impostazione si doveva giungere
conseguentemente a riconoscere tutti i crismi a quella
poesia. Sempre il Muratori affermava: «Ora, generalmente
parlando, i poeti di quel secolo ebbero gusto sano,
scrissero con leggiadria, adoperarono pensieri profondi,
nobili, naturali, ed empierono di buon sugo i lor
componimenti». Assai affine al giudizio del Muratori,
dovrà considerarsi, quanto al Bembo, quello del Gravina
che, dopo avere indicate le vicende della italiana
lirica, conclude: «Poté questo genere di poesia
ripigliar colle mani del Bembo la cetra del Petrarca»;
dove, oltre l'apparato eloquente del discorso, si
dovranno avvertire le stesse ragioni storiche che
avevano ispirato il Muratori. Anche il Gravina
d'altronde, come il Muratori, avvertiva, secondo una più
segreta disposizione critica, l'insufficienza artistica
di tanta parte di quella poesia: masi trattava di un
rilievo proposto cautamente e non emerso a una piena
coscienza: quella cetra del Petrarca fu «imitata poi
degnamente da stuolo sì numeroso, che non trova qui
-luogo per sé capace; e così noto, che muri oltraggio
riceve dal nostro silenzio. Conciosiaché niuno di loro
per propria invenzione richieda da noi giudizio
distinto, se non che il Casa». Ora, se quella
limitazione non implicava la figura del Bembo, ciò era
dovuto soltanto alla preoccupazione di contrapporre
polemicamente il secolo XVI al XVII in nome del
petrarchismo, del quale appunto nel Bembo si riconosceva
il massimo rappresentante. Debbono perciò considerarsi
come improntati a un carattere di eccezionalità i
giudizi del Crescimbeni e del Quadrio che nel Settecento
sembrano distinguere, se pure con un carattere di
precisazione, la realtà poetica del Bembo dalle sorti
del petrarchismo, lamentando in quelle Rime un eccesso
d'imitazione. Dalle premesse critiche dei primi arcadi -
vorremmo soprattutto insistere sul Muratori e sul
Gravina -, secondo un'accentuazione della tendenza
apologetica della lirica cinquecentesca si doveva
giungere, per quanto concerne il Bembo, alla posizione
estrema d'incondizionato favore rintracciabile nelle
Annotazioni di Anton Federigo Seghezzi alle Rime secondo
la grande edizione veneziana del 1729; oppure,
sviluppando le intenzioni critiche larvatamente ostili a
un'eccessiva imitazione petrarchesca, si doveva
approdare al furore iconoclastico di un Bettinelli o di
un Baretti, ove sarebbe illusorio cercare di scorgere un
interesse diretto - sia pure ispirato da una
determinazione ostile - al testo e alla figura
individuale del poeta: ancora una volta la
considerazione generale sul petrarchismo s'identificava
nella persona stessa del Bembo. D'altronde il Baretti,
distinguendo più lucidamente dei critici precedenti - e
dello stesso Bettinelli - un petrarchismo riducibile ai
propri esercizi poetici da un petrarchismo come fatto
essenzialmente critico e culturale, sembrava proporre la
formula critica di un Bembo inutile poeta ma
indispensabile uomo di cultura secondo un'indicazione
ancora una volta a piacere estendibile dalla persona
specifica del Bembo al complesso di tutto il fenomeno
petrarchistico. Così il Baretti riconosceva che
«l'Italia e forse tutta l'Europa deve moltissimo a'
cinquecentisti», precisando che «le lingue dotte, e la
grammatica, e l'arte del dire, e tutte le parti della
filologia, principali fondamenti di tutte le scienze,
furono da' cinquecentisti coltivate molto e rese piane e
di facile acquisto al mondo». Che tale impostazione,
sottolineando il carattere critico e culturale del
petrarchismo rispetto a quello creativo e di riflesso
biografico ed esistenziale esaltato soprattutto dal
Cinquecento, costituisse una novità per il suo stesso
senso quasi storicizzante, non è dubbio; ma dovrebb'essere
altrettanto evidente il pericolo di «facilità» a cui per
la deficienza di approfondimenti ulteriori sarebbe
potuta approdare tale formula. Recentemente il Croce
riproponeva un'interpretazione della figura del Bembo
articolata secondo un riconoscimento della sua attività
culturale e una negazione della sua opera artistica.
Infatti, dopo aver riconosciuto che «il Bembo adempì un
ufficio di molta importanza nella storia della poesia e
della critica italiana», conclude che sulla sua
«gloriosa figura di apostolo» non gettarono ombra le sue
opere (il Croce usa la parola pesare «delle quali il De
Sanctis a ragione si sbrigò con recise parole negative».
Particolarmente degli Asolani il Croce osserva che si
tratta di «una delle molte teorie dell'amore che si
ebbero nel Cinquecento e delle più deboli e pallide»; e
quanto alla poesia riconosce il valido giudizio di
pedanteria; e, nelle sue pratiche applicazioni, il
concetto d'imitazione che ebbe il Bembo gli pare
«ripetizione propria dei particolari di una poesia o di
un poeta, disciolto il loro nesso».
Ma nel quadro di un'intelligenza più approfondita
dell'opera del Bembo, il Ferrero aveva già avvertito che
«ad una piena comprensione e ad un equo giudizio su quel
grande letterato non è né legittima né utile una rigida
separazione fra i due aspetti dell'opera sua: la quale
dovrà invece essere considerata unitariamente, vedendo
negli Asolani, nelle Prose, nelle Rime... tre momenti di
una stessa attività, di cui l'uno non può stare, e non
può essere interamente compreso senza l'altro». E queste
parole del Ferrero vorremmo intendere non tanto nel
senso di una stretta interdipendenza dei vari documenti
artistici o critici del Bembo, quanto secondo l'esigenza
di recuperare un significato compiuto di quella figura
non soltanto per la sua umanistica istituzione rettorica,
ma nelle stesse dimensioni degli Asolani e delle Rime,
che furono avvertiti dal Cinquecento come gli esempi più
validi dello spiritualismo petrarchesco e delle esigenze
di perfezione estetica proposte dal Canzoniere in vita e
in morte di Laura.
Ma, prima del Ferrero, il Dionisotti aveva richiamato
l'esercizio delle Rime all'esperienza delle Prose non
già nel segno di un magistero della tecnica che con le
Prose si fosse definitivamente costituito, ma come
pratica esemplificazione rispetto a un precedente
teorico, per cui il Bembo avrebbe continuato in altro
registro - quello lirico e più propriamente creativo - i
suoi interessi critici per la lingua volgare: «Non sono
uno sfogo dell'anima, ed è inutile rivederle alla luce
di questo o quel sentimento-tipo... dipendono dalla
ricerca compiuta nelle Prose e ne sono la eco sottile;
significano per il Bembo un ritorno ogni volta diverso e
nuovo a quella esperienza della lingua e della poesia
volgare che era il tesoro della sua cultura».
Da parte nostra, nonostante che il carattere di
esercizio retorico sia ineliminabile a ogni pagina
dell'intera opera bembiana, in coerenza alla teoria
dell'imitazione, vorremmo indicare nelle Rime, insieme
con gli Asolani, il documento massimo di un petrarchismo
di costume per il quale il Canzoniere fu modello di
stile, ma anche specchio di vero amore e perfetto
itinerario di vita. |